Al cinema Sacher di Roma
Nuovo cinema Francia
“Gagarine” di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh e “Les amours d’Anaïs” di Charline Bourgeois-Tacquet: due opere prime che esprimono una tendenza importante della cinematografia francese sempre sospeso tra esistenzialismo e documentarismo
Si è appena conclusa al Cinema Sacher di Roma la rassegna 11 giorni originali. Come prometteva il titolo, il programma prevedeva undici giorni di proiezioni in lingua originale, sparsi fra il 10 marzo e il 6 aprile. Tra l’ampia selezione prevedibile e gradita (per citare alcuni titoli: Il discorso perfetto, Spencer, Belfast, La persona peggiore del mondo, l’imperdibile After Love di Aleem Khan, il brillantissimo Licorice Pizza e il nuovo di Audiard) spiccano anche due anteprime: Gagarine e Les amours d’Anaïs. Due film che hanno un elemento in comune: la Francia e la sua cultura. Uno ne abbraccia la vocazione all’impegno sociale, l’altro la leggerezza di certaNouvelle Vague che non ha mai abbandonato il cinema francese.
Gagarine è il primo lungometraggio diretto da Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, scritto insieme a Benjamin Charbit, selezionato a Cannes 2020. Deriva da un cortometraggio firmato dal duo nel 2016 ma soprattutto è ispirato a una vicenda vera, romanzata attraverso gli occhi di un ragazzo di sedici anni. Lo sfondo narrativo è quello del comprensorio di Gagarine, la cité Gagarine, che sorge alle porte di Parigi e prende il nome dal celebre cosmonauta sovietico: egli stesso ha inaugurato la cité nel 1963. Nel 2019 il comprensorio viene demolito e l’operazione richiede oltre sedici mesi.
Su questa travagliata vicenda reale si innesta quella di Youri (Alseni Bathily), che con Jurij Gagarin condivide il nome e anche il sogno: andare nello spazio. La sua missione qui sulla terra, però, è salvare Gagarine dalla demolizione. Nonostante il suo impegno, non ci riesce. Tutti lasciano Gagarine, anche Diana (Lyna Khoudri) la ragazza che gli piace. Rimasto solo, abbandonato anche dalla madre, per sopravvivere costruisce una propria casa abusiva fra le mura della cité fatta proprio come un’astronave. Arriva, però, al limite della sopravvivenza e rischia quasi di esplodere insieme al suo amato comprensorio.
Le premesse sono ottime, l’arena offre delle succulente possibilità narrative, ma la storia che ne deriva è debole. È un film che gode di una fotografia mozzafiato che rende Gagarine la vera protagonista: sembra a tratti un documentario di architettura. Il film, però, risulta così avere un’identità confusa, come se i loro creatori non scegliessero mai davvero tra la finzione e il documentario. In alcuni casi questo fluido passaggio fra i formati può essere positivo. In questo, però, non lo è affatto. Il protagonista è chiaramente il luogo, ma viene costantemente messo in secondo piano dalla storia del ragazzo e dei suoi amici, che interessa e emoziona poco. I personaggi sono deboli, mancano ganci narrativi forti e credibili, le suggestioni che l’ambiente regala sono sfruttate pochissimo. Tutto rimane in superficie e il finale diventa inevitabilmente smielatamente democristiano.
In conclusione, un grande sì per la fotografia monumentale di Victor Seguin. Un grande no, invece, per la sceneggiatura. Poca periferia e troppa letteratura in questo film.
Les amours d’Anaïs, invece, è il primo lungometraggio della regista Charline Bourgeois-Tacquet, direttamente dalla 60° Semaine de la critique di Cannes. Il film è un intreccio alla Allen calato in un’atmosfera e nel corpo di una protagonista alla Rohmer. Un personaggio femminile, quello di Anaïs (Anaïs Demoustier), che, a trent’anni, scansa le seccature della vita con la stessa leggerezza con cui corre per Parigi con vestitini cortissimi e leggeri, da bimba, anche in inverno. Vive senza pensare troppo Anaïs, scansa il suo ex ragazzo, mette fine a una gravidanza, non si preoccupa di finire la sua tesi, non si presenta al lavoro che il professore le ha procurato all’università. Vive sempre con un paio d’ali addosso. Anche quando incontra un editore che ha il doppio dei suoi anni e che scarica con facilità. Non riesce, però, a staccarsi dalla compagna di lui, Emilie (Valeria Bruni Tedeschi), una scrittrice di successo, che trova il modo prima di avvicinare e poi di intrappolare in una relazione. La donna, più che una vera amante, rappresenta tutto ciò che Anaïs vorrebbe essere. È l’ambizione di diventare “una persona interessante”, che la giovane proietta sulla scrittrice, a rendere Anaïs così attratta non solo dalla mente di Emilie ma anche dal suo corpo.
C’è molta “francesità” in questo film fatto di tante parole. I dialoghi raggiungono sempre un certo limite esistenzialista, a tratti poco cinematografico, senza però oltrepassarlo mai. Charline Bourgeois-Tacquet supera decisamente la prova di scrittura. Una sola domanda per lei: per alzare la posta in gioco, è proprio necessario inserire l’espediente del tumore della madre (un grande classico dei racconti contemporanei) se questo poi non incide profondamente nell’arco di Anaïs? È pur vero che la protagonista risulta a tratti fastidiosa, troppo fedele a sé stessa, un rovo di emozioni che non conoscono sacrificio o razionalità. Per questo Emilie, nel loro dialogo finale, le dà dei preziosi consigli: fai qualcosa, scrivi se vuoi scrivere, non lasciare che l’amore prenda così tanto spazio nella tua vita. Per un momento negli occhi di Anaïs leggiamo una comprensione dolorosa di se stessa e della propria vita. Ma solo per un attimo, perché sul finale la ragazza torna pienamente se stessa: agisce d’istinto, con tutta quella sua leggerezza che stona con la vita adulta.
In questa trentenne che ci infastidisce, però, osserviamo in fondo quello che vorremmo essere e seguendo la sua storia ci chiediamo se si possa davvero vivere così. Questo film pone delle domande senza dare risposte e ci parla, davvero. Per questo è un film riuscito. Le prove attoriali di Anaïs Demoustier e Valeria Bruni Tedeschi sono eccezionali, per non parlare delle musiche originali di Nicola Piovani.
Il film non racconta davvero una storia, che pure è ben costruita, ma svela un mondo, il mondo di Anaïs. Ed è un mondo che ci fa paura, ma che inevitabilmente ci attrae.