Marco Vitale
“Pareri sul mondo oscuro” di Baldo Meo

Silenzio e visioni

«Frammenti e coordinate di pensiero, di meditazioni sulla storia, di voli da decifrare e di oracoli…». La quinta raccolta del poeta romano è un cammino fondato su snodi di forma e di senso per tentare di decifrare l'oscurità che si annida nelle cose

Ci sono poeti che offrono la coerenza della loro materia, della loro musica perfettamente accordata – e sia pure per minime varianti – nel corso di una intera vicenda di scrittura. Altri che stabiliscono invece un cammino i cui snodi, e di forma e di senso, vengono a costituire forse il loro tratto di maggiore interesse. Il romano Baldo Meo, giunto alla sua quinta raccolta (Pareri sul mondo oscuro Puntoacapo, 2022, 78 pagine, 15 euro) è certamente fra questi e in una nota di rara trasparenza, in chiusura del suo ultimo libro, è lui stesso a darne conto. Sappiamo così dalle sue parole come questi pareri abbiano accompagnato negli anni un tragitto di poesia di varia articolazione, quasi uno scrivere per glosse, un controcanto, una possibile finestra schiusa a dare ingresso a una luce imprevista con le sue anche allarmanti implicazioni, fino a che tutto, lentamente ma inevitabilmente, si è trovato come composto in un ordine necessario, in una sua autonoma ragione. Libro della crisi, come il bellissimo titolo suggerisce, sembra aprirsi con un’invocazione alle Muse, figure che si rivelano in incipit con ironico aspetto di simbolo e a cui il poeta affida le sue carte. Sì, di fronte al mondo oscuro, un mondo che naturalmente non ci parla solo dell’oscuro oggi, nulla è garantito e il procedere si dà per intuizioni, affondi, tentativi che la scrittura segue in forma di frammento e restituisce riflettendone talora la luce, talora il buio. Un buio, non ci sarebbe forse neanche bisogno di precisare, che annida nelle cose e si oppone all’indagine. Di qui il tono non di rado oracolare, sciamanico è stato anche detto (Giancarlo Pontiggia, nella nota in quarta di copertina) che crea un clima sospeso con il quale il lettore è invitato a venire a patti. 

«Finché non viene rivelato in simboli / il mondo resta muto». Si parte dunque da qui, da questa incrinatura del silenzio che favorisce la visione: «Lumache, sanguisughe, larve, tarantole – / il mondo oscuro compone danze / difficili da raggiungere in perfezione. / Noi dobbiamo smetterla di inventare verità, / negoziare nuovi destini, muovere guerra al divenire – / lo stesso passare è saggezza, non solo rovina per l’uomo». Ed è un transito che sembra lasciare tracce incise nell’argilla, su frammenti di papiro, su delicati fogli di carta di riso da cui traluce un haiku: «Disperdermi in te (quale amore è più grande?) / come il fiume nella corrente». Ovvero pure epifanie: «L’ibisco rosso scoppia / sul muro azzurro della tua casa».

Ma è l’intero libro a darsi come tramato da un pensiero che riconosce i suoi limiti, e intuisce lucidamente, e laicamente, come non tutto sia riconducibile a un’ascissa e a un’ordinata poiché tanto, troppo ne esonda. Di qui i sondaggi, i tentativi cui si faceva cenno. Di qui il distacco, nozione cara alla mistica renana quanto alla Stoà, suscettibile dunque di un percorso verticale come orizzontale. E se «la conoscenza era salvezza» nella rigida interpretazione gnostica, il poeta sa che nel combattimento tra la luce il buio, nel mondo corso da allarme escatologico è dato pure ritrovarsi nel qui e ora: «In attesa che il male si distacchi dal bene / coltiviamo le nostre piante, incontriamo i nostri amici, / ripariamoci dalla pioggia fitta che annulla i contorni».

Non resta dunque al lettore che abbandonarsi al fluire di questo bel libro di frammenti e coordinate di pensiero, di meditazioni sulla storia, di angeli e animali bene accosti alla terra che li nutre, di voli da decifrare e di oracoli, ma sapendo tuttavia che a volte «Il veggente non è all’altezza / della sua profezia, / l’analisi non regge all’urto. / Un piatto di pane e di uva / dovrà bastar[ci] in questo ciclo in cui restiamo».

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