Cronache infedeli
Arriba Colombia!
Il candidato della sinistra, Gustavo Petro, un misurato, rassicurante economista sessantenne, è il nuovo presidente della Colombia. La sua elezione, in sé, è una rivoluzione destinata a sconvolgere gli equilibri di una storica roccaforte del conservatorismo latino-americano
Chissà cosa scriverebbe oggi Gabriel Garcia Marquez della sua Colombia condannata a cento anni di solitudine, che in queste ore riempie le piazze di bandiere, di canti, di striscioni colorati, di allegria e speranza. Contro venti e maree, contro minacce e intimidazioni, contro la stanchezza di un rito stracco da sempre uguale a se stesso, ha vinto e sarà presidente Gustavo Petro, un misurato, rassicurante economista sessantenne, leader del Pacto Historico, inedita formazione di sinistra composta da oltre 15 sigle del variegato progressismo colombiano.
Sinistra, dunque, e per la prima volta: in un Paese da sempre governato dalle destre, considerato roccaforte inespugnabile dei conservatori e definito fino a ieri la «portaerei latinoamericana degli Stati Uniti». È un cambio storico, e di questo cambio ha parlato il nuovo presidente nel giorno del trionfo, acclamato da decine di migliaia di persone accorse a festeggiare nella piazza centrale di Bogotà: «Noi qui scriviamo la storia, una nuova storia per la Colombia e per tutto il continente».
Così succede ogni tanto nel mondo reale e non solo nella magica notte stellata di Macondo: un fantastico allineamento di pianeti capace di rovesciare la condanna della storia. E da questa piazza in festa la trascorsa storia della Colombia appare veramente una condanna. A partire dal nome che si è data: la violencia. Oltre settanta anni di violenza, che ha lasciato sottoterra quasi trecentomila esseri umani – in gran parte contadini poveri – e generato l’esodo biblico di oltre sette milioni di persone. Campagne spogliate, villaggi bruciati, bande paramilitari contro manipoli di guerriglieri trasformati in narcotraficantes, rapimenti e torture, ricchezze spropositate dei boss, città dove brucia la dinamite degli attentati e la raffica delle esecuzioni del colpo in testa.
Da questa storia – ecco la prima novità di questo risultato elettorale – viene lo stesso presidente eletto. Che fu giovanissimo militante del Movimento urbano antimperialista M-19, un gruppo responsabile di tragici episodi di violenza fino agli anni Novanta. Gustavo Petro ha rinnegato questa sua origine, ma il passato che non passa sembrava per lui una zavorra troppo pesante, in un Paese in cui i fuochi del confronto armato non sono ancora spenti. Eppure – ecco qui – il voto ha saputo rovesciare anche quella maledizione che aveva evocato alla vigilia lo scrittore Ricardo Silva Romero: la petro-fobia, «la paura da sudori freddi che la sinistra arrivi al potere in un Paese che ancora sente la nostalgia del feudalesimo».
Questa paura esiste ancora, e – non spenta – è una corrente reale che attraversa trasversalmente la società colombiana. Fanno fede alcuni commenti raccolti in strada in queste ore dall’inviato del britannico The Guardian. «Sarà un presidente catastrofico – dice ad esempio Diana Rodriguez, signora di mezza età e di medio ceto – le mie due figlie quest’anno vanno all’università e temo proprio che sarò costretta a mandarle a studiare all’estero».
La destra, appunto. Ha perso male, questa destra che sembrava invincibile, e che ha cambiato pelle in corso d’opera, nei giorni dello sprint finale. Sembrava la scelta giusta per scombinare le carte del gioco, quel candidato semi-sconosciuto e apparso dal nulla: “el ingeniero Rodolfo Hernandez”, una sorta di Berlusconi caraibico – o Trump delle periferie – ricco a milioni, già decrepito a 77 anni, in testa radi capelli pitturati di un improbabile color rosso. Un uomo che appariva nuovo nonostante l’età, ex sindaco della sconosciuta cittadina di Bucaramanga, emerso dai vortici abissali e misteriosi dei social colombiani. Figurarsi: spopolava nella vasta e giovanile e spensierata platea di Tik Tok. Populismo e sovranismo erano sembrate le parole giuste – solo ormai un po’ stazzonate – per garantire il successo politico anche nel risvolto australe del nostro sfortunato pianeta.
La campagna elettorale di questo campione della nuova destra aveva una sua logica. Quella che gli analisti politici hanno battezzato come la “strategia della tartaruga”: nessun dibattito, nessun confronto, solo apparizioni a raffica sui social e grandi intemerate contro la corruzione dilagante, la politica sporca, il palazzo corrotto, il bisogno di onestà della gente semplice. Sembrava fatta, per l’ingeniero, tanto che sabato scorso la corrispondenza de El Paìs da Bogotà aveva pubblicato un titolo che suonava come una sentenza: «Due milioni e mezzo di votanti in cerca di un candidato, o di una scusa». Il gioco sembrava fatto: «Centinaia di migliaia di colombiani si muovono in una nuvola di incertezza che mescola l’indecisione con la vergogna. La maggioranza probabilmente sceglierà tra l’astensione, il voto in bianco e Rodolfo Hernandez».
Anche nelle previsioni più ottimistiche per la sinistra, i due contendenti apparivano appaiati sul filo di lana, e il timore era quello di un risultato caotico: too close to call, troppo vicini per proclamare il vincitore. E invece no, le buone stelle di Macondo hanno decretato un esito mirabolante: oltre undici milioni di voti per la sinistra di Gustavo Petro, quattro punti di distacco inflitti al rivale. È quella che nella festa di piazza, la vicepresidente eletta Francia Marquez – donna e nera, attivista ed ecologista afro-colombiana – ha battezzato la semilla: «il seme che abbiamo piantato».
Dovrà fiorire, questo seme, in un campo di erbacce e di piante velenose, perché la Colombia – terra di bellezze straordinarie e di generosa umanità – è ancora in guerra, in quell’incendio eterno che divampò nel lontano aprile del 1948 sotto gli occhi di un giovanissimo e terrorizzato Gabriel Garcia Marquez: «Ci siamo avviati per la Carrera Octava verso il Campidoglio, quando una scarica di mitraglia ha investito i primi che si affacciavano in Piazza Bolivar: in mezzo alla via ci siamo trovati davanti a un mucchio di morti e feriti. Da terra un moribondo pieno di sangue mi afferra l’orlo di pantaloni e mi grida: ragazzo, non lasciarmi morire!».
È ancora quella Colombia di allora, quella che nelle scorse settimane ha visto nel nord del Paese, intorno alla città di Monterìa, il “paro armato”, lo sciopero armato proclamato dai paramilitari urabenos del Clan del Golfo, che ha paralizzato per cinque giorni ogni attività civile, mentre le milizie seminavano il terrore tra la popolazione. È ancora la Colombia di allora quella che ha costretto durante tutta la campagna elettorale il candidato della coalizione di sinistra a girare il Paese con giubbotto antiproiettile e a bordo di auto blindate.
Riuscirà Gustavo Petro a far fiorire alto e vigoroso il suo seme appena piantato? In Italia, un attento osservatore come Alfredo Luìs Somoza si iscrive tra gli ottimisti: «Il Pacto Historico fa parte di quella nuova sinistra fortemente ambientalista e femminista che ha già vinto in Cile con Gabriel Boric. Con solide radici nella difesa delle lotte dei popoli indigeni e afro-americani contro la corruzione e il narcotraffico. Una sinistra che ha saputo conquistare lentamente la fiducia dei colombiani governando bene le città…». Dalla piazza di Bogotà in festa, fa eco Luis Eduardo Celis, che lavora per Peace and Reconciliation Foundation: «Un tempo nuovo per il nostro Paese, che ha molti debiti da saldare con la sua gente: una riforma agraria, una economia al servizio del popolo, una tassazione più equa, la lotta alla povertà, la fine della violenza…».
Vedremo. Sabato scorso, nel suo editoriale della vigilia dal titolo “Colombia rota”, lo scrittore Gustavo Gòmez Còrdoba invocava le virtù del kintsugi, una antichissima tecnica giapponese che consiste nell’unire i pezzi infranti della ceramica, usando una vernice d’oro per accostare e incollare i frammenti. «Quando si conoscerà il nome del nuovo presidente – scrive Gòmez Còrdoba – il Paese volerà in pezzi e qualcuno dovrà unire i cocci con umiltà e perizia. Vedremo dunque se arriverà a Palazzo Narino, sede della presidenza, un maestro del kintsugi. Ci consola il fatto che anche nell’antica tecnica l’oggetto non deve sembrare intatto, perché il fascino sta proprio in questo: non dissimulare i traumi e le linee di rottura, ma esibire le ferite del passato, dalle quali nasce una vita nuova. Così gli oggetti – e i Paesi – diventano unici e guadagnano in bellezza e profondità». Auguri Gustavo, auguri Colombia.