“Ogni cosa è in prestito” di Renato Minore
Fine senza fine
Un percorso fatto di mille transiti, approdi, interessi, incontri, variazioni linguistiche. Un’opera vasta, una poesia in cui l'autore illustra gli anni di una esistenza insistendo sui fondamenti della vita. Attraverso una interrogazione continua che è attesa di verità
Ogni cosa è in prestito è il titolo di una antologia di versi di Renato Minore. Il poeta fa così ordine nel suo percorso di scrittura che ha avuto peraltro numerosi approcci, parliamo di una lunga attività come giornalista culturale del Messaggero, come saggista, come romanziere. Minore ha fatto di tale esperienza la dimensione della propria esistenza, non rimanendone però mai ostaggio, perché il suo sguardo, mi sembra di poter innanzitutto dire, è sempre stato rivolto alla vita, anche se talora riflessa negli occhi e nel pensare di altri scrittori, essendo come noto anche autore di libri su Leopardi e Rimbaud. Minore ci appare come un grande versatile giocoliere della parola e lo diciamo nel senso più alto, perché la sua capacità di approdare a temi di diversa natura culturale e sociale ne fanno un esempio di raro valore. Si pensi al suo far rientrare in un unico assieme registri che paiono antitetici: il dire e il pensare popolare e la cultura colta, sapendole magistralmente cementare, sapendole insieme possibili e necessarie, vive e concrete entrambe.
Ogni cosa è in prestito indica, illustra, compila gli anni di una esistenza, e certo si può concordare con Simone Gambacorta che nella sua bella postfazione ritiene che «non si incontra, nel suo arcipelago di scritture, un polo forte rispetto agli altri e la poesia è una riserva di caos», ma pure si può dire che quella stessa variegata scrittura senza la poesia non sarebbe giunta così lontano. Perché crediamo che proprio la poesia faccia muovere il tutto, essendo la vocazione prima di Renato Minore, che lo fa giungere anche alle biografie dei grandi poeti, o alle recensioni e ai saggi, di libri in versi. La poesia lo coinvolge fin da piccolo e rimane vivo nel suo ricordo, come fosse l’inizio di un grande disegno, quel tale Ungaretti che viveva a pochi passi da lui, a Roma, e che guardava passare con raro trasporto, e al quale aveva inviato, ancora scolaretto teatino, una poesia a lui dedicata, come si legge in un suo scritto sui padri letterari nel volume curato da Tiziano Broggiato (I padri della parola, Pellegrini editore).
Il libro, che ha la preziosa introduzione di Ferroni, che dà al lettore appigli non generici e chiavi di lettura a versi decisivi, presenta un percorso dalle molteplici fisionomie. Minore sorprende con il suo zigzagare, con il suo segnare una via che è fatta di mille transiti, di mille approdi, di mille interessi, di mille incontri, di mille variazioni linguistiche. Accanto a temi intimi, vi è una ‘ripresa’ di grandi temi esistenziali e filosofici, soprattutto in un confronto diretto con gli amati Dante e Leopardi, quindi troviamo poesie dedicate alla fase pandemica e infine al complesso tema delle mutazioni tecnologiche. E se, difficile è scendere nei particolari di un’opera così vasta, rimane l’urgenza di dire che si tratta di una poesia che è sostenuta da una visione teorica ampia e ben definita, con numerosi e interessanti rimandi letterari. Una scrittura oltremodo pensante con cui Minore insiste sui fondamenti della vita, attraverso una interrogazione continua. E se la prima parte mi pare forse più diretta e fresca, poeticamente parlando, poi nelle successive raccolte, la poesia di Minore si fa più articolata, più strutturata e forse più profonda perché il lato concettuale diviene più netto, e la domanda più incalzante, come in questa ‘feroce’ poesia che si presenta come una sentenza finale, come uno sferzante labirintico incrocio: «Finiscono le cose/ non illuderti che le fai/ finire/ per evitarne la fine./ Ma la tua paura/ di quella fine/ senza fine/ è il soffio svagato/ che ti porta alla fine».
La memoria nella poesia di Minore sempre incalza e a volte strazia con la sua deriva di abissi che si sfiancano in frammenti di sangue, come nei versi del bellissimo poemetto Infanzia e dintorni, in cui: «La maestra De Stefanis/ passava proprio sotto/ il mio balcone/ con la sua corte di bambini./ Ed io ero l’escluso di quella festa». Memoria che è interrogazione e anche dolore, e pure anche un arrendersi a evidenze e a interrogativi a cui il poeta si affaccia con curioso distacco. C’è in questi versi come l’attesa di una verità, l’esigenza di comprendere l’inizio e la fine delle tracce dell’esistenza, senza tuttavia che ciò appaia con arrendevole chiarezza.
Sulla pandemia, infine, non ricorrono le usurate parole, nulla viene detto con le frasi dei tanti rituali conosciuti, ma vi è come un silenzio, o anche una fioca onda sotterranea, un non esplicitare la materia della malattia, del dolore, che diviene piuttosto: «brusio della mente/ nel perdersi delle cose/ e non saperle/ restando all’oscuro/ scollegato», acceso nella volta di un «cielo infinito che vola/ di balcone in balcone…// intorno a quel rogo». E tutto è come sapere di avvicinarsi al centro dell’infermo tempo, sfumato di nulla, vissuto solo con la febbre feroce di una opaca sinistra fine.