A proposito di "Si resta sempre altrove"
Poesia dell’incertezza
La nuova raccolta poetica di Stefano Vitale parte della lontana traccia di "Ossi di seppia" di Eugenio Montale per arrivare a raccontare l'inquietudine del presente
Si resta sempre altrove, nuova raccolta poetica di Stefano Vitale (Pasturana, Puntoacapo, 2022, 122 pagine, 15 Euro), prende abbrivio dal «Noi non sappiamo» che ne inaugura il Prologo, rileggendo a suo modo un proverbiale incipit di Ossi di seppia e idealmente legandosi al «Siamo i soldati d’una fiaba oscura» di La traversata della notte (Edizioni Joker, 2007). L’incertezza, la condizione di dubbio che Montale riservava al «domani» ed è qui riferita all’origine di «scarne parole», è, per così dire, la bussola di un percorso che, lungo sette sezioni, tenta di cogliere sul fatto, si legge nella Nota dell’autore che congeda il volumetto, «il passaggio, il transitare da uno stato all’altro, da una condizione all’altra», i precari approdi di una eliotiana «terra desolata».
I versi inseguono insomma un luogo elusivo (il «livido enigma del presente», il «teorema | che mai dimostreremo», l’«indirizzo sbagliato»), un imprendibile interstizio negato allo sguardo che vuol catturarlo. Ne avremo così l’«infinito movimento | che ci sfugge e ci appartiene», l’«ombra | ora fuggita dalla fodera chiara | di un tempo mai nato», l’«istante presente ora svanito», il «mondo svaporato, fuggito | come un ladro mascherato»: una scena metamorfica dove «l’acqua si fa fuoco e il fuoco si fa terra», lo stesso corpo è «dimora in cammino | verso l’altro capo delle cose» e le sue parole (pronunciate quando «si sposta la Storia un verso più in là») si rivelano «timidi sguardi d’animali», «Poveri strumenti di congiunzione | tra qui e l’altrove». Il poeta lavora al buio («rammendo e cucio | cose che più non riconosco | e giro lo sguardo altrove | sul me stesso che non trovo»), mentre divina fulgide vie di fuga: «Sono qui, adesso, nel punto esatto | dove devo essere eppure esco | da me stesso in un bagliore verticale».
Ai poli dell’inquieto itinerario, diviso tra le smanie del disincanto e l’aspettazione del prodigio che lo smentisca («la quieta servitù dell’attesa» che dà il titolo alla prima sezione), stanno la semantica luminosa segnalata nella prefazione di Alessandro Fo e nella postfazione di Alfredo Rienzi (ne avremo la «luce rubata | dell’ombra imprevista», «travasi di luce», il «variare della luce», l’«oscura luce dei versi», «parole di luce», la «luce passante» che disegna e insieme annienta il ricordo, la «luce riflessa del sole», le Variazioni di luce per voce sola, i Giochi di luce, il «soffio di luce», la «rete di luce», il «ritaglio di luce», il «precipizio di luce», il «cono di luce», i «fiocchi di luce») e le chirurgie consegnate a «lucidi coltelli», al «taglio estremo», alla lama che «taglia il pane secco» e «brucia | sulle ferite», al «paesaggio affilato», all’«occhio tagliato», al «sussurro aguzzo dell’aria», a «l’impercettibile vibrazione dell’aria | làmina affilatissima – quasi acciarina», ai morti «svaniti nel taglio del pane», alle «parole soffici e taglienti», fino al «lampo-coltello | del sole agonizzante nel viola», al «lume-lama che segna | lo sforzo del nostro apparire» e a «l’inganno del taglio di luce», in cui questi campi complementari tendono a unificarsi, profilando lo «Stato di grazia e d’allerta» evocato nella sezione eponima del libro.
Ne deriva una musica franta, novecentesca – forse allusa nella munchiana «vita che urla» dai rami segati di una «benjamina morente», nello «specchio scheggiato», negli «specchi rotti», o in titoli come Hopperiana (consentanea ecfrasi di Sun in an Empty Room), Lyrische suite e Phanes (tratti da un celebre quartetto d’archi di Alban Berg e da una composizione per flauto solo di Stefano Gervasoni) –, una poesia che si interroga senza requie sulla propria legittimità, un linguaggio che scansa le «lingue troppo sicure | fantocci tanto vuoti | da sembrare veri», dove una secchezza da oracolo (quella attribuita ai fiori «appesi al muro | condannati al patibolo») copula con l’ingegnoso metaforismo che ‘tocca con mano’ l’aleatorio (penso a performances come «l’odore della notte è un respiro | tra le braccia del mattino che verrà»; «il silenzio ipocrita della sera»; «il mare incarta mazzi di rose | nel cellophane delle sue onde»; «ventre | della pioggia scrosciante»; «il cielo si fa stanza grigia | d’aria malata»), scambia vita e scrittura («pagine dei corpi», «sillabe di pietra», «lettere in processione», «epitaffio che graffia nel vuoto»), fulmina ossimori («coraggio della paura»; «verso il largo, dentro di sé…»), e dove talvolta affiorano toni da ballata epica (Inferno Lampedusa) e cadenze da Lied (Variazioni di luce per voce sola).
C’è da dire che lo sposalizio fra la sentenza acuminata e l’abbagliante turgore barocco (che rimanda all’Holan posto in epigrafe alla serie Sul muro) sembra più fertile quando riesce a delimitare il suo spazio, quando incornicia le linee di un ritratto, quando attinge «la gioia chiusa e protetta | da qualche parte dentro di noi». Penso ai polittici Ricordi palermitani (vi spiccano il «sorriso in carrozza» della madre, lo spirito di una stirpe restituito nel memorabile distico «Un tempo eravamo marrani | scaltri mercanti ignoti marinari», e ancora le «morbide scariche elettriche | di sorrisi non ancora smarriti» nel filobus per Monreale) e Autostrade (con stranianti sagome di volatili eletti numi tutelari dei nostri deserti viarii: l’«artiglio del nibbio» dove «Scoppia di luce il cielo d’inverno»; le poiane «immobili come i vecchi seduti | sulla porta di casa»; le cicogne «che nel becco non hanno fagotti | ma lombrichi, ranocchi e serpenti»; i corvi-becchini «impeccabili nei loro abiti scuri»), alle ‘nature morte’ infilate in Sospensione di senso (quei «piatti unti d’anime stanche», quelle «finestre immobili» fatte «figure d’occhi metafisici», quella «tavola storpia del dubbio», che mettono quasi i brividi), e soprattutto a Piccolo requiem, il conclusivo poemetto votato ai morti che tornano «a farci un saluto tra le foglie | del basilico da trapiantare», al padre che nei giorni estremi «ha faccia da uccellino», «vuole il vestito buono | e non sopporta di stare | senza i calzini», e sarà ricordato per «il fumo di una Nazionale» rappreso in una vecchia fotografia, come «orma sul pavimento | delle nostre vite».
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini