“Luci da un mare notturno”
Custodire nel cuore
Un libro, la nuova raccolta poetica di Giovanni Piccioni, «delicato e graffiante, dolce e angosciante, accogliente e “serrato” in un guscio amaro, ma anche teso a un possibile slancio. Un corpo a corpo con l’esistenza, confortato da squarci di luce…»
Della nuova raccolta di poesie di Giovanni Piccioni è bene innanzitutto dire del bellissimo titolo, Luci da un mare notturno (Effigie editore, 119 pagine, 15 euro), fulminante e rabbrividente allo stesso tempo, che ci ricorda le aperture luminose e inquietanti di Luzi e le ossimoriche interrogazioni di Bigongiari, ciò che caratterizza anche la poesia dell’autore che oscilla tra aperture e arsure, pianure e botri, bagliori e oscurità. Ma in definitiva il libro parla di una vita, di una sensibilità, di un amore familiare, di «una solitudine / agli altri ignota», cioè la necessaria descrizione del viaggio esistenziale compiuto o in atto. E pare che non manchi nulla, seppure qualcosa sia volutamente ingarbugliato, a cominciare da quel “convocare” le voci poetiche che hanno sostenuto il suo dettato poetico, come già fece Eliot in La Terra Desolata, che nel suo collage, riportava versi altrui, da Dante a Shakespeare a Sant’Agostino a Ovidio, etc. “Ripetendo” quel nobile itinerario, Piccioni intende dare conto dell’importanza della tradizione, come afferma, evidenziando, al contempo, le sue adorate “sentinelle” culturali. Riferimenti poetici che tuttavia divengono una sorta di “convocazione” dialogante, un arricchimento. Ma tutto, infine, è solo farina del sacco prezioso della poetica di Giovanni Piccioni, che ha costruito un libro delicato e graffiante, dolce e angosciante, accogliente e “serrato” in un guscio amaro, seppure in qualche modo forse anche teso a un possibile slancio. Un corpo a corpo con l’esistenza, talvolta confortato dagli squarci di luce del mare, sicuro quello del Forte, e talvolta avvilito da un buio notturno che sperpera il passo.
E in questo viaggio c’è quel tentativo quasi incantato e a volte severo di trattenere emozioni, sguardi, speranze, parole, panorami, sorrisi. Dice bene, nella preziosa e sapiente nota post testo, Alberto Fraccacreta che «l‘“arcano poetico” salva il passato del suo perdersi irrimediabile. I versi di Piccioni sono esempi dell’Andenken hölderliniano, forme della ‘rammemorazione’, anche secondo un’accezione evangelica: il custodire nel cuore». Sì, è perfetto dire: custodire nel cuore, perché il poeta non sciala il suo sguardo su un piano di minute vaghe partecipazioni emotive, slanciandosi invece nel tremendo vortice delle congiunture vissute, senza mai arrestarsi a una fermata precedente, ma insistendo verso il profondo più profondo del suo sentire, ponendosi in una “nudità” errabonda e martoriata, alla Simone Weil. Però Piccioni è anche attento a non cadere nel gorgo delle mestizie, in quanto è guidato da un pudore che pare via via sostenere il verso, che è il pudore dell’intimità (e a proposito di pudore, si leggano questi bellissimi versi: «Vorrei amarti con pudore, sommessamente/ in questo ultimo riflesso di luce/ che colora il flutto,/ prima che il mare si faccia scuro,/ solcato dalla luce radente del faro»), il pudore di non invadere il sentimento altrui, il pudore di non fare della propria dimensione personale una dolorosa forzatura universale. Piccioni scrive un libro vero, da vero poeta nell’accezione montaliana, consegnandoci versi struggenti e duri, come solo l’urgenza che preme può concedere.
Il volume è articolato in tre sezioni: Luoghi, presenze; Sillabe da un’esistenza;Variazioni su uno stesso tema, si susseguono sprazzi di paesaggi, confessioni perentorie, amori e sentimenti, e il dolore legato alla grave perdita del padre, il grande critico Leone. Dei luoghi, non si pensi a un itinerario paesaggistico legato alla geografia o alla natura, ma, come recita il titolo, una galleria di presenze inserite in terre vicine o relativamente lontane (Manhattan), peraltro poche volte menzionate, perché si può pensare che ciò che interessi al poeta, non siano tanto i paesaggi veduti, ma le vicende che lì si sono incrociate, i passaggi umani sgranati nel tempo. Tuttavia, alcuni scenari descritti ci paiono luoghi conosciuti e ammirati, forse le colline attorno a Pienza, penso io, dove, luzianamente: «Non c’è guerra in questa campagna,/ nelle linee rette dei cipressi, / dei vigneti, degli ulivi/ e nelle crete a vista d’occhio cangianti»; o ciò che lo sguardo regala da Forte dei Marmi: «In mare, a largo,/ bordeggiavano bianche vele,/ e, in cerca dell’azzurro del cielo,/ si slanciavano nitide le Apuane.// A nord ovest il Tino e la Palmara ligure/ quasi un miraggio in quella luce». Il riferirsi ai luoghi fisici è quasi tutto qui (però che perizia nel descriverli!), rimane il volto delle persone e gli attimi della vita osservata con dolente partecipazione, come si capisce bene in questi tremolanti versi dove mirabilmente si incrociano tratti di intimi sentimenti e una flora accennata con delicato stupore: «Una volta conosciuto il lato oscuro delle cose/ svanirebbe il tuo sorriso/ se nei campi non ci fossero/ i cespi di fiori/ e tutte queste gialle ginestre».
La sezione Sillabe da una esistenza, ha le sue componenti invocanti e solitarie, come strappati tratti pittorici, o forse respiri brevi e sincopati, o passi misurati da interroganti domande. Cose anche semplici, come l’interruzione di un sogno, dai connotati sospesi («Ora che il nostro amore è finito,/ ora che so che più non ci rivedremo,/ i pensieri che nascono mi straziano»), o la pena del tempo che incombe («dopo la perduta prima età/ l’uomo errando convive/ con lunghe notti/ di fredde stagioni»), o la impervia solitudine («Ora che inaspettatamente/ tutto intorno a me si sfalda,/ cerco scampo e rifugio/ in una solitudine/ agli altri ignota»), o la destinale ora che ci vive dentro («la mia vita so quale è stata,/ so l’ineluttabilità della sciagura:/ lo dico in questo modo scarno/ e non so perché questo mi basta»). Ma sia quel che sia la sillaba di una esistenza, emerge comunque la volontà di interrogarsi, di capire, di misurarsi con i propri sogni, con i propri insuccessi, con i propri molteplici dubbi. Dicevamo di una poesia che pare sempre vera, ecco, l’architrave che rivela il fondamento del tutto, vive in questo inoltrarsi nel magma dell’esistenza, nello sguardo calato nel profondo di una vertigine, nel guardare le semplici cose che ci attorniano. Ma sospirando comunque una residua agognata speranza: «Nella città inquieta,/ nel caos della folla/ possono questi pochi versi/ annunciare l’arrivo/ di un’interiore primavera?».
E poi il padre. Le istanze di vita si sfiancano facilmente quando viene meno un affetto decisivo, sappiamo che il laccio affettivo che ci congiunge al padre è una nostra identità che non possiamo distrarre; e lo invochiamo più e più volte quando questo contatto cessa, l’orfanità è un destino cruciale che mutila, e chi più e meglio può dirlo chi di quella sostanza molto viveva? Nella sezione finale del libro, Piccioni (nella foto sopra) si confronta con questa dolorosa assenza. Quella del padre, cioè Leone il grande critico e figura centrale della cultura del Novecento. Ora, voglio dire che sono particolarmente sensibile a questi ultimi versi, poiché mi era, mi è, cara la figura di Leone Piccioni, che Giovanni tratteggia con delicato amore e con sospirata dolcezza, dicendo il tanto che con lui ha perduto ma anche il tanto che di lui è umanamente rimasto, al di là ovviamente dell’aspetto pubblico ampiamente noto. Allora con una lacrima leggera e una silenziosa preghiera, ci dice che: «Non c’è lamento nelle mie parole:/ scrivo del tuo sorriso,/ di quando non pativi,/ ora che ti ho perduto/ mio padre che eri». Ma che sicuramente ancora è nel sentimento incrollabile di tante emozioni. Compresa la fedeltà alla parola, che diviene poesia così avvertita e vissuta in Giovanni, da farne l’alfabeto del suo procedere, e i versi sciolti in quel ricordo paterno paiono un tratto del proprio odierno tempo. Ricordo di colui che nella poesia dei grandi si specchiò e la promosse, pur non scrivendone, vivendola come solo atto di passione e di approfondimento critico. Visioni e parole che sono ora del figlio, di Giovanni Piccioni, nella certezza tuttavia che «Fosti tu il mio seme/ in un lungo tratto di tempo».