Daniela Matronola
Su “Leggere possedere vendere pubblicare”

La commedia editoriale

Il nuovo libro di Antonio Franchini (uno degli editor più apprezzati della nostra editoria) è un a riflessione semiseria e solo apparentemente narrativa sulla differenza tra fare libri e fare letteratura. Perché, senza libri, la letteratura non esiste...

Il vero cuore di Leggere possedere vendere pubblicare di Antonio Franchini (Marsilio, 121 pagine, 15 Euro) è il libro. Non questo medesimo in particolare ma i libri, oggetti fuori serie, “merce strana irriducibile alla materia di cui è fatta”, un’intuizione shakespeariana che dopotutto coincide o collide con la stessa materia dei sogni di cui gli autori di sicuro sono fatti.

Chi di libri si occupa da scrittore, con qualche vezzo insopprimibile, cioè piccandosi nel proprio specifico, non riesce a non sottolineare che c’è una differenza, sottile finché si vuole ma c’è, tra il fare letteratura e il fare libri. Senonché i libri sono la forma materiale che il fare letteratura deve prendere se vuole viaggiare e propagarsi, proprio come il monologo interiore – quel ruminamento continuo, quel costante basso parlato o anche solo rimuginato – è la forma materiale che deve pur prendere il flusso di coscienza per incarnarsi. Tutto questo riguarda molto gli scrittori, però è anche l’anello che se non ci fosse crucialmente mancherebbe tra gli scrittori e, più che la realtà, l’editoria, che assicuri loro la materializzazione concreta e tangibile di ciò che essi scrivendo perseguono, perseverando nell’evocazione compositiva o nella composizione evocativa.

Personalmente penso che fare letteratura e fare libri siano due cose diverse. A volte facendo libri si fa letteratura, non sempre (i pessimisti ci metteranno il carico da undici: quasi mai!), però per poter fare letteratura si ha bisogno di fare libri, non se ne esce. Un’opera che non esiste semplicemente non si dà e una parte del buon lavoro, di cooperazione e di concerto, di squadra!, evidentemente, sta nel far esistere i libri, farli sbarcare sulla plaga brulla e inospitale (mettiamola sul leopardiano) della irrinunciabile editoria.

Leggere questo libro di Antonio Franchini, editor per Giunti e case editrici satellitari, dopo un paio di decenni in Mondadori, ma anche autore di ottimi libri, quasi tutti editi da Marsilio (su tutti gli altri, L’Abusivo, 2001, ricostruzione della vicenda di Giancarlo Siani, punito con la morte il 23 settembre 1985 dalla camorra su cui aveva investigato da cronista sul quotidiano napoletano Il Mattino: Marco Risi ne ha tratto il bellissimo Fortapàsc nel 2009), ripeto inoltrarsi in questo Leggere possedere vendere bruciare uscito a marzo scorso, in alcuni passaggi, può gettare nella disperazione, in altri genera contraccolpi esilaranti, in altri ancora sembra confortare con prospettive di fattibilità, e non tace anzi disquisisce sulla temuta vendibilità, che è il busillis di tutti i libri, il rebus misterioso, il riddle incastrato in ogni progetto editoriale.

Qui Franchini aggredisce la materia provvedendo a situarla in una dimensione maneggiabile, mi viene da dire umana, liberandola da illusionistiche superfetazioni pindariche. Riesce ad avere effetti decisamente tranquillizzanti nel momento in cui il super salesman, il più capace e scafato venditore di libri dell’area meridionale per il grosso editore, quel Procolo Falanga (al secolo Ferdinando) che nel nome di finzione sembra suggerire l’onesto valore piazzista di una proloco ma in fondo porta il nome di un diacono di Pozzuoli martirizzato sotto Diocleziano, ti dice due cose, entrambe piene di verità:

  1. Dottò, vuie parlate bbuono ma qua ‘o cappotto è liso! Non io mi devo vergognare ma l’Editore … che mi mette in queste condizioni, è giusto o no?
  2. …vuie ata capi’ … ’e libbre nun è che nun se vendon’ mo’, ‘e libbre nun se so vendut’ maie!

Emerge l’eroe incontrastato di questa epopea editoriale soffusa di buonumore che mostra il marchio della inammissibile (e infatti mai ammessa) disperazione anzi resa, non necessariamente felice, quel donchisciottismo generoso di un Ulisse indegno almeno quanto, se non più di, Leopold Bloom nel romanzone joyciano.

Ed emerge prepotentemente, e, ciò che più conta, spassosamente, la natura smagata dell’osservatore, un Caronte netto e gentile armato solo della propria umanità il quale allo stremo della sopportazione comincia a cullare un timido progetto, ad accarezzare una soluzione anch’essa netta e gentile: con l’umanissima circolarità di un pensiero che nel tempo, sul tempo lungo, ha preso ad avvolgersi su sé stesso (e dunque dà andamento circolare, scopriamo alla fine, anche a questo libro), il discorso iniziale sui lasciti (che teniamo ma dei quali in parte dobbiamo disfarci per sopravvivere agli oggetti che tendono a sopravanzarci e sommergerci, magari meglio destinandoli, cedendoli a qualcuno), si ripresenta in conclusione affacciando alla mente dell’autore/narratore/testimone un’azione finale, comburantur, siano bruciati, che è anche il possibile titolo di un libro, ennesimo, “sugli scrittori che anelavano alla distruzione delle propri opere”.

Un’idea non facile a realizzarsi: i libri non bruciano tutti allo stesso modo. Dipende da molti dettagli. Un paradosso che dà conferma della sensazione che si è vista serpeggiare per tutto il libro: il tragico di fondo che vi è annidato si nutre di miseria, di grottesco, di mestizia, e la figura del poeta attratto magneticamente dal pragmatismo volgare del super venditore la dice lunga, i due formano la coppia più bella del mondo, ed è fatale che si attraggano con una simpatia che risulta alla fine essere quasi una fratellanza genuina. Dei due, è il venditore a sopravvivere, forte della propria inossidabilità; il poeta, come copione detta, si è estinto. Con simile spirito sono riferiti tutta una serie di rapporti con Maestri dell’editoria e con autori, in cui emergono competizione invidie maldicenza crudeltà, quasi mai sodalità autentica, e men che mai affidabilità, o reale affabilità.

In questo libro, Antonio Franchini raccoglie alcuni scritti attorno al suo lavoro editoriale già usciti su rivista, qui corredati di passaggi di raccordo e arricchiti di pagine nuove, poco modificati nelle parti già esistenti. Franchini vi fa il punto dopotutto su un’attività che conduce ormai da una carriera, al riparo della quale non ha dismesso del tutto la dedizione alla scrittura, che in uno dei passaggi di questo libro definisce “chiuso bisogno, una necessità istintiva, dolorosa, irriflessa, … atto necessario che non porta a niente se non a sciogliere un’oppressione”: tra gli ultimi suoi libri, Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani uscito per NNeditore nel 2020, che ribadisce anche il suo interesse per lo sport come tema ricorrente apparso già in altri libri, fra questi Gladiatori (Mondadori – Strade Blu, 2005). Ma proprio in questo libro Franchini si arrende anche all’evidenza: negli “anni di lavoro in casa editrice stavo imparando che la scrittura è un mercato. Non necessariamente un turpe mercato, ma un onesto, decoroso, sofferto mercato”, e invece quell’altra “verità elementare”, riportata appena più sopra, “me l’ero dimenticata”.

Registro in chiusura la presenza di molte figure reali che come l’autore agiscono nell’editoria italiana, un tema che è stato anche al centro di Desideri Deviati, romanzo molto gaddiano (mi viene da dire) di Edoardo Albinati, uscito per Rizzoli nel 2020, in cui la Milano da bere del decennio Ottanta era vista attraverso le vicende del mondo editoriale come termometro di cambiamenti sociali e civili di fondo. Qui ci sono molti nomi di rilievo, da Nicola Gallo a Ernesto Ferrero e Ferruccio Parazzoli, e anche un ricordo affettuoso di Chelone (invece nel romanzo di Albinati c’era il Maestro Chirone): è Pietro Cheli, giornalista culturale a lungo attivo su Il Giornale, poi redattore delle pagine Critici al Lavoro di Diario, inserto settimanale de L’Unità nato nel 1996 e chiuso nel 2007. Franchini, per finire, ammette di essersi trasformato in un cinico sentimentale o cinico con riserva, però invidia la “valutazione zen” dei colleghi francesi che, forti della solidità della propria editoria, possono concedersi di dire di un libro che è “un bon livre”: senonché scopriamo che c’è un fatal flaw (ecco il bardo che torna alla carica), un ineludibile tallone d’Achille anche nell’editor più sagace, ed è la memoria della letteratura. Tuttavia Franchini si consegna ad una legge che racconta di aver appreso quando era ancora un giovane editor, da un “grande boiardo di stato”: l’arte sopraffina di lasciar correre, di non smontare il gioco delle parti in cui dopotutto la commedia editoriale consiste.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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