Ceppo 2022: tre parole-chiave sul racconto /2
Custodire, Distillare, Allenare
Missione Monica Vitti. Così si potrebbe definire in modo conciso il libro di Eleonora Marangoni - vincitrice del Premio Ceppo Selezione Racconto - ispirato alla grande attrice e ad alcuni dei suoi personaggi. Lo spiega la stessa scrittrice in questa “lettura” tenuta a Pistoia in occasione del premio
Eleonora Marangoni con il suo “E siccome lei” (Feltrinelli) ha vinto il Premio Ceppo Selezione Racconto (www.iltempodelceppo.it) «per la sua originale capacità di utilizzare un’ampia tastiera di registri e temi». Il libro è ispirato a Monica Vitti e ai suoi molteplici personaggi femminili, attraverso i quali l’autrice compone un ritratto della grande attrice (per la motivazione del premio: urly.it/3ny3j). A Eleonora Marangoni, come al vincitore Giuseppe Zucco e alla terza premiata Francesca Marciano, Paolo Fabrizio Iacuzzi (direttore dell’Accademia e del Premio Ceppo) ha chiesto di scrivere una breve “lecture” sul racconto (che qui pubblichiamo) a partire da tre parole chiave da lei stessa individuate.
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Custodire
Il primo racconto che ho scritto si chiamava Senza nome e senza suono. Avevo sedici anni, all’epoca, ed ero su un treno che mi riportava a casa dall’Abruzzo, dove avevo passato il fine settimana insieme a dei compagni di classe. Eravamo in una casa poco fuori città, e la notte prima di partire aveva nevicato. La mattina seguente mi ero svegliata presto, e avevo aspettato che gli altri si svegliassero. Mi muovevo piano per non fare rumore, e nel silenzio assoluto della neve mi ero chiesta come sarebbe stato abitare in un luogo in cui tutto era ovattato, nel quale non esistevano suoni, né belli né brutti. Poi gli altri si erano alzati, e il grande silenzio era finito. La neve c’era ancora, ma meno immacolata di prima e più di una volta, nel corso del giorno, mi era tornata in mente l’atmosfera incantata del mattino. Alla fine del pomeriggio prendemmo il treno per tornare a Roma. Nello scompartimento, per un motivo che non ricordo, finii seduta lontano dagli altri; fu allora che, al rovescio di un quadernone di scuola, iniziai a scrivere Senza nome e senza suono. Non avevo mai scritto un vero racconto prima di allora: andavo avanti come meglio potevo, cercando di restare fedele al sentimento che mi aveva spinto a iniziare e improvvisando alla bell’e meglio sui vari aspetti tecnici che quella piccola impresa richiedeva. Più di ogni altra cosa, credo, a spingermi a scrivere era il desiderio di portare via con me il silenzio di quella mattina. Quando arrivammo a Termini non avevo finito di scrivere, a casa cenai in fretta e restai alzata fino a tardi per lavorare. Finii il racconto a notte fonda, chiusi il quadernone senza nemmeno rileggere e andai a letto. Lo riaprii il giorno dopo, sull’autobus che mi portava a scuola, e rimasi piuttosto delusa. Senza nome e senza suono in effetti era tutt’altro che un bel racconto. Era sbrigativo, macchiettistico, parecchio confuso, con personaggi abbozzati in fretta e un finale a dir poco melenso. Magari se ci avessi lavorato ancora e ancora, col tempo sarebbe potuto diventare decente, ma tutto iniziò e finì nel giro di quella giornata, così negli anni è sempre rimasto il racconto scarso che era. Eppure, grazie a lui, una cosa l’ho scoperta: che ogni volta, per cominciare a scrivere un racconto, devo partire da qualcosa di tangibile, di cui mi sembra di aver sfiorato l’essenza: può trattarsi di un’immagine, di una frase, di un dettaglio. Credo sia questo che si intenda dire quando si dice che bisognerebbe scrivere di quel che si conosce, o almeno io lo intendo così. Non significa sapere tutto di qualcosa, ma essere legati a quello che si racconta da un sentimento. E difatti i racconti che preferisco non sono quelli che espongono idee, tesi, pensieri astratti. Non spiegano il mondo, ma se ne prendono cura. Tutti gli scrittori di racconti che amo di più – Goffredo Parise, Grace Paley, John Cheever, Anton Čhecov – non scrivono all’insegna di un’“urgenza”, qualunque essa sia, ma di un’intuizione, di un amore e una compassione verso la natura umana, per quanto tragica, contorta, malata essa sia. Non scrivono mai storie che sono parabole, non pretendono mai di insegnare qualcosa a qualcuno, ma lavorano intorno a un’espressione, a uno stato d’animo, a un paesaggio. Nell’ultima pagina di Atlante occidentale, arrivando alla fine della storia che ha appena raccontato, Daniele del Giudice scrive: «L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento». Credo sia una splendida frase per arrivare in fondo a un romanzo, e anche un ottimo consiglio per scrivere racconti.
Distillare
«Se vale qualcosa, un racconto non può essere ridotto, ma solo ampliato», diceva Flannery O’Connor. Sospetto che sia, il suo, uno dei migliori consigli che si possano dare a qualcuno che scrive racconti, e da quando ho scoperto quella frase cerco sempre di tenerla a mente quando comincio a scrivere qualcosa. In quest’ottica,«distillare» non significa tagliar corto, tagliare via gli aggettivi, le metafore, le descrizioni, i giri di parole. Significa non permettere alla nostra stessa scrittura di deviarci da quello che stiamo cercando di raccontare. Può sembrare una banalità ma non lo è affatto, e basta mettersi a scrivere per accorgersene. È un po’ come imparare a viaggiare leggeri: è una conquista, che si raggiunge solo attraverso una certa pratica e una certa costanza. Scrivere E siccome lei è stato un lungo esercizio di distillazione: è un libro di racconti un po’ particolare, perché ogni racconto nasce da qualcosa di pre-esistente, da un film con una sua narrazione e un suo universo visivo. Attraverso questo libro non volevo solo inventare delle storie, ma raccontare Monica Vitti ripercorrendone i film e i ruoli. Dovevo continuamente tenere a mente dove stavo andando, perché il singolo racconto doveva “funzionare” da solo, ma in qualche modo anche dialogare con gli altri, alimentare il prisma collettivo formato dall’insieme di quelle storie. Per scrivere questi racconti ho costruito una piccola routine: guardavo il film al quale mi sarei ispirata, appuntavo dialoghi, dettagli, gesti, magari indirizzi. Poi rileggevo gli appunti che avevo preso e, a partire da quegli elementi, cercavo di immaginare la storia, sforzandomi di distaccarmi quanto più possibile dal film e di concentrarmi su un singolo aspetto del personaggio che volevo narrare. Ogni film era, ovviamente, un mondo e spesso, naturalmente, capitava che le cose di cui mi sarebbe piaciuto parlare per raccontare quel determinato personaggio fossero molte, del tutto diverse e talvolta inconciliabili tra loro. Allora mi sono obbligata quanto più possibile a scegliere, a distillare appunto, a ricavare dal paesaggio che avevo davanti un solo tratto essenziale. E ho rinunciato mio malgrado agli altri: per quanto belli e preziosi fossero, non rientravano in quella forma, non erano parte di quella “missione”: andavano quindi scartati e dimenticati, perché non c’è niente di peggio, quando si scrive una storia, che tenersi degli scampoli da parte per un’altra storia. «Non esiste risparmio in questo mestiere», scriveva Natalia Ginzburg, e credo che le storie più riuscite di questo libro, siano proprio quelle in cui sono stata capace di lasciare andare, sono riuscita a concentrarmi su un solo cuore del racconto e ho lasciato da parte gli altri. Dettagli, sfumature ed elementi di contorno che, se avessi scritto un romanzo, avrei difeso a qualunque costo per portare sulla pagina.
Allenare
Uno dei tipi di narrazione che preferisco, mi sono accorta negli anni, soprattutto da lettrice, è quella che oltre che intrattenere, allena la mente, mette chi legge in condizione di lavorare. Semina indizi e obbliga a ricostruire, a lavorare di fantasia, a supporre, a investigare. Curioso, in effetti, visto che non amo i gialli: mi piace che questa tensione sia calata in una narrazione intima, quotidiana, in cui non ci sono ispettori o assassini da scoprire. Un esempio calzante è il racconto di JD Salinger, Un giorno ideale per i pescibanana: questo racconto inizia con una lunga telefonata tra madre e figlia, di cui non afferriamo subito il senso. Se non si conosce la famiglia Glass, è come origliare una conversazione tra due sconosciute. Bisogna cercare di capire quali sono le relazioni che legano la signora, la ragazza e suo marito Seymour (che non è presente nella prima scena, ma viene spesso evocato), dedurre da quello che si dicono cosa è capitato prima che arrivassimo là, quali sentimenti leghino quelle persone, dove ci sta portando la storia che stiamo leggendo. Salinger non ci dice nulla al riguardo, ma il suo non è sadismo, anzi: è profondo rispetto, per i suoi personaggi e verso i lettori stessi. Ritiene i primi degni di una vita al di fuori del racconto e gli altri capaci di capire anche attraverso un percorso sghembo. In questo tipo di narrazioni, solo vigilando su ogni parola, su ogni singola espressione riusciamo a farci un’idea su quale sia l’andamento della storia, cosa provino davvero i personaggi, dove ci porteranno attraverso i loro discorsi. Questo, credo, rende questi racconti veri e proprio universi: perché la storia non è solo quella che l’autore ci racconta, ma quella che siamo immaginati noi mentre la leggevamo. Tutti i prima e i dopo che abbiamo ricostruito nella nostra testa per decifrare quel racconto. Questa capacità di scrivere suggerendo, come dicevo, è qualcosa che so riconoscere e ammirare negli altri scrittori, ma che non considero un segno distintivo della mia scrittura. E siccome lei è il primo libro in cui ho cercato davvero di esplorare questo tipo di narrazione. In alcuni di questi racconti ho cercato di raccontare i personaggi attraverso lampi, frammenti, piccoli indizi, lasciando il lettore libero di costruirsi la sua storia nella testa. Non so, onestamente, quanto questo mi sia riuscito, ma ritengo che questa sia una delle irresistibili, inesauribili potenzialità del racconto, e mi sembrava dunque giusto citarla.