La nuova edizione di “Poeta al comando”
La favola di Fiume
Il popolare divulgatore Alessandro Barbero racconta come una favola grottesca l'avventura di Fiume di Gabriele D'Annunzio. Un episodio sospeso tra la farsa e il dramma, condito di sesso e rivoluzione, diventa il romanzo di un'Italia ridicola
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, che l’Italia combatté – aggregandosi ai vincitori a conflitto già iniziato – contro l’impero austro-ungarico, si parlò di “vittoria mutilata”. I vincitori, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, regolarono il nuovo assetto europeo con il Patto di Londra. L’Italia non partecipò ai trattati di pace: la sua partecipazione, infatti, era già stata contrattata con la concessione di Trento e Trieste, in caso di vittoria anglo-francese. Il tavolo di pace, però, non consegnò a Roma la Dalmazia, un territorio abitato in gran parte da croati e serbi: in cambio l’Italia si vide consegnare il Sud Tirolo austriaco, che da allora venne ribattezzato Alto Adige. Mistificando il concetto di “vittoria mutilata” (lo slogan su cui poggiò la nascita del fascismo nel 1919), Gabriele D’Annunzio scavalcò con un colpo di mano la diplomazia e il 12 settembre 1919, assieme a 2500 “arditi”, occupò la città di Fiume fondandovi un «libero stato», di cui assunse il comando assoluto. Il governo di Roma reagì con imbarazzo, ordinando il ritiro al pescarese. D’Annunzio tergiversò: prese tempo per compilare una sorta di carta costituzione che pasticciava con liberismo e bolscevismo, ma poi dovette cedere e tornarsene agli agi del Vittoriale.
Ebbene, questa è la cornice storica al fantasioso romanzo di Alessandro Barbero, torinese, docente universitario, divulgatore e titolare di molte chiacchiere sulle reti Rai. Si intitola Poeta al comando (246 pagine, 14 Euro), uscì per la prima volta nel 2003 per Mondadori, oggi lo ristampa Sellerio: liberamente ricostruisce – in modo romanzato, quindi ricamando su illazioni e su documenti d’epoca – la vicenda fiumana. Ossia un frammento di cronaca e costume italico sul quale, nel corso di tutto il Novecento, si sono già esercitati con profitto numerosi storici di vaglia.
Tutto cominciò quando l’autore de Il piacere mandò questo messaggio a Mussolini: «Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile… Sostenete la Causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio». A impartire gli ordini militari, dunque, era il poeta che si faceva chiamare Comandante, vestendo la divisa militare del regio impero italiano e con un copricapo da alpino. A Fiume, dove la modesta resistenza venne sbaragliata in tempi rapidi, il Vate organizzava adunanze sotto il palazzo dove s’era insediato (le cui pareti erano tappezzate di quadri austro-ungarici) e teneva comizi sollevando la curiosità dei più scettici. Anche perché usava con disinvoltura le parole “bolscevismo” e “compagni”.
Per capire quel che realmente stava succedendo uno dei notabili della petrosa cittadina, il senatore Cosulich, invitò a cena il poeta. Ci andò spronato dal suo segretario aiutante Tom, l’unico a parlare schiettamente al Reggente del Carnaro. E spesso aveva ragione, facendosi anche testimone delle bramosie erotiche del suo superiore, che aveva 60 anni. A convincerlo, Tom gli disse che la signora Cosulich, malgrado i suoi 45 anni, aveva un seno tutto da ammirare. Così, almeno, romanza la vicenda Alessandro Barbero: «Gabriè, ha zinne prosperose… per gli amatori del genere, insomma, ancora ‘nu bbelle piezz’ e femmina». A tavola la prosperosa padrona di casa non gli levava gli occhi d’addosso, mentre il marito, scettico in tutto e per tutto sull’ospite, «lavorava di mandibole». Madame Cosulich, come riporta l’attento Tom, era una di quelle donne che vogliono a tutti i costi parlare di arte, letteratura e cinematografo. D’Annunzio, tra un sorso e l’altro di tocai, le disse chiaro e tondo che Cabiria (il sceneggiato da D’Annunzio), secondo lui, era “una boiata”. A tavola c’era anche Cecilia Colulich, 17 anni, fisico acerbo. Su di lei cominciarono a posarsi gli occhi dell’ospite. Il senatore, che garbato proprio non era, disse che sua figlia leggeva ancora Il Corriere dei Piccoli. «E fa benissimo» esclama il Vate nel romanzo, precisando che lo leggeva pure lui, anzi se lo faceva spedire a Fiume.
L’aggancio empatico era destinato a diventare erotico, quando Cecilia, di solito relegata nella sua cameretta, raggiunse di nascosto il poeta, impegnato a trovar soldi per la sua impresa. Romanza Barbero: «È una gran cosa che dopo aver preso una città io debba ancor sempre aver bisogno di quattrini… che secolo prosaico, però, questo Novecento! Certo non capitava così a Cesare Borgia!». Il fedele Tom, che aveva il grado di capitano, seguì da vicino lo svezzamento erotico di Cecilia. All’inizio riluttante, poi interamente preda delle voglie più bizzarre del suo amante. Capitò che un giorno si rovesciasse sul tavolo il contenuto di una scatolina: eroina (“Philtrum Niveum”) Cecilia l’annusò abbondantemente e si scatenò sessualmente. Non fu certo l’unica volta. La libidine del poeta aumentò a dismisura, intenzionato a ««stanare l’odore nascosto» delle femmine. In un’altra occasione sentenziò, sempre nella libera ricostruzione di Barbero: «Qui ognuno è libero di cercare il paradiso a modo suo». Una frase che si sparse tra i soldati fiumani, con le conseguenze immaginabili. L’entusiasmo si fece ben presto ovazione: “sgangherata”: «Viva il Comandante!».
Quando era nel suo palazzo il Vate si avvolgeva nella vestaglia cinese, si stravaccava sull’ottomana e gustava le sue sigarette preferite, le “Abdulla”. Il segretario Tom gli portava quotidianamente i giornali. Lui dava un’occhiata soffermandosi su quanto la stampa scriveva dell’impresa fiumana. Per esempio sul Corriere lesse che Lenin seguiva «con attenzione l’evolversi della situazione a Fiume, dove prevede che possano formarsi i soviet». Di contro venne informato che a Roma Giovanni Giolitti aveva assicurato che il governo non avrebbe tollerato un’evoluzione della situazione fiumana in senso rivoluzionario. Commento di Tom: «È curioso, non vogliono l’annessione, ma pretendono lo stesso di decidere quel che dobbiamo e non dobbiamo fare». Immediata e sprezzante risposta del Comandante immaginata dal romanziere: «Cosa vuoi che ti dica! L’Italia è un paese di pagliacci. Alla fine, saremo costretti noi ad annetterci loro. Chissà, forse in quel caso gli inglesi e gli americani non avrebbero niente da ridire». Tra la corrispondenza una nota del Comando Generale della Venezia Giulia, in cui si “notificava” che «giorni or sono elementi facinorosi provenienti da Fiume razziavano… in varie località della Dalmazia». Insomma una circostanziata accusa di furto. «Oggi dev’essere il primo di aprile», commenta il Vate accendendosi una sigaretta. Nel frattempo iniziano i primi razionamenti di viveri: niente cognac, niente tuorlo d’uovo. «Bisogna saper spendere se si vuol guadagnare» e col tono sprezzante «si ricorda del fido Tom che a Parigi con la vincita alle corse aveva speso il doppio in creme e liquori».
Il generale Enrico Caviglia era poco fuori i confini di Fiume e accusava gli “invasori” di aver rubato “quarantasei quadrupedi”: li rivoleva indietro. Risposta lunga e sarcastica del vate, che però se la lega al dito: «Bisogna che ultimamente io confessi di aver rubato stanotte il Cavallo dell’Apocalisse per aggiungerlo ai Quarantasei Quadrupedi su lo zatterone criminoso».
Continuava intanto la relazione clandestina (tale in realtà solo ai genitori) di Cecilia alla quale, a dire del poeta «piace tanto quell’idea d’essere avvelenata dalle parole». Ovviamente si riferiva alle pagine de Il piacere. Tutto doveva girare attorno a sé, ovviamente, come i pianeti attorno al sole. Considerava lo scrivere “un atto virile”. E a Tom: «Scrivendo un libro non c’è bisogno di intentare nulla, i personaggi decidono loro stessi quello che faranno, il difficile, semmai, è di impedirglielo».
Al generale Caviglia intanto arrivarono «impellenti ordini da Roma». Ed era molto soddisfatto di poterli eseguire. Un capitano dei carabinieri si presentò al vate e ripeté l’ordine abbandonare Fiume e «senza indugio di presentarsi sul territorio nazionale. Le istruzioni di Caviglia erano perentorie, ma contenevano uno svarione lessicale enorme, tale da far ridere il Vate, e non solo in quel momento: “…Chiunque il quale, pur appartenendo ai ruoli del Regio Esercito o della Regia Marina, non ottempererà alle presenti disposizioni…”. Gabriele: “Ah, bene, qui noi disobbediamo”. Un suo ufficiale commentò: “Capitano, e lei vorrebbe obbedire a un generale che scrive così?… Chiunque il quale…”. Si diffuse un’ilarità incontenibile. E si diffuse un coro di “no”, assieme al neologismo inventato dal poeta: “Eja Eja Alalà”».
Il Comandante aveva un attendente che si chiamava Italo, secondo il quale “le donne sono matte”. Più di una ragazza chiese a Italo di poter incontrare (eufemismo) D’Annunzio. Tom s’informò: “E quanto ti pagano?”. Risposta: sdegnata: “Signor capitano, le parti del corpo di Gabriele d’Annunzio non hanno prezzo”. Si presentò assieme a Italo. «Tutto quello che vide, annotò Tom, fu una sgualdrinella con la gonna troppo corta e la faccia infarinata. Il poeta stava facendo il bagno. Si levò poi dall’acqua insaponata e si presentò completamente nudo. “Signorina – disse – non stia qui in piedi, si accomodi nello studio”». Non era Cecilia, «con le sue tettine così acerbe», ma… Parafrasando I miserabili, il Comandante cominciò a chiamare Cosetta la sua amata Cecilia, pronta a qualsiasi bizzarra voglia del padrone di Fiume.
Il D’Annunzio di Barbero spesso passeggia da solo, si guarda attorno. «Una sera, in compagnia di un certo Faussone, entrò in una casa. C’era puzzo di umidità e di materassi vecchi, e di cibo riscaldato. La luce elettrica era in cucina, illuminava un acquaio, una tavola zoppa coperta d’incerata, pareti nude. Di lì si entrava in una stalla, dove però non c’erano né letame né bestie, ma solo tre ragazze spaurite… con gli occhi sbarrati, scarmigliate e lacrimose… un ardito le sorvegliava… loro se ne stavano lì come in una tela del De La Tour… tutte prive di documenti, biascicavano l’italiano, il croato». Questa era la miseria di Fiume che D’Annunzio che voleva trasformare in un paradiso libertario. A dar retta al capitano Tom, il suo superiore non faceva mistero della speranza di udire «una scampanellata di un editore col cappello in mano, pronto a firmare anticipi senza discutere pur di ottenere una promessa del Vate». Ma lui era già alle prese con una visitatrice inaspettata. Non che l’avesse desiderata, «ma la memoria della carne, la più certa, gli si risvegliò all’istante».
Il generale Caviglia attaccò alla vigilia di Natale. «“Eh, bisogna proprio andarsene” disse il Vate, prestando orecchio ai colpi di artiglieria, uno dei quali sventrò la sua residenza. Su un giornale si parlava della “piaga purulenta di Fiume”. Era la resa. Il fidato Tom disse “peccato”. E poi: “Gabriele, il dado è tratto… Giolitti ti ha ricordato che i giochi d’azzardo sono proibiti; anche i dadi… tutto è stato tentato, le professioni tentate secondo le convenienze, l’estro, l’età…il pagano, il patriota, il sovversivo, il borbonico, l’edonista, l’asceta, il retribuito, il colonnello ( questo in effetti era il suo grado militare, ndr), il plagiaro, l’inventore di profumi, l’aviatore eroico, il deputato, il ribelle, il cinematografista, l’esule per debiti, il reduce per quietanza…». La straordinaria sintesi di tutte le sue personalità alla fine si arrese a chi, a suo dire, non sapeva far altro che scaldare le sedie ministeriali.