Gli spettacoli dell'Inda
La Scuola di Siracusa
Qualche considerazione su due (assai diversi per stile) degli spettacoli al Teatro Greco di Siracusa: la lezione di Euripide e quella di Sofocle arrivano al pubblico grazie alla potenza e alla millenaria semplicità del rito teatrale
Ifigenia in Tauride di Euripide è uno stranissimo copione teatrale, per almeno due ragioni fondamentali. La prima è che non è una tragedia propriamente detta (non solo perché non vi muore nessuno, ma perché manca quello che Aristotele definiva l’eroe tragico produttore di catarsi), la seconda è che i tre personaggi che sfidano gli dei e le entità superiori (Ifigenia, suo fratello Oreste e l’amico Pilade) non solo non vengono sconfitti, come sancito dalle norme sul genere tragico definite ex post dal solito Aristotele, ma addirittura vincono la loro sfida, beffando i potenti e gli dei. Tecnicamente, uno scandalo.
Il mito di Ifigenia è noto: gli dèi chiesero a Agamennone di sacrificare ad Artemide la propria figlia primogenita, Ifigenia, per consentire alla flotta greca di partire battagliera per Troia al fine di riparare lo scandalo della fuga di Elena con Paride. Dopo molti tentennamenti, Agamennone chiamò al campo dei greci la figlia e la uccise. Questo è, per altro, anche il soggetto di Ifigenia in Aulide una delle più struggenti tragedie di Euripide, rimasta incompiuta perché scritta proprio sul limitare della propria vita. Un testo nel quale la giovinetta, dopo aver chiesto vita e libertà al padre, sceglie deliberatamente la via del sacrificio per dare un senso alla propria esistenza, ossia per trasformarsi da essere umano in simbolo: un rovello che – evidentemente – con l’approssimarsi della morte doveva scuotere intimamente lo stesso Euripide. La stesura di Ifigenia in Tauride precede l’altra di un decennio, ma racconta i fatti cronologicamente successivi. E sono fatti sostanzialmente inventati liberamente da Euripide. Ossia: Ifigenia non è morta ma, all’insaputa dei greci, è stata salvata dalla dea Artemide che ne ha fatto una sua ancella in Tauride, rendendola garante dei sacrifici umani che lì, in quella terra lontana e inospitale (sarebbe la Crimea di oggi), vengono compiuti in nome della dea con il consenso del re Toante. Qui, in Tauride, molti anni dopo il suo arrivo, Ifigenia incontra il fratello Oreste e Pilade, spinti fin lì da Apollo, i quali, catturati dagli uomini di Toante, sono destinati al sacrificio. Con uno stratagemma, i tre sfuggono il loro destino, imbrogliano il re e scappano dopo aver rubato la statua di Artemide, come espressamente richiesto da Apollo.
Insomma, questo testo – oltre alle due stranezze esposte in precedenza – dimostra anche l’inutilità dei vaticini: malgrado il mancato sacrificio di Ifigenia, i greci sono partiti e anche tornati (vincitori, per altro). E dimostra che gli esseri umani possono prendere in mano il proprio destino, sia pure cavalcandolo abilmente. Come è noto, il rapporto tra volontà e destino è alla radice di tutta la creatività occidentale: essere “pronti” a gestire quel che ci succede mentre stiamo facendo altri progetti, come recita qui Euripide, è la soluzione che prospetta Amleto, dopo aver discusso se essere se stesso o accettare il caso. Ma è la teatralità di Ifigenia in Tauride ad essere – come dire? – carente. Più parole che azioni: e in questo è abbastanza atipico nel canone di Euripide il quale, invece, molto spesso si dimostra un maestro di azioni e perfetti incastri drammaturgici. Ecco perché il compito di Jacopo Gassman, che ha appena messo in scena Ifigenia in Tauride al Teatro Greco di Siracusa, non era dei più semplici.
E invece ne è venuto fuori uno spettacolo pieno di idee e suggestioni. Dove il mito si scontra costantemente con la concretezza dei tre ragazzi (Ifigenia, Oreste e Paride) risoluti a vincere la loro sfida alla sorte. Fino alla scena conclusiva, quando un grande sipario di vetro –che, fin lì, ha fatto da fondale policromo (una bella soluzione scenografica e illuminotecnica) – si apre mostrando i tre protagonisti in abiti d’oggi seduti sulle poltrone di un moderno cinema, come dopo aver assistito a una rappresentazione (epica) di sé. E, sulle note di una ballata soul, se ne vanno nel mondo. Una soluzione ingegnosa e di sicuro effetto. Il problema di questo spettacolo, semmai, è che, dovendo e volendo lavorare quasi esclusivamente sulle parole (bella la tradizione lineare di Giorgio Ieranò) occorre potersi affidare a interpreti di forte inventività e carisma, cosa che qui non può dirsi per Anna Della Rosa che fa Ifigenia confondendo la modulazione vocale con il segno di una non meglio identificata “contemporaneità” scenica (come se bastasse cantare le parole per essere moderni, mentre si finisce solo per imitare il vecchio doppiaggio di Bette Davis), né per Ivan Alovisio, un Oreste a corrente alternata che talvolta recita Euripide come se fosse un gagman americano, né per Massimo Nicolini, Pilade, che pure dei tre è il più convincente.
Resta il fatto che, soprattutto grazie al grande lavoro svolto dal sovrintendente Antonio Calbi dopo un umiliante commissariamento, le stagioni dell’Inda al Teatro Greco di Siracusa sono tornate al centro del dibattito teatrale e culturale italiano, proponendosi come occasione imprescindibile non soltanto della riflessione scenica sul canone greco, ma anche sul fronte del teatro tout court. Prendete, ad esempio, lo splendido Edipo Re di Sofocle che Robert Carsen ha messo in scena quest’anno. Si tratta di uno spettacolo rigoroso ed essenziale: solo una enorme e altissima scalinata chiude la scena del Teatro Greco. E proprio salendo e scendendo i gradini della sicurezza interiore (e del potere), Edipo e Giocasta vivono la loro tragedia. La presenza in scena di un Coro di oltre sessanta attori (gli straordinari allievi dell’Accademia dell’Inda, guidati da Elena Polic Greco e Rosario Tedesco, con l’aggiunta di altri interpreti ancora), poi, conferisce alla messinscena un tono potente ma mai ridondante. Carsen, regista d’opera, mostra tutta la sua dimestichezza a muovere le masse in scena, dando al Coro di Edipo Re una fisicità propria, non più solo come se fosse la cittadinanza di Tebe ma piuttosto lo spirito animalesco della comunità.
Il dramma di Edipo – la sua impossibilità di vivere la vita sognata e inseguita, sepolta sotto l’obbligo di essere ciò che l’irragionevolezza del caso gli impone – è stato riproposto da Carsen in modo netto, senza fronzoli scenografici, senza macchinerie né quegli artifici cinematografici che recentemente vanno tanto di moda (anche all’opera) fra i registi che ritengono che il teatro non basti a se stesso. Perché poi proprio questo dimostra, al contrario, il successo clamoroso delle rappresentazioni dell’Inda di Siracusa: che il teatro, nel senso più pieno del termine, fatto di corpo dell’attore e parole, musiche e spazio scenico, è più che sufficiente a innescare nel pubblico un processo emotivo pieno ed esaltante. Ho assistito a una qualunque replica di Edipo Re: nella cavea, con me, c’erano quasi cinquemila persone che hanno applaudito gli attori per oltre cinque minuti d’orologio dopo la fine della rappresentazione.
Merito di Sofocle, prima di tutto; del regista, sicuramente; della suggestione indotta dalla meraviglia del luogo (il parco archeologico di Siracusa). Ma merito anche degli attori, della loro sapiente essenzialità: da Maddalena Crippa come Giocasta, alla potente triade di “vecchi” rappresentata da Graziano Piazza come Tiresia, Massimo Cimaglia come Messaggero e Antonello Cossia come servo di Laio; fino al tormentato Creonte di Paolo Mazzarelli. Un discorso a parte, ovviamente, merita il giovane Giuseppe Sartori che ha preso sulle proprie spalle la trasformazione di Edipo, da regnante potente e quasi tracotante a fragile vittima del capriccio del caso: la sua storia di interprete delle performance di Ricci e Forte poteva fare velo sulla sua capacità di governare le (tante e importanti) parole di Sofocle. E invece è la vera rivelazione dello spettacolo. Un cast perfetto, insomma, che perfettamente restituisce il nocciolo drammaturgico di Sofocle grazie all’equilibrio mirabile dei vari linguaggi che concorrono alla sua rappresentazione. Appunto: la dimostrazione che il teatro basta a se stesso. Se ce ne fosse ancora bisogno, dopo duemilacinquecento anni.