Danilo Maestosi
All'Accademia di San Luca di Roma

L’arte sulla Luna

Tre installazioni e una serie di disegni raccontano la "visione" cosmica di Grazia Toderi. Un viaggio sulla Luna che non è solo videoarte, ma anche un modo per smontare e rimontare tutti gli strumenti del linguaggio artistico

A un passo dai suoi sessant’anni, Grazia Toderi, padovana che vive e lavora tra Milano e Torino, maestra internazionale della videoarte, conclude un viaggio fantastico iniziato quando aveva appena sei anni e vide, come tanti di noi in diretta tv, un astronauta americano scendere e lasciare la sua impronta sul suolo della Luna e poi la telecamera inquadrare lì dall’alto lo spettacolo della sfera terrestre che brillava come una mappa luminosa nella notte del cosmo. La vocazione che l’ha portata ad esplorare i sentieri dell’arte per rivivere e far rivivere, misurare e dilatare quell’emozione, nacque dalla folgorazione di quello sguardo, sul quale ha modellato il suo vocabolario d’artista.

Da lì, credo, il sogno di poter anche lei calpestare quella stessa polvere, sentirla sotto i suoi piedi. Interrogarla e ragionarci. Insomma allunare anche lei sulla superficie di quel pianeta così prossimo e così remoto. O comunque su qualcosa che gli somigli così tanto da annullare ogni distanza tra il nostro pianeta e il suo misterioso satellite che ci porge solo una sola, stessa guancia da accarezzare.

Un traguardo che ha raggiunto con la complicità di Marco, il fratello agronomo, al quale ha chiesto di scattare a piacimento una serie di immagini di un luogo desertico che poi ha rimontato in un nastro di sequenze sovrapposte illuminate come un bersaglio da centrare o raggiungere dal chiarore di un mirino. Un segno concentrico che ha immerso nella luce rossastra attraversata da bagliori di lampi che colorano di dubbi e conflitti il suo immaginario d’artista affacciata sulla balconata a specchio dell’universo e del mestiere di vivere.

Ne ha ricavato un campionario di sette diverse istallazioni. E una mostra: I Mark We Mark. Che ora ripropone in formato ridotto, ma arricchito da una serie inedita di disegni su carta, ospite fino al 30 luglio dall’Accademia di San Luca di Roma, sempre più lanciata con la sua nuova gestione ad esplorare tutte le strade di qualità del contemporaneo.

Tutte le immagini, come in ogni sua opera, sono proiettate sulle pareti. A disegnare un’orbita, spesso due, una sorta di pupilla, un punto focale che indirizza lo sguardo e ne rileva l’azione di ponte tra il corpo e la mente. Queste visioni ci guardano per farsi guardare.

La più commovente, che fa da locandina, inquadra in primo piano due ombre che ci voltano le spalle. Grazia Toderi e Marco. Si capisce che stanno parlando dello spettacolo che hanno di fronte. Ed è lui, incoronato da quel goniometro bianco, a discettare da esperto sul senso e il valore della terra. «Il terreno – spiega – è l’apparato digerente della Terra. Ciò che vi arriva viene trasformato, fermentato. Contiene materiale vivo, ossigeno, materiali legati tra loro per nutrire il mondo. È fertilità, custodisce ma trasforma, matura cambia ciò che contiene».

E la Terra? Il pianeta su cui viviamo e che rischiamo di condannare a morte? «A volte – risponde lui – penso alla Terra come un singolo granello di sabbia che in connessione con tutti gli altri granelli/pianeti formano di nuovo terra».

E l’acqua? «Scioglie e poi lega. Erode, sgretola, rimescola tutto».

Disegna? «Incide e nel solco hai il disegno. Gratta come un pennino».

E il fuoco? «Il fuoco fa parte del ciclo della terra. Dal fuoco il terreno riemerge come una fenice, distrutto, poi colonizzato da licheni, disgregato dagli agenti atmosferici assume una nuova vita e fertilità, diversa da quella precedente».

E infine, le carte geografiche. A Marco suggeriscono connessioni naturali per produrre cibo. Ma anche scoperte, viaggi, luoghi sconosciuti. A Grazia invece il tempo che l’immaginazione umana ha trascorso e trascorre a inseguire l’infinito e a trovare «la propria posizione nel mondo».

Lei, la propria postazione l’ha trovata atterrando sulla Luna o su qualcosa che gli assomiglia, forse Marte dove sembra che la sfida degli astronauti si sia attestata.

Non è un caso che a suo fratello abbia chiesto di portarla verso un terreno desertico. Mai prima il suo sguardo volatile si era avvicinato così tanto ad un suolo: gli occhi trasformati nei piedi che lo stanno calpestando, l’andatura resa incerta da quella superficie di rocce, fossati, crateri, affondati in quella sabbia dove nonostante le apparenze ha ritrovato una promessa di vita. Dove la sua fantasia d’artista scova tracce e bagliori di fuoco, sprazzi di luce in movimento, un proliferare di stelle, pianeti, corpi celesti che si specchia anche lì, su quel manto di cenere, che trattiene il respiro del tutto.

Insieme alla speranza, la voglia di misurare quel caos rossastro di colori aggrappandosi agli strumenti del segno e attraversare tutti i conflitti che quella sua ossessiva ricerca mette a nudo, ci impone di osservare per legare insieme il dentro e il fuori, la nostra identità di creature di un labirinto e quella dell’altro da noi.

No, non c’è la rassicurazione della pace nelle opere di Grazia Toderi. E nemmeno in questa, circoscritta dalle battute ariose del dialogo con il fratello, la scienza e l’arte che fanno parte in commedia. Animando il copione del volantino con il quale il curatore della mostra, Marco Tirelli, vicedirettore dell’Accademia di San Luca, artista di rango e rigorosa impostazione filosofica emerso dalle file della scuola di San Lorenzo, ci invita a visitare le tre istallazioni riunite al piano terra e l’intrigante repertorio di disegni che completa il percorso.

Quella che mette in scena Grazia Toderi è una sorta di guerra continua che rimbalza dal luogo che sta osservando e ritrae sommando gli slittamenti tra l’avvicinarsi e l’allontanarsi verso il cosmo. Una minaccia e una responsabilità alle quali è impossibile sottrarsi. Ricordo, quando rimasi inchiodato a fissare le opere che aveva dedicato a Roma sorvolandola dall’alto, zoommando su strade e palazzi distanti, la sensazione angosciosa di un deja-vu: i bombardamenti aerei di Baghdad che nel 1991 e dieci anni dopo diedero il via alla due guerre del Golfo. Anche lì una città di notte, solcata dai bagliori delle esplosioni, dai tracciati dei razzi e della contraerea, anche lì la sensazione di un cielo capovolto che sputava via, ci precipitava addosso i suoi astri. Uno spettacolo che lo schermo della tv rimandava con asettico distacco come se rappresentasse una vendetta del destino più che un tragico precipizio di civiltà. Uno smottamento di brutalità che da allora ha inquinato d’orrore e violenza il nostro orizzonte. Ininterrottamente fino alle immagini ancora più crude, inesorabili, di vittime e macerie dai fronti dell’Ucraina in fiamme.

Allontanarsi e avvicinarsi. L’immediatezza di quel che accade mentre accade e la complessità della vita, della morte, delle mutazioni. È il ritmo segreto che sorregge tutte le visioni di Grazia Toderi, anche quelle in cui le sue messe in scena assumono toni e intenti più lievi. Si fissano su altri palcoscenici. Può essere l’abbraccio d’architettura di un antico teatro. O lo stadio di una partita. O le onde di rifrazione di frasi, memorie, parole proiettate sul panorama di Istambul, per assecondare un sogno d’innocenza proposto dal premio Nobel Orhan Pamuk. O il controcanto di immagini e diagrammi musicali che dilata gli echi di un celebre pezzo di Mozart, opera che questa mostra ha incastonato in una nicchia dello scalone borrominiano, a segnalarci altri esperimenti, altre escursioni poetiche d’autrice, che costellano la carriera di Grazia Toderi, dopo il Leone d’oro alla Biennale di Venezia fine anni Novanta, che l’ha consacrata nell’Olimpo del contemporaneo.

Videoarte. La si può classificare anche così. Ma a smontare tutte le componenti del suo linguaggio affiora anche la frenesia del segno e degli intarsi che cerca di fermare il mistero dell’invisibile: ecco in mostra i lavori che precedono e preparano ogni visione, danno ancoraggio alle luci, alle sovrapposizioni di foto e riprese che la distingue. E infine anche il suo bisogno di dominare non solo lo spazio, ma anche il tempo. Raccontare storie che diventano Storia. Come nei fascinosi fogli, inseriti a fine percorso, a reinterpretare la sfida impossibile e il crollo della Torre di Babele, come traguardo di sogno e di incubo di ogni impresa umana.

La mostra è ad ingresso gratuito. Ma è necessario prenotarsi.

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