Diario veneziano /3
Risonanze mancate
Delude l’installazione di Gian Maria Tosatti, unico artista “star” del Padiglione Italia alla Biennale. La sua descrizione, teatrale e minimalista, del tramonto del mondo industriale, dal boom alla post-pandemia, non fa scattare nello spettatore fantasie, associazioni, risonanze personali
L’ultima pagina del mio diario veneziano è dedicata al Padiglione Italia della Biennale. Un’operazione preceduta e seguita da molte polemiche, che andrebbero svincolate dai giudizi che riguardano la rassegna cardine di questa cinquantanovesima edizione, perché da sempre questo segmento fa caso a sé. Riguarda gli artisti di casa e misura il peso e la presa del made in Italy – paese che è da sempre una costola provinciale del grande impero dell’arte – sulla ribalta internazionale. Ma qui a Venezia si vede assegnato il palcoscenico più grande e più fascinoso, l’ultima enorme ala degli ex cantieri navali dell’Arsenale, affacciata sull’ansa del vecchio bacino di carenaggio aperta su un ampio canale che è già presagio di mare aperto, esplorazioni, avventure. Ed è sottratto al copione dettato della regia del cartellone principale con la nomina di un proprio curatore da parte del ministro della Cultura, che ne approva e ne ratifica le scelte.
Sempre quest’autonomia è stata esercitata, seguendo l’aria che tirava a Palazzo Chigi, per rimpolpare la presenza di autori di casa, generalmente poco rappresentati in locandina. Mai meno di quattro, a volte una decina; l’esempio più estremo oltre duecento con la gestione di Sgarbi, che, per provocazione contro i padri-padroni del contemporaneo, aprì le porte a tutti, amici e semidilettanti compresi, senza gerarchie di merito. La novità quest’anno, una svolta mai vista, è che ne è stato scelto solo uno. Creando ovviamente molti scontenti. Lo ha fatto, attraverso la nuova direzione del contemporaneo, da lui appena insediata, il ministro Dario Franceschini, patente ufficiale Pd ma cuore da ex democristiano, molto attento alle clientele, alle mode e agli incassi, con l’intenzione dichiarata di rialzare l’attenzione del sistema internazionale sul made in Italy più aggiornato, più sensibile e allineato ai gusti del mercato occidentale e globale, puntando i riflettori su un unico astro emergente di nuova generazione.
È così che è venuto fuori il nome di Gian Maria Tosatti. Un curriculum da predestinato, con tutte le carte in regola. L’eta giusta, 41 anni, il fisico da strappacuori che fa tenerezza e non guasta mai, una parlantina educata da molte buone letture e da una sempre più intensa attività giornalistica di scrittura e direzione di riviste specializzate, dote rara per i nostri artisti, troppo spesso afasici, incapaci di ragionare sul proprio mestiere e sul mondo, lungo le derive concettuali ormai prevalenti. Un’attitudine sincera ai gesti di sfida e all’impegno sociale, che si presenta come sfida e promessa di cambiamento, ma sa arretrare prima dell’eccesso. E una carriera da performer con tutte le tappe e le direzioni giuste. Nato a Roma, una vocazione per il teatro d’avanguardia e l’uso spettacolare dello spazio scenico collaudata per anni a Pontedera, sperimentata anche nella capitale, e infine perfezionata e tradotta in linguaggio d’arte contemporanea da quasi otto anni trascorsi a New York. Poi il decollo a Napoli, laboratorio di fermenti creativi e inimitabili esperimenti dell’arte del sopravvivere e dell’arrangiarsi, che l’ha adottato e promosso come un proprio campione.
La laurea è scattata con una grande operazione sul campo molto applaudita, una sorta di via Crucis in sette atti, che Tosatti, sotto la vigile cura di Eugenio Viola (il critico partenopeo in carriera che ora lo porta a Venezia), ha ambientato con indubbio talento in musei, chiese sconsacrate, palazzi nobiliari, luoghi dei quartieri popolari, mescolando con abilità e mano leggera paradiso e inferno, l’aura delle architetture e della storia vissuta, rimandi letterari e umori autentici degli abitanti, coinvolti e consultati nei singoli progetti sviluppati nell’arco di un triennio. Da lì, con la stessa ricetta, è partito in tournée per un giro di interventi, riccamente sponsorizzati, verso i bordi d’Europa, altre memorie altre situazioni di conflitto da mettere in scena, che ha fatto tappa a Istambul in una casa liberty destinata a demolizione, e in un lago paludoso dell’Ucraina dove si risvegliavano l’incubo della catastrofe di Chernobyl e il presagio di una guerra con la Russia di Putin, clima stravolto di cui lui stesso ha fatto le spese, arrestato e poi espulso per aver sconfinato con le sue indagini preliminari in una città governata dal dittatore che sogna di emulare la gloria degli zar.
A sostenere Tosatti un tifo partigiano di gente che conta e apre molte porte. La benedizione di Lia Rumma, punta di diamante del gallerismo made in Italy più rampante e con più aderenze sul mercato americano, con lo strascico di esperti in carriera che si è sempre portata appresso. E quella, meno prevedibile, di un ras incontrastato della Campania come Vincenzo De Luca, bis da governatore in carica, due volte sindaco di Salerno, la medaglia di ex comunista ripulita e coperta dal manto abrasivo del populismo. Un politico coi modi da marine che guarda con sospetto il mondo dell’arte ma lo frequenta come serbatoio di voti della borghesia bene.
Due chiavi che hanno aperto a Tosatti prima la porta del ministro Dario Franceschini, interessatissimo a intascar benemerenze in un bacino elettorale a ricadute trainanti e in una capitale del Sud dove Salvini non è riuscito a piantare radici né la destra montante di Giorgia Meloni a sfondare. Poi quella seconda porta da attraversare per essere investito come esclusiva stella italiana della Biennale. E infine, a ruota, quella della sua nomina a direttore artistico della Quadriennale che gli ha spalancato in simultanea la piazza di Roma. Con un incarico triennale di ricerca e riconnessione dello slabbrato territorio degli artisti nazionali e capitolini, che pur rientrando fra i fini istituzionali dell’Ente, per via di un rinvio causato dal Covid giungerà al raccolto senza poter incidere direttamente sulla designazione della cabina di regia e dei criteri guida della grande mostra finale, quella che come a Venezia garantisce più lustro: toccherà ad altri amministratori decidere che fare e con chi. Ma quel compito fuori copione è come un cappello sul sedile di un treno. Inventato per sfruttare immediatamente la caratura di vincente superdotato di Tosatti come veicolo pubblicitario di prestigio e rilancio della Quadriennale in declino, inventato dal suo attuale presidente in scadenza di mandato Umberto Croppi, abile navigatore trasversale in acque di ristagno politico. Che rivendica la paternità e l’opportunità della mossa.
A Tosatti non si può addossare nessuna colpa: tirava un buon vento per lui, perché non approfittarne? Purché si renda conto del rischio che come artista corre e condivide con ogni altro professionista del ramo. Guai se per resistere sul mercato e alle pressioni di convenienza dei suoi padrini cedesse alla tentazione di considerare merce i suoi lavori, sarebbe come perdere la patente o la carta d’identità: è un monito lanciato da un nume tutelare del contemporaneo come Marcel Duchamp.
L’introduzione è un po’ lunga, ma necessaria, per sgombrare il campo del giudizio dalle parole, – tante, troppe – e dal coro di consensi sfegatati e critiche a volte ammalate d’invidia degli addetti ai lavori, che hanno preceduto e continuano ad accompagnare l’istallazione con cui Gian Maria Tosatti si presenta in Biennale. Lui stesso ha detto, spiegato sin troppo. Quell’opera – fatti salvi i diritti d’autore – non gli appartiene più. Vive e continuerà a vivere attraverso le emozioni, le domande che riuscirà a suscitare negli spettatori che la stanno osservando e potranno in seguito farlo in presa diretta. Al di là delle intenzioni che l’hanno generata. Il titolo in locandina basta e avanza: La storia della notte e il destino delle comete. Introduce la scansione dello spettacolo in due atti. Ci dice dell’impostazione teatrale che lo sorregge, del linguaggio metaforico e poetico che le dà corpo, del viaggio della memoria che suggerisce, della libertà che dovrebbe concedere a ognuno di noi spettatori quando si chiamano in causa al riuso i ricordi. La didascalia all’ingresso va invece un po’ oltre. Ci racconta il contesto: il decollo e il tramonto del mondo industriale, dall’Italia del boom a quella azzoppata dalla pandemia. Ma scompagina l’attesa anticipando non solo il finale, ma gli umori, un senso di vaga speranza, con cui dovremo accoglierlo e immaginare il futuro tutto da scrivere. Come se Beckett ci avesse spiegato dalla prima pagina che il suo Godot non arriverà mai.
Insomma siamo a teatro, non in un’aula di conferenze. Entriamo e invece di sederci in platea giriamo sul palco a sipario già aperto. Tutto attorno un campionario di macchine massicce, quadranti che sembrano reperti archeologici, qualcuno con le lucette accese. A metà sala un gabbiotto di sorveglianza. Tra le carte e i registri sul tavolo anche un decalogo sfottente che esalta il potere e l’infallibilità del padrone e dei suoi vigilanti. Introduce le parti in gioco. Schegge di un tempo che si è allontanato. Quel che rimane di una fabbrica chiusa. E la cupezza di illusioni perdute. Cui riusciamo a dare persino una data. L’inizio degli anni 60. Perché dalla casupola del guardiano parte un giradischi che non smette di diffondere un 45 giri d’epoca, su cui i ragazzi d’allora ballavano i primi lenti e liberavano i desideri: Senza fine di Gino Paoli. Una battuta sola affidata alla musica che è una clessidra infallibile. Ma almeno è un segno di vissuto che scalda il cuore.
I cimeli da soli non bastano ad evocare errori, cadute e orrori della produzione industriale. Non basta il nastro trasportatore della seconda sala ad evocare la schiavitù di una catena di montaggio. Non bastano i tubi di areazione e di scarico appesi al soffitto dell’ambiente successivo a raccontare i conflitti e i veleni mortali messi in circolo dalle fabbriche chimiche. Ad evocare la tragedia irrisolta degli altoforni ancora accesi all’Ilva di Taranto, tanto per citare un esempio. Anche perché le frettolose ricerche di trovarobato, cui la troupe di Tosatti fa ricorso, popolano la ribalta di falsi, reliquie senza voce e senza data che non fanno scattare fantasie, associazioni, rimandi all’esperienza diretta di uno spettatore qualunque. Uno sbaglio da scenografo giovane, forse mal consigliato, pensare che facciano venir su per inerzia gli echi e i ricordi di testi letterari, studi di sociologia, trattati di economia, inchieste di denuncia, profezie senza sbocco e travisamenti politici, che Tosatti e la schiera dei suoi critici amici citano in catalogo e nei loro commenti, dandone per scontata la conoscenza. Usandoli come specchi che catturano riflessi a comando, dove più conviene girarli. Dentro i dettagli che hai sorvolato puoi vedere gli stabilimenti della Fiat o quelli in disarmo di Bagnoli, le fabbriche chiuse dalla crisi e i laboratori smobilitati per via del Covid. Spostarti perfino in Ucraina dove il colpo di spugna è arrivato dalla guerra, rimando obbligato ad una realtà che incalza là fuori. A parole, nel nome dell’arte, si può far tutto.
Colpa tua se tu, e tanti altri, non ci riescono proprio a cogliere quelle risonanze. Soprattutto quelli che in fabbrica ci sono stati, e non serbano solo il ricordo di spazi segnati da macchine e architetture, ma quello molto più complesso delle infinite storie di uomini e donne che dentro quelle prigioni ci hanno passato la vita, a respirar veleno, inghiottir rospi e magari a lottare per cambiare le cose. Qualcuno a farci carriera sulla pelle degli altri o a perpetrare angherie. Troppe cose nasconde la notte che la fantasia e il taglio minimalista dell’autore ha ridotto al silenzio.
Ecco l’ultimo set. È dedicato a uno dei tanti capannoni semiclandestini di maglieria alla periferia di Napoli che l’emergenza della pandemia ha condannato a morte. Tosatti ne ha acquistato in blocco le attrezzature e i mobili dismessi per rimontarli qui all’Arsenale. In alto, la casetta dove probabilmente viveva il direttore, un poveraccio anche lui a giudicare dalla brandina rugginosa abbandonata nella stanza da letto, dal segno lasciato sul muro da un crocefisso rimosso. In basso neanche un indizio della smobilitazione recente, solo un panorama malinconico di venti banchi da lavoro e macchine da cucire disposti in file ordinate, il rocchetto blu dei fili ancora in evidenza. Possibile che la comunità femminile che l’ha popolato non abbia lasciato un segno del suo passaggio? Uno specchio, delle fotografie appese al muro dei mariti e dei figli, qualche selfie con le compagne, una scritta incisa sul legno, un volantino accartocciato per terra? No, è inverosimile. Se sul set fosse passato un vero regista pronto a girare si sarebbe certamente incazzato con lo scenografo per la sua sciatteria. Tosatti ha tentato di simulare il vuoto di un deserto alla Tarkovsky, ma non è riuscito a farlo parlare.
Ha tentato di riempire lo spazio a disposizione, oltre 2000 metri quadrati, ma non l’ha dominato. Spiacevole ma comprensibile che ora qualcuno gli rimproveri lo spreco di soldi. Due milioni di euro, un quarto di contributo statale, il resto coperto da sponsor. Mica pochi. Toccherebbe però al produttore contestargli lo sperpero, per un critico contano soprattutto i difetti di esecuzione, le cadute di stile, le censure per convenienza. Come la sporcizia dell’atto finale. Sigillato da una citazione di Pasolini: «Darei la Montedison per una sola lucciola». La classe operaia non è andata in Paradiso, il capitalismo selvaggio si è votato ad altri dei nell’Olimpo della Borsa, produrre non è più un mito portante. Ma a render meno cupa la notte si accende comunque un lume di un altro futuro di convivenza meno rapace con la Natura che ci circonda. Parola e profezia conclusiva d’artista affidate a un altro set. Buio totale. Ti fanno avanzare, in silenzio, due alla volta, su una passerella che si affaccia sul colore livido di un mare agitato, uno specchio ondulato che comunque rifrange e cattura un apparire e scomparir di lucine. Eccole le lucciole della salvezza, annunciate in copione. Peccato che ad animare questo miraggio spicchino a un secondo colpo d’occhio – di più non è concesso sostare – delle lucine a led da apparato natalizio made in China. Le riconosci dalla sagoma appuntita a freccia che ne rivela nell’oscurità la posizione e l’intermittenza immobile su vari tralicci. Altro che effetti speciali da ambizioso kolossal, un trucchetto che nemmeno un film di serie b si può ormai concedere.
Qualche anno fa, il padiglione Italia, gestito allora da Cecilia Alemanni, concesse a uno dei quattro autori prescelti, il veneziano Giorgio Calò, di usare in modo analogo la stessa piscina, sfruttando tecnologia e strumenti d’illuminotecnica. Ne uscì fuori una visione d’incanto. Un gioco di luci e di riflessi che ribaltava e metteva a nudo nell’acqua la chiglia di un vascello fantasma al naufragio. Un confronto che contribuisce ancor più ad abbassare i voti in pagella per questa istallazione tanto reclamizzata. Altri critici fanno cordata alternativa – e un po’ sospetta per il patrocinio di Vittorio Sgarbi – su un altro confronto con un autore italiano, Arcangelo Sassolino, retrocesso in un padiglione minore, prestato da Malta: lo spettacolo intenso e vibrante di gocce di metallo fuso che precipitano e si spengono in un recinto di bacini quadrati stesi a terra ad evocare il martirio di un S. Giovanni decollato, immortalato da un capolavoro di Caravaggio nella cattedrale dell’isola. Paragoni scomodi e difficili da rintuzzare. Povere lucciole, evocate apparizioni da favola ma derubate d’ebrezza. Per fortuna non tutti se ne accorgono: nei dépliant avevano promesso le lucciole, e lucciole devono essere per forza.
Credo funzioni così anche per il messaggio di ottimismo che Tosatti e il suo curatore, Eugenio Viola, veicolano a scatola chiusa come un tirare le somme obbligato. Pilotato sin dal manifesto d’entrata e poi ribadita negli incontri programmati in varie città per dibattere e promuovere come eccellenza nazionale e internazionale l’evento. Il primo a Napoli. La pubblicità è l’anima del commercio. E i diavoli di oggi sono più avidi, gigioni e smaliziati di quello che costrinse a un patto infame il povero vecchio dottor Faust.
(Nelle immagini, particolari di “La storia della notte e il destino delle comete”, l’installazione di Gian Maria Tosatti, unico artista presente quest’anno al Padiglione Italia della Biennale Arte di Venezia).