Il senso di una crisi
Icaro impiccato
La guerra del signor Putin e quella dei signori Hitler e Mussolini. Poi le bombe su Milano, i morti sull'Adige, Caporetto, l'Onu e un Icaro di legno scolpito da Marino Marini: appunti sul tempo presente di un grande scrittore e regista
“Pani – Bobbe – Pum – Tina!” Queste, a detta di mia madre, sono state le prime parole (insieme, è ovvio, a “mam-ma”) che ho pronunciato nella mia vita: “Areoplani – Bombe – Pum – Cantina”. Ero a Milano, era il ’44, avevo otto, nove mesi. I bombardamenti avvenivano per lo più di notte. Gli aerei, a centinaia, partivano dall’Inghilterra, poi dal sud della Francia e infine dalla Puglia dove la Mediterranean Allied Air Force aveva stabilito una base, vicino a Foggia. I primi bombardamenti su Milano avvennero nel giugno del 1940, gli ultimi il 13 aprile 1945. Quasi cinque anni di “bobbe”, sporadicamente nei primi due, poi fu una pioggia di fuoco. Ci furono, in città, almeno 2000 morti tra la popolazione. Una delle “bobbe” cadde sull’edificio dove abitavamo. Io e mia madre eravamo nella “tina” e ci siamo salvati ma non avevamo più dove vivere. Mio padre non c’era. Era in fuga, i fascisti lo cercavano perché si era rifiutato di andare a combattere per Mussolini. Aveva quasi cinquant’anni. Dirò di lui fra poco.
Mia madre e io fummo tra i 300.000 sfollati da Milano. Ci rifugiammo in una casa che avevamo nella campagna veneta dove ero nato e dove rimasi fino alla fine della guerra. Quel luogo fu testimone delle retate fasciste, del passaggio dei nazisti e poi di quello degli alleati; in questi tre momenti ci fu una somma, che nessuno può più calcolare, di donne stuprate e di cadaveri tra le zolle dei campi di frumento duro e delle vigne.
In quel luogo ho uno dei primi ricordi della mia vita; mi avvicinavo ai due anni. È una rappresentazione con un sonoro confuso e stridente, con figure in movimento. Galleggia in una nebbia che non è soltanto della mia immaginosa memoria infantile ma è anche reale, prodotta dall’umidità che nei mesi invernali sale dall’Adige. Eccolo, il ricordo: dal ramo di una gigantesca quercia spoglia pende, strangolato da una corda, un uomo di legno, nudo, le braccia alzate. Intorno a lui ridono e ballano, ubriachi, alcuni uomini in carne e ossa e divisa nera. La statua in legno, naturalistica e delle reali dimensioni di un giovane maschio, era stata appesa a una parete della nostra casa e da lì i nazisti l’avevano staccata e impiccata. Io ero in braccio a mia madre, dietro alla finestra chiusa. La statua era stata scolpita una decina di anni prima da un amico fraterno di mio padre, uno scultore toscano fuggito in Svizzera quando anche il suo studio, a Milano, era finito sotto le bombe. La statua rappresentava Icaro mentre cadeva e il suo autore si chiama Marino Marini, diventato poi molto famoso.
Icaro, nella mitologia, è punito e precipita verso la morte per avere sfidato i limiti umani, per avere tentato l’azzardo impossibile. Simboleggia la fuga verso una libertà assoluta, la scalata al cielo, via dalla miserabile e penosa insicurezza della vita umana sulla terra. Nella mia infanzia, ho visto questo simbolo del più audace dei sogni proibiti venire punito una seconda volta: impiccato e deriso dalle Teste di Morto naziste.
Guardo ora da una infinita distanza di tempo quel mio volto bambino dagli occhi spalancati dietro la finestra a fissare il ballo dei vampiri attorno alla statua di legno e vedo quanto sono stato fortunato. Non ero, infatti, un bambino ebreo. Non sono, in questo inizio del ventunesimo secolo, un bambino ucraino, né yazida, né siriano, né yemenita, e nemmeno kurdo, o maliano, e nemmeno un bambino etiope del Tigrai, e nemmeno, e nemmeno, e nemmeno… Non devono vedere, i miei occhi infantili, mia madre o mia sorella stuprate, o mio padre o mio fratello bruciati vivi.
* * *
Sono passi gli anni, tanti, mio padre mi ha lasciato quella statua che mi sono portato dietro nei miei innumerevoli traslochi, trasferimenti, divorzi, cambi di case. Se fossi capace di dipingere e volessi fare un autoritratto, mi rappresenterei da dietro, in cammino, con Icaro su una spalla e una valigia in mano. Per tutta la vita, sono stato legato a quella statua da un cordone ombelicale. Il sogno di Icaro, va detto, è tragicamente cieco, è inebriante, superbo, ma è anche stupido. Per molte, tra le scelte che ho fatto, mi sono identificato con la sua ingenua ma arrogante stupidità.
Ho finito per non riuscire a vivere lontano da quel pezzo di legno a cui Marino aveva dato un respiro e su cui i nazisti avevano sputato davanti me. Quegli sputi ubriachi a Icaro morto due volte che penzolava nella nebbia erano spunti contro la cultura e l’arte che il legno rappresentava. In un momento difficile, ho cercato invano di venderlo, Icaro, di liberarmi di lui. Per fortuna non è successo.
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Ora è sempre davanti ai miei occhi. Guardo una delle sue mani che i nazi hanno spezzato. Ascolto la radio: notizie dall’Ucraina, una nuova guerra qui accanto.
Dicevo di mio padre. A vent’anni aveva combattuto in quella che, gli avevano fatto credere, sarebbe stata l’ultima guerra in Europa. La prima e l’ultima guerra mondiale. Me ne ha parlato pochissimo, non voleva. Ora mi pento di non averlo costretto. Ha evitato qualsiasi racconto del grandioso macello in cui si era dibattuto e dal quale era miracolosamente scampato. Non mi ha mai parlato delle lunghe file di uomini falciati come il grano di cui ho letto nei libri, o dei suoi compagni che si dibattevano bruciando, dei corpi sbriciolati, delle mani di quelli che cercavano di rimettere nel proprio ventre i pezzi che ne erano usciti, di quelli che avevano cercato di proteggersi dal fosgene con un fazzoletto o mettendosi del pane bagnato in bocca. Usato per la prima volta contro gli italiani nel 1916, il fosgene aveva gasato, atrocemente soffocandoli, 2500 uomini in una sola giornata, era il 26 giugno. Gli italiani si erano messi immediatamente a produrlo anche loro e ne avevano sfornato e impiegato, nel ‘17 e nel ’18, circa 13.000 tonnellate.
Di niente di tutto questo mi ha mai parlato, mio padre. Mi ha raccontato un solo episodio, nei dettagli. Uno solo, che ho ascoltato, da adolescente, con l’immaginazione più che con le orecchie.
Mio padre, a diciannove anni, invece di entrare all’Università cui mirava, era stato richiamato, addestrato per sei mesi a Caserta nel corpo dei bersaglieri e spedito come ufficiale sul Carso. Comandava un plotone di arditi. Erano, gli arditi, delle forze speciali formate nel gennaio del ’17 sulla falsariga di un simile corpo austriaco. Uomini preparati nelle tecniche di assalto e colpo di mano contro posizioni fortificate, di lotta corpo a corpo e di impiego di varie tipologie di armi. Questo giovanotto siciliano, mio padre, guidava all’assalto un gruppo di uomini che avevano, in molti, il doppio dei suoi anni e che, alcuni, erano stati tirati fuori di galera per andare a combattere e farsi uccidere, altri infine, parlavano soltanto strani dialetti. Mio padre mi ha riferito che era riuscito a farsi rispettare da loro gettandosi sempre per primo all’attacco. Le pallottole lo avevano fortunosamente risparmiato dal colpo mortale. Ferito a un occhio da una scheggia, appena ricucito era tornato a combattere. Veniamo all’episodio. Siamo a Caporetto. Il plotone di mio padre era tra le forze lasciate a proteggere la ritirata mentre esercito e civili scappavano. È accaduto di tutto in quella ritirata. Aveva visto, mio padre, moltitudini di soldati italiani, sventolando fazzoletti bianchi, gridare “Evviva la Germania” mentre si gettanvano prigionieri tra le braccia dei Wurttemburghesi che avanzavano. Quei contadini affamati mandati al massacro, mi diceva, avevano dimenticato, insieme all’orgoglio, anche il proprio nome.
Un ufficiale cercava di fare tornare indietro i suoi uomini minacciandoli con la pistola ma quelli fuggivano spaventati come cani. Lui aveva sparato, gridando “Vigliacchi!”, sparava in aria perché non ce la faceva a tirare alle loro schiene. Infine, per la vergogna e il dolore, si era infilata in bocca la canna della sua arma. In quel mentre erano comparsi tre squadroni di cavalleria italiana, perfettamente ordinati, le bandiere al vento galoppavano in senso contrario, i folli, l’ufficiale in testa accanto a un frate dal saio grigio. Si lanciavano al galoppo contro un battaglione di Jager. Disperato coraggio. Le mitragliatrici leggere tedesche avevano fatto fuoco. Un furioso cadere e rivoltarsi di uomini e di cavalli. Vomito di sangue e melma. Calci di zoccoli al cielo. Nella notte, terrificanti bagliori di incendi coloravano il buio. La terra intera era in fiamme e a intervalli sobbalzava, spaccandosi e aprendo crateri, quando saltavano in aria i depositi di munizioni.
Le strade brulicavano di contadini e soldati. Carri, carrette, automezzi di ogni specie. Erano migliaia, non riuscivano a muoversi, a passare. Carri carichi si rovesciavano nei fossi, con i cavalli imbrigliati che nitrivano riempiendosi la bocca di terra. Occhi sgranati di bambini. Case abbandonate e soldati dispersi che vagavano in cerca di cibo e bottino. Sciacalli.
In un campo coperto di brina, un toro galoppava furioso trascinando tra le zolle bianche la catena spezzata che rimbalzava, scudisciando l’aria e sollevando frammenti di cristallo fangoso. Sui fiumi: ponti sventrati, ponti carichi di gente, ponti di barche, soldati sui ponti, obici che non volevano avanzare sui ponti, ponti di ferro e carogne di muli tra il vorticare dell’acqua sotto ai ponti.
Il plotone di mio padre, dunque, era tra quelli lasciati a proteggere la fragorosa ritirata, a fare da scudi umani. Avevano fatto saltare i ponti, alle loro spalle, per inchiodarli là, a sparare fino all’ultimo colpo e poi morire. Lui aveva piazzato i suoi uomini nella protezione di una dolina a forma di cono. Non avevano da mangiare. Da bere, il fango. All’alba salivano sul ciglio e sparavano, per tutta la giornata. Al tramonto si lasciavano scivolare giù e, nella notte, seppellivano i cadaveri. Lì, sotto i loro piedi. Non avevano bisogno di luce, c’erano fiamme dovunque. Erano circondati e si chiedevano quando un bel colpo di mortaio da 105 avrebbe centrato il loro buco. Esaurite le munizioni, mio padre aveva dato ordine ai suoi uomini di guastare le armi prima che finissero in mano ai nemici. Venne un’alba e videro, in alto, tra il fumo e i vapori tutt’intorno alla dolina, i soldati austriaci con i fucili e le mitragliatrici puntate. Erano circondati, poveri topi. Mio padre aveva dato ordine ai suoi di gettare le armi (rotte) e di arrendersi. Lui aveva in mano la sua pistola, rotta anche quella, e la teneva stretta. Un soldato dall’alto gli urlava in tedesco. Voleva, era chiaro, che gettasse quell’arma. Ma, racconta mio padre, la pistola, inutile pezzo di ferro, non ci pensava proprio a staccarsi dalla sua mano.
“La butti, signor tenente!” lo imploravano i suoi.
Il soldato austriaco, spazientito, aveva cominciato a scendere, urlando il suo ordine con voce sempre più rabbiosa e puntandogli il fucile alla testa.
“Ma…” mi ha raccontato mio padre in quella sua unica confidenza autobiografica, “… un ufficiale che getta la sua pistola è vile, vile non la situazione, perché ci eravamo difesi come bestie e altro non si poteva davvero fare, ma vile il gesto. Brutto.”
Era pronto a morire pur di non fare quel gesto “brutto”. Il dito dell’austriaco stava per premere il grilletto quando una voce, in alto, aveva gridato in tedesco qualche cosa. Il soldato si era bloccato. Era la voce dell’ufficiale nemico che aveva assistito alla scena, avvolto in un cappotto con il collo di pelo. Aveva la stessa età di mio padre. Sceso lungo la china appoggiandosi a un bastone con il pomo d’avorio, “Sprechen Sie Deutsch?” aveva chiesto a mio padre, raggiungendolo.
“Non parlo tedesco”.
Allora mio padre, per un’intuizione” mi ha confidato, aveva domandato al suo coetaneo austriaco: “Latine loqueris?”
Aveva sorriso, l’austriaco. Si erano seduti su due sassi e avevano cominciato a parlare in latino, freschi dei loro studi classici (erano licei tosti, a quel tempo, a Catania e anche a Linz), raccontandosi i progetti di vita dopo la guerra e confrontando i poeti preferiti. Non ho interrogato mio padre, poiché ascoltavo sbigottito, su quali poeti avessero discusso. Dopo la lunga chiacchierata, l’austriaco aveva fatto prigioniero mio padre con “l’onore delle armi” che voleva dire che non doveva fare quel gesto “brutto” di consegnare la sua pistola rotta. Qualche giorno dopo, si era ritrovato piombato in un treno diretto al lager di Celle, a poche decine di chilometri da Hannover. In quel luogo funebre, malgrado morissero a decine di fame e di gelo, gli ufficiali erano riusciti a organizzare la “Università Popolare di Cellelager”. Nel gennaio 1918, l’ufficiale Granata aveva tenuto una conferenza intitolata “Il romanzo di Fedor Dostoevskij: Delitto e castigo e la sua influenza sul diritto penale odierno”. Fine del racconto paterno. Niente altro.
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A parte questo singolare squarcio, mio padre aveva deliberatamente cancellato dai suoi discorsi la realtà delle due guerre che aveva vissuto, l’una in prima linea, l’altra fuggendo il fascismo. Limitandosi a quell’unico racconto della sua giovinezza sul fronte, voleva cancellare per me gli orrori e comunicarmi un senso di onore e di rispetto e di valore della cultura anche nei momenti più tragici. Non ho motivi per dubitare che il suo racconto fosse vero, mi è sempre sembrato uscito da antichi e desueti codici di cavalleria.
Provo a immaginare oggi una situazione simile, in cui due giovanissimi ufficiali freschi di studi, uno russo e l’altro ucraino che non conoscono le reciproche lingue (cosa difficile ma non impossibile) s’incontrano e trovano un parlare comune, radicato nelle comuni antiche identità. Userebbero forse lo Staroslavo, la lingua coniata dai missionari bizantini Cirillo e Metodio? Una lingua letteraria che ha prodotto le opere dei grandi scrittori bulgari del IX e X secolo. Assurdo persino immaginarlo. Grottesco, quando la bestialità ha il sopravvento su tutto e la cultura è ridotta a zero.
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Si parla di Diritto Umanitario Internazionale. Cosa dice? Essenzialmente che si impone alle forze combattenti di fare sempre distinzione tra popolazione e oggetti civili da una parte, e obiettivi militari dall’altra. Né la popolazione civile, né i singoli cittadini od obiettivi civili devono costituire il bersaglio di attacchi militari. Le forze che si scontrano devono inoltre trattare umanamente i prigionieri di guerra e chiunque è stato privato della libertà, proteggendoli da ogni tipo di violenza, in particolare dalla tortura.
Che dire, di fronte alle immagini che vediamo in questi giorni?
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Della guerra durante la quale sono nato, che mi insegnato le mie prime parole e mostrato l’Icaro impiccato, ho letto sui libri. Quando mia madre è mancata, ho trovato, tra le sue lettere, quella di un cugino coetaneo, con la terza elementare, operaio alla Pirelli, uno molto buono al quale, sapevo, da ragazza era molto affezionata. Era morto nel ’43, nell’anno in cui lei si era sposata. Aveva 25 anni. Ho preso con me quella lettera. Era stata scritta sulle rive del Don, in una notte, con una calligrafia disperata in cui lingua e dialetto si erano persi, confondendosi.
Giannina cara.
Devo star sveglio chesta nott. Dumam matina un convoglio feriti parte per Belgorod con le ultime taniche de benzina della nostra divisione. Nualtri ce ne andrem e pé. Consegnerò sta lettera all’autista d’en camion. Se passa i giass, se passa el foeugh de la 6a Armada Russa, se non vien desfat dai T 34, se la lettera arriva in Italia, se non sarà ciapada da la censura fascista, se… ricevi i mè saluti e auguri più amorosi per el to matrimonio. Ti te se no quanto mi voleva esser presente, el signor Mussolini me lo ha impedito. Sem de’ scimbiott in ona guerra putrida. Incoeu gavem camminà per ore, so no con qual forze. Avevan dii l’arrivo de sett camion con armi, viveri, uomini e muli. Ma non eran comparsi e le communicaziun via radio se eran interrotte. Allora li gavem cercà e li gavem truvà. Eran rimasti senza carburante nel mez d’ona bufera in de la notte. Erano tocc mort. Suldaa de giass. Muli de giass. Gavem steso i omen d’in su la neve, in le posizioni che se truvavan. Eran invidaa su de lor, cuma de feti. Impussibil piegaa i genoeugg. Impussibil de soterrà. La terra gelaa nun s’ceppa. Impussibil scaricaa i muli morti. Par al dulur teribil del frecc le bestie avevan spacaa a calci i pianali de legn del camion. I gamb, imprigiunaa in del legn rumpé, s’eran scavezaa e el gelo le avea poi fuse con el pianal. Perdunam se parlo de sti robb terribil, dovria no, con te.
Te se ricordet de quand sum andaa en sul Resegun, in supra Lecch? Ghavevum na fam de murì. E la coega del restorant a lassà borlà en del risott un pez de saon. El risot filava, varda quanto fila, quanto parmesan, te disevet. E poi tucc giò a vomitar. Vomitavem et giò a rid a scarpagoss.
Ti te ghaverà di fioeu, spiagaghe de guzzà l’oeugg a chi li comanderà. I italian san no scegliar. Mi gho minga studiaa, ti t’el sé, ma in sta guerra sun diventaa molto ma molto istruì del me destin infamissimo. Ho imparaa che l’è minga impurtant de campà ma de campà ben. Questo che vivo l’è campà de merda. Però, te prumett, cugina amica mia bela e inteligente, che mi creparà ben. Nel senso che quand mi creparà pensarà a cose buone, a un mondo bell per i to fioeu ad esempi. Adio.
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Ecco, signor Putin, il giovane operaio cugino di mia madre è morto sul Don. Congelato nell’inverno e decomposto nel fango della primavera. Senza tomba. Morto sapendo di essere un pezzo di carne in una guerra che lui non aveva scelto.
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Il signor Putin. Mi è rimasta impressa la sua immagine quando ha parlato allo stadio Luzhniki di Mosca. Con il microfono in mano, camminando nervoso avanti e indietro, goffo per l’imbottitura del giubbotto antiproiettile nascosto dal parka di Loro Piana, l’uomo cita il Vangelo di Giovanni. Davvero sconcertante. Non è uno Zar, come tutti scrivono e dicono perché suona bene, suona colto; a che Zar si riferiscono? A Boris Godunov? No. Non certo a Pietro I il Grande con cui il signor Putin non ha nulla da spartire (basta leggere la straordinaria descrizione che ne fa Saint-Simon nelle sue Mémoires). Il signor Putin non ha nulla da spartire nemmeno con il nipote di Pietro (così meravigliosamente descritto nel film di Von Sternberg The Scarlett Empress e così cretinamente – ma con stile – raccontato da Tony McNamara, nella recentissima Serie televisiva The Great). E nemmeno lo si può accostare, il signor Putin, allo zar giustiziato con la sua famiglia nel 1917, Nicola II, detto “il sanguinario” e anche “il boia coronato” e anche “il vile” e anche “San Nicola II imperatore, martire e grande portatore della Passione”. Ho recentemente saputo che Nicola II era il secondo capo di Stato più ricco della storia. La sua fortuna è stata calcolata in circa 250 miliardi di dollari di oggi, superata soltanto, ho letto, dall’imperatore del Mali Musa I, che nel XIV secolo aveva una ricchezza doppia. No, penso sia sbagliato chiamare Zar il signor Putin.
Non mi sembra però, Il signor Putin, neanche un Presidente, come stava scritto negli striscioni allo stadio Luzhniki. Lo è tecnicamente ma non nella sostanza. Nella sostanza ritengo che lui sia un Padrone e rappresenti, nel XXI secolo, “L’état, c’est moi”, nel senso più preciso dell’espressione: possesso del pensiero, della voce e delle ricchezze del suo grande paese. E anche di quelle anime che sono morte e non lo sanno.
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Diversamente da gran parte dei miei connazionali, io non sono un esperto in Politica Internazionale e quindi mi astengo dal proporre spiegazioni del come e del perché si è arrivati all’invasione dell’Ucraina con quello che ne è seguito e sta seguendo. Men che meno provo a tentare interpretazioni spericolate di questa guerra trasversale tra Stati Uniti e Russia con la Cina al lato del tavolo di ping pong e l’Europa traballante, unita solo in apparenza e dannatamente spaventata. Tutto questo al prezzo della carne degli ucraini e dei giovani soldati russi, spediti a uccidere e morire. Mi limito a guardare, come sempre ho fatto (ma con in più, ora, l’amarezza dei miei anni), i frutti della Storia. Quelli dolci e quelli avvelenati.
A proposito di Russia, oggi sinonimo di male, vorrei proprio in questo momento ricordare i frutti dolci, dolcissimi. Fin da ragazzo ho viaggiato per le strade di quell’immenso paese. Ho camminato a San Pietroburgo, a Velikij Novgorod, a Mosca e in numerosissime altre città ancora; ho attraversato le steppe, oltrepassato fiumi, sono salito su carrozze e treni, e sono stato in Siberia. Gli scrittori russi mi ci hanno portato. Alla loro ombra, io posso dichiararmi russo. Senza la letteratura e la poesia russe mi sentirei cieco di un occhio e sordo di un orecchio. Uno dei miei più amari rimpianti professionali è di non essere riuscito a fare un film che avevo scritto, ispirato al libro di Serena Vitale Il bottone di Puskin. Consiglio di leggerlo a chi ancora non lo conosce, troverà uno squarcio illuminante sull’anima russa e su quella del suo più grande poeta.
Sarei sordo non di un orecchio, ma di tutti e due, e la vita mi sarebbe davvero assai penosa senza la musica russa. Al suono di quella musica, io non posso non dichiararmi russo, mi ha nutrito e continua a nutrirmi.
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A proposito di musica, non passa giorno che non si senta parlare di Wagner. Ho cercato notizie, non sul compositore di Lipsia (tanto sublime musicalmente quanto umanamente squallido) ma sul CHVK Vagner (“Compagnia Militare Privata Wagner”). Questa agenzia di appalto militare privata è alle dipendenze del signor Putin e sta operando in Ucraina insieme all’esercito russo. Ha già fatto il suo bene in Siria, in Libia, nella Repubblica Centroafricana e ora anche in Mali. Degno di una parte di primo piano nelle sequenze più estreme (e oltre) di Gomorra è il suo ideatore, il signor Evgenij Prigozin. Intimissimo del signor Putin, il finanziere plutocrate Prigozin era stato a suo tempo condannato per rapina, frode e coinvolgimento di adolescenti nella prostituzione. Diversi giornalisti russi che indagavano sulle sue attività in Africa sono stati assassinati. Sul campo, il comandante di Wagner è il signor Dimitriy Utkin, ex capo della sicurezza privata di Prigozin. Lo sciagurato Utkin non ha certo il profilo e l’elmo del capitano di ventura disegnato da Leonardo da Vinci. Non per questo i mercenari che hanno spazzato in lungo e in largo l’Italia per secoli non erano meno pestilenziali del signor Utkin, tanto da far dichiarare a Petrarca che queste Compagnie erano “…una pestilenza più orrenda della stessa peste, una sciagura più grave del terremoto.” E non poteva immaginare, Petrarca, la terrificante tempesta che, 150 anni dopo, le coloratissime Compagnie germaniche dei lanzichenecchi (in 14.000) insieme a Compagnie di spagnoli (in 6.000), insieme alle Compagnie di altri tre Condottieri italiani, avrebbero scatenato per otto giorni e otto notti su Roma, facendo strage di tutto, cose e gente, donne e bambini inclusi.
Erano italiani, dai bei nomi roboanti, gran parte dei capitani delle Compagnie di massacratori, antenati della Wagner. Si chiamavano “condottieri” dal termine “condotta”, il contratto stipulato con chi li pagava per andare a distruggere. Molto tempo è passato ma…
… “Caratteristica dell’operato della onnipresente Compagnia Wagner sono le esecuzioni e le torture”. Ma perché Wagner? Pare che sia perché si tratta del compositore più amato da Hitler (e anche, aggiungo, dai comandanti americani che con i loro elicotteri, in Apocalypse Now, andavano a gasare i vietnamiti). Alcuni anni fa, nel giorno delle celebrazioni del Giorno dei Padri della Patria, il signor Putin ha conferito a Dimitriy Utkin quattro decorazioni dell’Ordine del Coraggio (“Per la dedizione e coraggio mostrati durante il salvataggio delle persone.”)
Forse qualcuno lo ha già sottolineato ma, se è così, mi è sfuggito. Parlo del paradossale ossimoro (e della sinistra mancanza di ironia) nell’inviare dei nazisti a de-nazificare un luogo.
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Il 20 ottobre 2001 è entrata il vigore la Risoluzione 44/34 dell’assemblea Onu che (in 21 articoli) proibisce agli Stati e condanna il “… reclutamento, uso, finanziamento e addestramento” di mercenari.
Nel 2020 è stato calcolato dall’Istituto Analisi Relazioni Internazionali che i guadagni dei contractors, le cosiddette PMC (“Private Military Company” – in inglese, perché gli Americani sono stati i precursori del boom della privatizzazione delle forze militari) ammontano a 400 miliardi di dollari all’anno. Con buona pace della Risoluzione dell’ONU. D’altra parte, nel 2014 ci sono state tre Risoluzioni ONU per porre fine al conflitto in Siria (ecco, ritroviamo la Wagner). Un totale fallimento: “Le parti in conflitto hanno agito impunemente e hanno ignorato le richieste del Consiglio di Sicurezza, i civili non sono stati protetti… In tutta la Siria i bambini non possono più studiare perché le scuole sono distrutte o perché né pericoloso raggiungerle. I genitori hanno il terrore che proprio le scuole siano bersagli di attacchi… milioni di siriani restano senza aiuti… una Risoluzione ONU che non trova applicazione non serve a niente a una madre che non sa più cosa dare da mangiare ai suoi figli…”
Se non bastasse, ho toccato personalmente con mano un altro fallimento delle Risoluzioni dell’ONU (la 819, nello specifico), quando ho studiato sul campo e poi girato un film sulle stragi in Bosnia.
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Il mio povero Icaro, che voleva lanciarsi verso la libertà, verso un mondo nuovo, una speranza, una nuova luce, è stato ripescato dall’oceano in cui era precipitato e si nascondeva. È stato appeso a una quercia spoglia. Impiccato. Perché non osi provare di nuovo a volare.