Cronache infedeli
La Colombia in bilico
Domenica prossima si vota in Colombia: per la prima volta, nei sondaggi è in vantaggio il candidato della sinistra, Gustavo Petro, un economista che punta sulla legalità e l'inclusione sociale. Ma l'arma populista della vecchia e nuova destra è davvero spuntata?
Torna un amico da un lungo viaggio in Colombia e racconta che Medellin (nella foto qui accanto) è una capitale bellissima, uno splendore. Quella che pochi anni fa conquistò il trofeo di città “più pericolosa del mondo”, oggi si specchia nei suoi giardini lussureggianti, disseminati di grandi opere di Botero, nel suo sistema di trasporto integrato funzionale e ordinato, nei suoi musei, nelle iniziative culturali. In alto, sulle colline che orlano ad ovest il vasto centro cittadino, anche la famigerata favela Comuna 13 – fino a pochi anni fa un autentico inferno dei vivi – si sta trasformando con fatica ma con risultati tangibili in un luogo vivibile, vibrante, in continua crescita sociale.
Nelle stesse ore leggo su una rivista questa stringata notizia, quasi una nota a pie’ di pagina: a nord del Paese, intorno alla città di Monterìa, i paramilitari urabenos del cosiddetto Clan del Golfo hanno proclamato un paro armato, uno sciopero armato che ha bloccato per cinque giorni ogni attività: in undici dipartimenti della regione di Cordoba le milizie hanno seminato il terrore tra la popolazione, imponendo in punta di fucile il blocco dei trasporti e dei servizi, la fermata delle fabbriche e la chiusura delle scuole.
Monterìa dista meno di 400 chilometri dal “miracolo” Medellin, e questa straziante contraddizione si propone ancora una volta come simbolo della tragedia di un Paese lacerato che non riesce a trovare pace da oltre sessanta anni. Su questo terreno minato, su questo filo eternamente teso tra la speranza nel futuro e il fosco richiamo della foresta, cammina in bilico la vera novità di questi ultimi, faticosi anni colombiani. Tra pochi giorni si vota per le presidenziali e a sorpresa – dopo lunghe stagioni d’ininterrotto governo delle destre – il candidato del Pacto Historico delle sinistre, Gustavo Petro, è in testa ai sondaggi con oltre il 45 per cento delle preferenze.
Ma il passato che non passa rischia di ghermire anche questo misurato, rassicurante, colto economista di 62 anni, che fu – anche se per un breve periodo – sindaco di Bogotà. Petro deve infatti farsi perdonare un remoto passato di guerrigliero, come aderente – giovanissimo – al Movimento urbano antimperialista M-19, responsabile di tragici episodi di violenza fino agli Anni Novanta. Quale migliore occasione per la destra colombiana di poter attribuire al candidato della sinistra la responsabilità delle violenze di questi ultimi giorni? Petro rilancia e denuncia i legami tra alcuni gruppi politici di destra e la criminalità organizzata. Benzina sul fuoco, appunto, con l’allarme che sale giorno dopo giorno mentre si avvicina domenica elettorale.
Il candidato della coalizione di sinistra – che gira il paese con giubbotto antiproiettile e a bordo di auto blindate – negli ultimi giorni ha dovuto rinunciare ai comizi già programmati a Pereira, capitale dell’eje cafetero, la regione del caffè: «Qui le bande armate mi vogliono morto», denuncia.
Petro sa di cosa parla: proprio in questa vasta zona, negli Anni Settanta hanno avuto origine le cosiddette autodefensas, i gruppi paramilitari legati ai padroni della coca in funzione anti-guerrigilia e sopravvissuti fino ai giorni nostri come prezzolati responsabili di una lunga catena di “magnicidi”: omicidi di dirigenti e personalità politiche che si oppongono all’egemonia della destra colombiana. Ultima impresa, il 30 aprile scorso: l’assassinio del giovane procuratore antimafia del Paraguay Marcelo Pecci, ucciso durante la sua luna di miele su una piccola isola al largo di Cartagena.
Il terrorismo, in Colombia, ha mille teste, e rinasce dalle sue ceneri come l’Araba fenice. Intorno al moloch della coca e delle fortune sterminate che promette e realizza il narco-traffico, nascono, si trasfigurano e si rinnovano gruppi armati in eterna guerra tra loro: oggi le vecchie autodefensas e i nuovissimi paramilitari urabenos, il Clan del Golfo che mima anche nella postura i cartelli della droga messicani. E un pulviscolo di nuovi gruppi che combattono e muoiono tra la selva e le coltivazioni di coca. Una recente inchiesta della giornalista del New York Times Julie Turkewitz descrive le nuove leve della giovane guerriglia che si fanno le ossa nella regione del Putumayo, all’estremo sud del Paese: «Una nuova generazione di combattenti si confronta per lo stesso obbiettivo di sempre: il controllo del traffico di droga».
Questo il quadro, per nulla rassicurante. «Sono le elezioni presidenziali più pericolose degli ultimi sessanta anni», avverte il giurista Rodrigo Uprimny, che teme addirittura una rottura democratica, se alcuni degli attori politici della sfida non dimostreranno senso di misura e moderazione. Il riferimento è al campo del centro-destra, che si è trasformato negli ultimi giorni in una vera e propria tonnara politica. Il candidato della destra istituzionale Fico Gutierrez, che fino a pochi giorni fa sembrava destinato a contendere la presidenza a Petro nel ballottaggio, non è più tanto sicuro del secondo posto. Come scrive l’inviato del Paìs, «all’orizzonte è apparso Rodolfo Hernandez, un rivale populista e volgare, una sorta di Trump caraibico che nei sondaggi si è avvicinato pericolosamente a Gutierrez». Dunque, come sempre succede, per prevalere nella sfida interna al centrodestra ognuno dei contendenti dovrà spingere l’acceleratore su allarmismo ed estremismo. In altre parole: su quella variante colombiana che lo scrittore Ricardo Silva Romero chiama la petro-fobia, una malattia derivata dal panico verso il comunismo e che si trasmette di generazione in generazione. «È la paura, da sudori freddi, che la sinistra arrivi al potere in un Paese che ancora sente la nostalgia del feudalesimo. E la petro-fobia, ossia lo spavento di fronte alla possibile vittoria del candidato Gustavo Petro, è la variante omicron di questo virus, che si trasmette in modo fulmineo, senza pause e senza rimedio».
Contro questo giudizio storico – e soprattutto contro questo pregiudizio – si è mossa in questi mesi la coraggiosa campagna elettorale di Gustavo Petro. Il suo discorso politico si è fatto di settimana in settimana più centrista, abbandonando i toni e gli argomenti tipici della sinistra dogmatica e di quel modello settario che qui in America Latina viene definito “Castrochavismo”. Eppure, Petro mantiene vive alcune proposte fondamentali di una sinistra riformista radicale. A partire dalla scelta inedita di una candidata vice-presidente: Francia Marquez, quarant’anni, donna e nera, attivista ecologista, proveniente dalla travagliata regione del Cauca.
La scelta di Francia Marquez rappresenta un chiaro segnale. Cinque milioni di afro-colombiani costituiscono il 10 per cento della popolazione del Paese e sono i discendenti degli schiavi deportati dall’Africa e costretti a lavorare nelle piantagioni di zucchero, nelle miniere e nelle sterminate fazendas dei coloni spagnoli. Mai nella storia della Colombia la politica ha dato un segno così esplicito di compartecipazione e accoglienza delle minoranze. Con questi compagni di strada e con questa disarmato coraggio il candidato della sinistra gioca la sua partita: «Mi chiamo Gustavo Petro e voglio essere il vostro presidente».
La battaglia sarà dura. Scrive ancora Ricardo Silva Romero: «Questi sono giorni perfetti per l’estremismo, e l’estremismo di oggi non è tanto una agenda politica, quanto un modo per esercitare la cittadinanza, una indignazione in cerca di autore che i politici in veste di troll hanno saputo capitalizzare. Tornare a un certo livello di equilibrio – dalla rissa alla critica, dai fossati all’inclusione – dovrebbe essere un dovere. Questo angolo di mondo non dovrebbe aver bisogno di campagne sanguinose, di fantasmi massacrati, per ristabilire la regola basilare della democrazia: la vittoria riconosciuta, l’accettazione della sconfitta, e per tutti la garanzia della Costituzione». È un auspicio – in tempi grami e durissimi – non solo per la Colombia, ma per il mondo intero.