A proposito di "Mostruosa Maternità”
Racconti di famiglia
Romana Petri, con una nuova raccolta di racconti, continua a perlustrare le complessità dei rapporti familiari: la maternità è una condizione felice però può costellarsi di incidenti e può diventare mostruosa e trasformarsi in un incubo
Seguo l’evoluzione letteraria di Romana Petri fin dai primissimi libri: fin dal primo, Il Gambero Blu e altri racconti, Rizzoli 1990 (cui seguì subito il romanzo Il ritratto del disarmo, titolo stratosferico). Quel suo esordio fu deciso, voluto!, da Giorgio Manganelli, sponsor anche di Sandra Petrignani: un burbero benefico che si aggira spesso tra le pagine della Petri fino a ottenere in Cuore di Furia (Marsilio, 2020) un ruolo di primo piano apertamente conferito, senza più alcuna ombra di dubbio.
Ciò che colpisce nella letteratura di Romana Petri è la forza della voce con alcune parole-chiave ben individuate e insistite, e la grande varietà di personaggi e narrazioni pur in presenza di costanti che via via si individuano a loro volta. Dunque mi pare di poter cogliere la grandiosa capacità di Romana Petri, consistente nell’esplorazione e nel galoppo. Guardando soprattutto ai romanzi più recenti, mi pare si colga l’impetuosità e larghezza di movimento, una vocazione vitale a cavalcare nella vasta prateria della letteratura con lo stesso spirito dei vecchi e nuovi americani e dei bisonti, a perdifiato, in una corsa di conquista che è principalmente copertura dell’immenso territorio senza risparmiarne neppure un angolo, galoppando distesamente e con un gusto geografico che è dei veri pionieri.
So del gusto di Romana Petri, specie in tempi recenti, per una certa letteratura nord-americana in cui un nucleo selvaggio è preservato non come mera brutalità ma come umanità naturale e primigenia. E tutti sappiamo che Romana Petri si muove principalmente tra Portogallo e Sud America lungo una linea “latina” che dopotutto rimanda a un profondo umore umbro che le proviene dal grande padre, il Ciclone celebrato ne Le Serenate (Neri Pozza 2015) che ricostruiscono l’epopea terrena di Mario Petri, basso-baritono, e attore specie nei film del genere peplum, uomo di grande fisicità e umanità splendente.
Tutto nella letteratura di Romana Petri si muove dunque tra invenzione epica e leggenda familiare.
Come collochiamo allora questa raccolta di racconti ultima, Mostruosa Maternità?, dopo che nell’altrettanto (e appena meno) recente Figlio del Lupo (Mondadori) avevamo incontrato una madre possente e la riproposizione di un altro aspetto robusto nell’immaginazione di Romana Petri, il mondo animale, il cane come angelo custode dell’uomo, il cane-lupo specchio e protagonista di una qualità dell’esistenza vicina alla Natura, non del tutto smemorata della radice profonda (su questa linea, esemplare a dir poco quel piccolo grande libro, profondamente emozionante, che è Il mio cane del Klondike, Neri Pozza, chiuso dalle pagine in cui ascoltiamo la versione del cane: udiamo direttamente la sua voce e finiamo travolti da un’onda irrefrenabile di commozione.
Come situiamo dunque i dodici racconti di Mostruosa Maternità (Giulio Perrone editore, 197 pagine, 16 Euro), ultima uscita per adesso nella produzione di Romana Petri che si è letteralmente infittita nell’ultimo decennio?
Non dimentichiamoci, perché questo decisamente ci mette sulla buona strada, che nel romanzo La rappresentazione (Mondadori 2021) e poco prima in Pranzi di famiglia (Neri Pozza 2019), Petri, con stupore e generosa messe narrativa, ha esplorato proprio la circostanza che vuole che, con nostra grande sorpresa, eppure con la consapevolezza della non rarità dell’occasione, proprio in famiglia, nell’alveo dei congiunti stretti, possa insinuarsi il malessere e la crudeltà mentale, e capiti, più di quanto si creda, che un genitore, in modo orribilmente persistente, o entrambi, seppure, a volte, con la distorta illusione di star facendo il bene dei figli, si attivino in modo distruttivo riuscendo a andare a bersaglio.
Nonostante la collana che li accoglie si chiami Hinc, cioè qui, si tratta di racconti senza tempo, non perché non abbiano una loro attualità marcata anche da dettagli che ogni tanto ci permettono anche di riconoscere qualche caso tragico della cronaca recente, ma perché raggiungono l’insperata vetta, in letteratura, dell’archetipicità e del disegno, in filigrana, di strutture umane eterne o eternabili.
È vero: ogni racconto è precisamente situato in un luogo e assegnato a una data, a un’epoca, elementi che però proprio nella loro esattezza, per così dire, amplificano i registri dominanti nei racconti.
I registri che ricorrono sono il favolistico e il grottesco: sembra di ritrovarsi, spesso, in ambientazioni che fanno invidia alla novellistica della tradizione e a Li Cunti di Basile, anche se le vicende narrate, le cronache di deviata maternità ascrivibili alle donne, ma anche come agli uomini, come agenti mostruosi, solerti nell’agevolare dinamiche che distruggono i figli, sono calati spesso nel nostro tempo, tuttavia con ritorni al passato remoto o prossimo che destano in chi legge la constatazione fondata che è immanente un simile dialogo tragico fra passato e presente.
Ma grottesco e favolistico sono anche la trascrizione stilistica della nostra umana incredulità al cospetto di un meccanismo, la trasformazione della madre in mostro (inaudita – generalmente, Medea a parte, avevamo la paterna mostruosità di potere: Saturno, il conte Ugolino), che spiazza.
Per ragioni facilmente comprensibili tutte queste storie colpiscono, però alcune colpiscono di più: la madre che non sa più se il delitto che le ascrivono l’ha davvero commesso o se non sia stata sospinta al centro di un terribile errore giudiziario: c’è un pozzo profondo e nero, un buco senza fondo nella sua memoria, che non le permette in alcun modo di sapere cosa è accaduto nella manciata di minuti decisivi per la sorte del suo bambino; la madre trasformata in fastidiosa mosca e arresa balena da una maternità voluta contro tutti che fa di lei una bulimica compulsiva; la madre gelosa di suo figlio; la nobildonna amata in segreto e con grande devozione da qualcuno che racconta oggi la sua storia dopo 40 anni, col borgo su cui il delitto che la riguarda ha imperversato, oramai inaridito e svuotato per sempre; e poi il dialogo serrato tra due signore dalla parrucchiera, che riannoda la raccolta con una discussione sull’esser madri o non esserlo, come dire?: andiamo proprio alla radice del problema e della circostanza, in un contesto ordinario, non privo di un certo tocco arbasiniano (“Signora mia!”), che situa un tema radicale appunto e dopotutto archetipico in una sorta di dimensione da rotocalco con lo stesso scopo diminutivo (in senso letterario stretto) che portò James Joyce a ridurre Leo Bloom, Ulisse del ‘900, a un antieroe, esponente della “common/ordinary/normal people”, che di mestiere fa l’advertising agent, è un pubblicitario, e Marion, Molly, cioè Penelope, a una sognatrice a occhi aperti, infedele incallita nella propria fantasia ma non solo, soprattutto orfani (se così si può dire), entrambi, del proprio figlio. Tuttavia qui Petri introduce un elemento nuovo, contemporaneo: la sodalità femminile, la sorellanza, accompagnarsi le une le altre: auspicabile quando non reale.
Un filo gocciante di truculenza più o meno latente accompagna anzi innerva questi racconti in cui l’archetipo della generazione è rovesciato nella eliminazione e dunque la vita è mostrata nel manesco sovvertimento del toglierla come la si è data. E molto si insiste sulla solitudine anzi sulla solitarietà dell’aberrazione, senza troppa differenza di genere, nonostante la maternità sia un atto femminile: anche questo mette le madri all’angolo, le abbandona alla loro responsabilità in prima persona per i figli senza soluzione di continuità.
La maternità, condizione felice però passibile di costellarsi di incidenti, meno raramente di quanto si creda può diventare mostruosa e trasformarsi in un incubo. Eventualità a lungo non considerata è la sindrome, non facile da riconoscere, della depressione post partum, che, usa dire comunemente, col tempo passa e può alterare a lungo, invece, la relazione della madre col mondo. Questi racconti sono una casistica, anche, a suo modo, delle alterazioni di uno stato per definizione felice, col male che se ne sta nascosto dietro l’angolo in paziente attesa prima di saltar fuori o insinuarsi e rovinare tutto.
Dunque qualcosa di scardinante si infila in un nido felice, o in quel nucleo lieto, che è la famiglia, sa emergere abilmente un agente annidato, cosicché il risultato sempre è la trasformazione mostruosa? È la latenza la variabile che pende sui destini e incombe sui quadretti perfetti. È un fatto. Probabile. Possibile. Eventuale. Vero.