Una storia inedita
Aiace Armitrano
«“I giovani – disse, col suo abituale tono apodittico, il cavalier Santoro – nel momento in cui cessano di voler cambiare il mondo, cessano di essere giovani”»
Tanti anni fa, precisamente il 17 marzo del 1969, Aiace Armitrano salutò la moglie al treno espresso delle 16 e 45 in partenza per Milano.
Aiace Armitrano, ex impiegato di concetto al Ministero di Grazia e Giustizia, nonostante il nome belluino, non aveva avuto una vita particolarmente eroica ed esaltante. “Sono nato di venerdì 17, sotto una cattiva stella” soleva dire con un mezzo sorriso sotto i baffi a spazzolino. Forse Armitrano esagerava ritenendosi perseguitato dalla sfortuna, certo è che la malasorte, anni prima, gli aveva inferto un colpo durissimo quando gli aveva sottratto Dorina, la cara figlioletta, con un attacco di meningite.
Le pratiche d’ufficio al Ministero di Grazia e Giustizia quasi mai avevano sollecitato Armitrano a riflettere filosoficamente sulla Grazia e sulla Giustizia, ma la morte di Dorina gli era sembrata una gigantesca ingiustizia metafisica. Insomma la fede nel Divino Amore traballò, si intiepidì e, a poco a poco, si congelò in una persistente indifferenza.
La signora Armitrano non osava esporre il dubbio che proprio l’allontanamento del marito dalla religione, avesse, in qualche modo, rinforzato il castigo celeste, deprivandola di una seconda maternità; per cui, insieme al crudo dolore per la morte della bambina, maturò nell’animo suo una sorta di amarezza nei confronti del marito o un vago risentimento che, tuttavia, non si tramutarono mai in un vero rancore, data la sua naturale disposizione all’affetto coniugale.
Gli anni passavano, uno dopo l’altro e figli non ne venivano, sennonché, proprio in quell’età femminile in cui le ovaie chiudono la partita con la procreazione e nella quale l’intermitence de cour si placa in un diagramma senza picchi e senza voragini, quasi predisponendosi al buio tunnel che lontano già appare, la dolce signora Giorgia delli Paolis, maritata Armitrano, nella sorpresa generale, restò incinta.
Si dice che i figli di genitori anziani o contraggano una congenita malattia della mente o dimostrino una pronta e vivace intelligenza. Non sappiamo se la teoria abbia un adeguato sostegno scientifico, certo è che Mario rivelò precocemente di appartenere a questa seconda categoria. Crescendo fu un ragazzo modello, rispettoso, serio, studioso e, a parte qualche impennata di eccessivo idealismo, che, a detta del padre, non gli avrebbe giovato nella vita, si dimostrò capace di superare le difficoltà scolastiche e conseguì brillantemente la maturità. All’ università si iscrisse alla facoltà di Scienze politiche. “Fine, elegante – pensava la madre – potrà seguire la carriera diplomatica.”
Ma, in quei mesi inquieti ed inquietanti del 69, Mario sembrava aver subito una trasformazione radicale. Si era fatto crescere barba e professava strane idee eversive, infiorando il discorso con tremende locuzioni assai estranee, invero, al presumibile eloquio di un futuro diplomatico.
“I giovani – disse, col suo abituale tono apodittico, il cavalier Santoro – nel momento in cui cessano di voler cambiare il mondo, cessano di essere giovani”. Il cavalier Santoro, L’ex vice cancelliere Apicella, e l’orologiaio don Raffaele Cantalamessa, detto campana, a causa della sua quasi totale sordità, erano i compagni dello scopone scientifico del sabato sera, l’unico svago, se vogliamo, che Armitrano si concedesse.
D’accordo, i giovani sono sempre un po’ rivoluzionari, ma le preoccupazioni dei coniugi Armitrano erano dovute al fatto che Mario, trascurando gli studi universitari, aveva assunto quello che il padre chiamava “il vizio dell’artisticità, il quale vizio – diceva- è pericolosissimo ed è peggio della cocaina”
Il vizio dell’artisticità di Mario consisteva massimamente nell’essersi dato anima e corpo (lui ed altri scavezzacolli come lui) alla realizzazione di uno stravagante e complicato progetto: il “Postal Theater Operation”.
Tra linee e controlinee più o meno corrette a monte e a valle e nelle misure in cui, dialettiche piattaforme ideologiche e mozioni d’ordine, in sostanza il fatto era questo: Mario, i compagni e le compagne, avrebbero scritto una specie di sceneggiatura teatrale con circa 25 “parti,” ognuna relativa a un ruolo familiare, praticamente, una per il padre tipico, una per la madre tipica, una per il figlio, una per la figlia, per i cugini, per il nonno e per la nonna, per gli zii, per i cognati e le cognate e così via, naturalmente tutti tipici. Avrebbero, poi, spedito una copia della partitura completa a 500 famiglie, prese a caso dall’elenco telefonico. I destinatari del messaggio sarebbero stati invitati a recitare in casa queste scene, ogni componente familiare avrebbe recitato la sua “parte”. A questo punto che cosa sarebbe successo? Sarebbe successo – nell’opinione dei rivoluzionari teatranti – che il processo di estraneazione (che il Teatro sempre comporta, come insegna Brecht) avrebbe indotto gli attori e insieme fruitori della rappresentazione a meditare sulla banalità, sulla volgarità, e perfino sulla mostruosità del proprio ruolo familiare, perché – sostenevano sempre i teatranti rivoluzionari – il marcio della società borghese comincia dalla prima cellula del sistema, cioè dalla famiglia.
Questa cosa, questa operation, ad Armitrano apparve subito dissennata, tuttavia si era messo in testa che il suo dovere di padre fosse quello di intervenire pedagogicamente, cosa che fece puntualmente: chiamò il figlio e guardandolo dritto negli occhi, da uomo a uomo, disse “Senti, figlio mio, io sono un padre moderno e non vorrei ostacolare le tue aspirazioni, ma questo vostro teatro, senza spettatori, senza biglietti, dove non si becca una lira, a me sembra una assurdità totale, roba da manicomio.
“Papà – gli rispose il figlio – tu non capisci e non potrai mai capire.” E, invece, Armitrano, mai come questa volta, voleva capire. Era stato sempre un uomo metodico e preciso “il più preciso dei miei impiegati” aveva detto tanti anni prima il capufficio, al Ministero. Parole indimenticabili! Così pensò di utilizzare questa sua prerogativa per dar corso ad una vera e propria “metodologia di analisi” (questa definizione da scienziati l’aveva letta sul giornale e gli era piaciuta). Programmò, quindi di assistere come spettatore e uditore silenzioso agli accesi dibattiti serali del figlio e degli altri teatranti rivoluzionari, di tenere a mente le frasi più significative, le espressioni più sostenute, di annotarsele in disparte in un taccuino e, successivamente, di approfondirle con calma. Da questo metodo sarebbero venute fuori le indicazioni per intervenire con la chiarezza e la pertinenza richieste dal suo alto dovere di educatore. Dopo pochi giorni, Armitrano si trovò scritte nel suo taccuino segreto asserzioni come queste: “La gestione delle formulazioni semantiche e della comunicazione riguarda, nella nostra società, i rapporti di potere e tende a coincidere con la violenza del Sistema. Un impegno civile, ancora possibile per l’artista, potrà realizzarsi solo attraverso un gesto estetico che scavalchi gli spazi mercantili e della contrattazione”. Oppure: “Volente o nolente il riguardante, nel momento della recezione del Postal Theatre, inaugura un nuovo rapporto di comunicazione artistica, che in sé costituisce la negazione dei rapporti preesistenti, completa e definisce, anche suo malgrado, un’azione rivoluzionaria, partecipa a un rovesciamento istituzionale e, di conseguenza, a una qualificazione politica”.
Armitrano lesse e rilesse queste parole, pensò e ripensò, le imparò quasi a memoria, spesso le ripeteva tra sé e sé, ma, alla fine, pervenne a un bivio di natura, per così dire, dicotomica: “O sono pazzi loro o sono pazzo io”.
La signora Giorgia Armitrano era nientemeno che la sorella del dottor Cosimo delli Paolis, alto dirigente della Rai Tv, bell’uomo e grande conquistatore di ballerine di varietà di seconda e anche di prima fila. Ma il dottor Cosimo Delli Paolis, alto dirigente della Rai Tv non doveva essere nemmeno nominato in casa Armitrano. Il motivo di tanta avversione risaliva a un episodio accaduto trentanove anni prima. In quell’epoca il dottor Cosimo era uno studente universitario assai disinvolto. Un po’ per la sua competenza di numerose barzellette su Starace, un po’ perché strimpellava al pianoforte in maniera non del tutto indecorosa qualche canzonetta in voga, era sempre al centro dell’attenzione, specialmente nelle situazioni conviviali. Durante la festicciola per il fidanzamento ufficiale della graziosa Giorgina con il maturo Armitrano, il giovanotto, dai capelli impomatati come voleva la moda, con assoluta spudoratezza e al cospetto di tutti gli invitati, ebbe a dire: “La mia sorellina non merita di sposare una mezza calzetta”.
L’offesa per Armitrano fu sanguinosa e il primo impulso fu di passare a via di fatto con il mascalzone, ma, con un sovrumano sforzo di volontà, frenò la pulsione aggressiva e tacque. Si diceva, infatti, che il bel Cosimo godesse di libero accesso al talamo nuziale di un celebre gerarca, o, per meglio dire, della di lui consorte, celeberrima anch’ella nell’alta società, nonostante le sue origini popolane e terrone. Anzi, proprio queste origini popolane e terrone, esplicitandosi in strepitose verbalizzazioni erotiche, sapientemente miscelate con qualche Cherie o sospiroso Mon Amour (locuzioni acquisite nel giovanile apprendistato di entreneause in un locale notturno di Nizza), conferivano all’ardente dama bruna non so che di raffinatezza primitiva o di primitività raffinata assai apprezzate da alcuni pezzi grossi del regime, in fama di sciupafemmine.
Secondo i bene informati, finanche il grande D’annunzio pare che avesse voluto, anni prima, ascoltare questa musica franco-partenopea e avesse fatto allestire, nel Vittoriale, un’apposita alcova con drappi gialli di velluto, broccati di Damasco e maschere di pulcinella in madreperla. In quest’ultimo elemento scenografico, gli ammiratori dell’Immaginifico e Vate Nazionale, i fan irriducibili e i dannunziologi in genere, intravidero l’inconfutabile segno del genio.
Armitrano pensò che sarebbe bastata una mezza parolina del giovanotto per farlo trasferire in Sardegna o al confino a Ventotene o, addirittura, a Regina Coeli. “Con questi papaveri c’era poco da scherzare e lui il posto al Ministero se l’era guadagnato con grandi sacrifici personali”. Perciò, sebbene l’imperativo categorico del truce predappiano universale imponesse con rigore ontologico, il giorno da leone e non i cento da pecora, con pecorina prudenza scelse di tacere. Dopo quasi 40 anni, la sanguinosa ferita, però, non si era ancora cicatrizzata, anzi, nei momenti più impensati, quella frase che lo appellava “una mezza calzetta” sembrava saltar fuori dalle teche della memoria e pararsi davanti alla mente con l’evidenza di un’insegna pubblicitaria. Insomma, del cognato illustre non si doveva parlare nemmeno sotto metafora. Una sola volta, per la verità, avendolo visto comparire alla televisione, disse agli amici dello scopone scientifico: ”Questo signore è il famoso fratello di mia moglie”. Ma in quel ”famoso” c’era più acrimonia che compiacimento. D’altra parte gli amici non fecero alcun commento; don Raffaele, certo per non aver sentito, l’ex vice cancelliere Apicella perché era stato il principale assertore del silenzio assoluto durante lo scopone scientifico e il cavalier Santoro perché in quel momento era concentrato sul fatto, assai insolito, di trovarsi tra le carte tutti e quattro i sette.
Le donne, si sa, anche quando sono di indole mite e sembrano schive nei confronti delle progettazioni pragmatiche, in certe particolari circostanze e specialmente quando la posta in gioco è l’avvenire di un figlio, chissà da quali criptici meandri dell’anima traggono una virile lucidità per le soluzioni pratiche più adeguate e costruttive. “Se nostro figlio – disse la signora Armitrano al marito con una imprevedibile forza michelangiolesca nello sguardo – ha predisposizioni artistiche, non possiamo abbandonarlo a se stesso e chi altro potrà aiutarlo se non lo zio Cosimo? Lui, mio fratello, col suo prestigio, con la sua autorità saprà bene il da farsi per inserire il ragazzo nel mondo dell’arte e dello spettacolo. Del resto Mario è l’unico suo nipote e il sangue non è acqua!” Di fronte a tanta determinazione, Armitrano non se la sentì di frapporre ostacoli e la cicuta se la dovette ingoiare da solo. Così fu stabilito che la signora Armitrano partisse per Milano, allo scopo di parlare al fratello del suo Mario, aspirante artista televisivo. Partì quel 17 marzo del 1969, proprio il giorno del settantesimo compleanno del marito. Non che avesse dimenticato l’anniversario, ma l’appuntamento datole dal fratello in Corso Sempione, nella sede della Rai TV, che al dottor Cosimo aveva regalato la notorietà e l’ulcera e laddove veniva logorato da “mille problemi e dieci mila problematiche” come si era espresso al telefono, bene quell’appuntamento, era chiaro, aveva il carattere della inderogabilità.
Armitrano dopo aver accompagnato la moglie alla stazione, mogio mogio, se ne tornò a casa, si mise in pantofole, assisté a un’ennesima riunione dei teatranti rivoluzionari (ormai era diventata un’abitudine), cenò in compagnia del telegiornale con un po’ di pizza di scarole preparata amorevolmente dalla moglie, fece la pipì e andò a letto. Doveva leggere il Tropico del Cancro, gli era stato consigliato da una certa Marina, l’unica del gruppo che gli rivolgesse qualche volta la parola. “Lo legga – aveva detto la ragazza con un sorriso da carosello – vedrà è liberatorio”. Di che cosa si dovesse liberare, in verità Armitrano non lo sapeva, comunque accettò l’invito. Lesse poco e distrattamente però, perché subito scivolò in un sonno profondo, quasi a lenire ogni possibile bruciante amarezza.
In quella notte del 17 marzo del 1969, nel giorno del suo settantesimo compleanno, Aiace Armitrano, ex impiegato di concetto al Ministero di Grazia e Giustizia, fece uno strano sogno, sognò, in pratica, di morire e nel sognare di morire, realmente morì.
Le fotografie sono di Roberto Cavallini