Emilia Santoro
Il senso di una crisi

La guerra a scuola

La guerra in Ucraina raccontata da una scrittrice attraverso le paure, le incomprensioni e la rabbia dei bambini: pensieri "spaiati" su quel che sta succedendo a noi e al nostro immaginario

La voce di Elisa si allunga nel grido di Zombie dall’Italia a Mosca, al resto del mondo. Si riflette negli occhi slargati dei bambini per poi infrangersi nel tremito di un cagnolino e infine esplode tra i corpi dilaniati che tingono la neve di rosso. La neve all’ombra delle bandiere. La neve sciolta, bevuta, mangiata. La neve candida ma pure infangata dai cingolati. La neve che trovi nella tasca del poeta. La neve che ci copre infinitamente ma non allenta il dolore. La neve che conserva le frasi dei bambini e delle bambine.

– Mamma, la guerra è un film. – Biagio ha sette anni e non chiede cos’è la guerra, non vuole parlarne e cambia argomento perché ha capito che fa male, così come vedere i migranti che muoiono nel mare dove nuota d’estate, come i bambini che d’improvviso gli appaiono in pubblicità, malati e con tanti aghi e tubicini infilati nei corpi denutriti ma con gli occhi grandissimi a chiederci aiuto. Ma è difficile mantenere l’attenzione, per cui le immagini diventano sempre più crude. Intanto, mangiamo davanti alla guerra, sotto gli sguardi delle bambine e dei bambini africani, davanti a tutti quelli che non sopravviveranno sul nostro pianeta per la mancanza di un semplice farmaco.

Di notte dormo male, quando termina il frastuono. Sogno di camminare lungo una strada imbiancata, di fianco a una lunga fila di profughi da cui si stacca un bambino con la camminata da soldatino, col cappello calato sul viso. Dopo qualche passo sbilanciato verso il centro della strada, condivide con la videocamera un pianto di strazio per l’incomprensione di un mondo in cui era stato invitato ad esistere.

La guerra ha rubato la neve
Che infinitamente ci copre
Sopra il manto il fuoco nemico
Sotto il manto il bunker dei respiri
Sul ciglio della strada arrivi tu
Col passo da soldatino che ha capito
Non è un gioco
E piangi d’improvviso

– Maestra, la guerra è qualcosa che non si può descrivere con le parole, perché non riesco neppure ad avere un’immagine nella mente.

Angelica è una ragazzina di nove anni, ucraina che vive in Italia e ha parenti anche in Russia. Un volto che procede a occhi bassi e qualche volta scuote pure la testa perché sa che il suo cuore non è del tutto accolto, compreso. O meglio, sente di avere radici ma che non sono qui. Allora la sua voce scende sempre verso un volume bassissimo, e quando non riesco ad ascoltarla si pizzica con le dita la pelle della gola per far capire che la voce non le esce più di tanto.

Se l’Ucraina soccomberà, continuerò a spiegare ad Angelica che è nata libera e non schiava, che può sentirsi padrona del mondo intero e non una straniera, in qualsiasi posto scelga di vivere… Come qui, in questo luogo dove è accettata, apprezzata, inclusa e incoraggiata dai compagni e dalle insegnanti… Eppure, sento di non arrivare al cuore del problema, un nocciolo duro che percepisco nella sua alzata di sguardo che risponde con una evidenza reale.

– Non ti accorgi, maestra, – sembra dirmi Angelica – che per me stare a scuola significa vivere in un mondo che non è in continuità con il mio universo domestico? Qualcosa mi sospinge all’indietro, verso le mie origini, tra braccia protettive ed inclusive…

Ancora oggi si è liberi per privilegio, per un’appartenenza sancita per nascita. Ma ti assicuro, Angelica, che collegheremo i processi logici, le catene simboliche, gli intrecci di significato tra il familiare e il sociale, il privato e il pubblico, condivideremo il dentro e il fuori. Sarai chiamata a compiere una rielaborazione del tuo universo di significato per trovare nuove forme di appartenenza, per individuare nuove vie d’accesso al simbolico, per costruire ponti che intersechino il qui sociale con l’altrove familiare. E mentre le parlo raccontandole di intrecci d’universi, l’Everest da scalare appare davanti a noi. Ma lo scaleremo insieme.

A scuola, durante le nostre discussioni nell’Agorà sull’ennesima giornata di conflitto, diventa fin troppo facile passare dalla guerra vera al videogioco e mi accorgo che i bambini conoscono i nomi di armi da guerra e i danni che possono procurare, discutono di sistemi di combattimento incredibili, facendomi immaginare di essere con un enorme esercito di soldati semplici sul campo di battaglia e di trovarmi contro due KV-1. Mi spiegano che la loro eliminazione sembrerebbe non essere un gran problema, perché i carri possono essere “toccati” solo da altre unità avanzate, ed i soldati non lo sono.

– Quindi, maestra, in quel caso – mi spiega Orazio – puoi tranquillamente abbandonare i tuoi sogni di gloria e partecipare senza poter far nulla al massacro dei tuoi uomini – Sorridendo con amarezza mi spiega che si distruggono i plotoni ma anche i loro poveri nervi.

Li guardo e non muovo parola. Molti di loro hanno negli occhi uno scintillio: l’attrazione per la guerra. Vogliono fare da grandi l’astronauta o il poliziotto, suppongo non abbiano scoperto ancora la guerra come lavoro…

– No, maestra – sbotta Stefano – non si chiamano tutti mercenari, legionari, soldati stranieri ma anche contractors. Questi si possono ingaggiare quando si ha bisogno di specialisti per le operazioni di sicurezza e di difesa militare. Io da grande farò il contractor perché si guadagnano tanti soldi.

Sono la nostra mano invisibile nel mondo, costruiamo allevamenti di mercenari che combattono per noi, li reclutiamo nei luoghi della Terra più poveri. È politicamente conveniente per i governi che così conservano il consenso perché non vedremo rientrare i nostri soldati feriti o, peggio ancora, morti. Gli stranieri caduti non hanno alcun impatto sull’opinione pubblica.

Le bambine si sentono ancora un po’ distanti da questa realtà guerriera. Nella maggioranza dei casi, vengono ancora convogliate verso giochi di ruolo con le bambole per diventare madri protettive. Altre faranno da grandi le parrucchiere o le ballerine, sperimentando tutte le furbizie possibili per attrarre un uomo e subito dopo ritrovarsi senza illusioni, ma combatteranno per non soccombere.

Direbbe Eduardo De Filippo: – In guerra, le donne, i bambini, i vecchi e tutti i fragili non sono niente, sembrano quattr’ossa combinate male e non interessano, in verità, a nessuno.

Ai confini, dove immagini finisca la guerra, dove si sogna la pace, vedi fucili alleati puntati su persone di colore: prima i bianchi. E senti le grida denunciare l’ingiustizia di quel momento, sono urla così confuse, inutili rispetto al linguaggio chiaro ed essenziale di quei fucili puntati su di loro. Questo è essere profughi.

La guerra l’ho vista solo nei documentari e nei film che spesso anticipano quel che accade nella realtà. Uso l’empatia, chiudo gli occhi ed entro nel paesaggio bellico. I bambini costruiscono paure nel cuore e ci vomitano addosso il terrore, come quella bambina davanti alle macerie che con la mano copre gli occhi alla bambola che stringe fra le braccia, anche lei senza vestiti, sporca di rovine. I pensieri si concatenano e passo da un dolore all’altro. Divento la madre che in questi giorni piangendo cercava di spiegare che suo figlio non la sa fare la guerra ma sa solo studiare. Adesso sono l’elmetto di quel padre preso a pugni dal figlioletto dal pianto arrabbiato perché non vuole che vada via… Infine ho la mia via di fuga, un rivolo di sangue che sgorga da una gamba che non c’è più e scorre verso il biancore della neve ucraina che ghiaccia i pullman ma non ferma l’esodo dei profughi. In questo momento la temperatura è glaciale, l’unico calore a Kiev è il fuoco che brucia i magazzini di rifornimento di cibo.

Mi fermo perché i bambini e le bambine sono uscite dall’aula, da quella forma di indifferenza protettiva, e sono con me in quel paesaggio. Tengo per mano Angelica, ci aggiriamo tra palazzi rasi al suolo che hanno disperso gli oggetti della quotidianità e abbiamo ripreso le espressioni di chi sa immaginare, immedesimarsi, capire che potremmo trovarci in tutt’altro luogo sicuro, ma la guerra impedisce di dimenticare e di essere felici. Lasciamo così le nostre orme pacifiche sulla neve sporca. Siamo anche noi in guerra, ci difendiamo in modo non violento. Angelica ha alzato le mani e anche noi la seguiamo per fermare i mezzi che trasportano armi, alziamo sacchi di sabbia per costruire barricate e impedire il passaggio dei blindati. Angelica ha le lacrime agli occhi ma avanza con movimenti calmi e lucidi verso una fila di carrarmati, e non potremmo in nessun caso lasciarla sola. Si uniscono a noi padri e madri soldati, e ognuno di loro porta un bambino o una bambina aggrappati alle spalle, e riempiono le fila anche i piccoli delle nostre case, delle nostre scuole, a piedi nudi nella neve. Io con i miei bambini e bambine avanzo in riga tagliando la strada ma di colpo si ferma tutto. Un elicottero ci sorvola, da terra è partito un missile che lo fa esplodere nell’aria. In un attimo braccia, gambe, testa di uno o più uomini si saranno maciullati, allora ci dirigiamo lì a raccogliere i pezzi, a ricomporre quei corpi per mostrarli ancora un’ultima volta. Attraversiamo un campo di neve e non ci lasciamo confondere dalle sirene di Ulisse, che ripetono con la voce della guerra: non c’è tempo da perdere, quelli sono nemici russi; è giusto che i processi siano sommari e le verità siano secretate perché minaccerebbero i fragili equilibri che tengono insieme il mondo. Secretare, secretare sempre di più, tanto da continuare a coltivare illusioni, a placare i visionari, i passionari…

È allora che Angelica alza lo sguardo verso l’alto, si asciuga le lacrime e questa volta grida: – State dimenticando che le passioni sono anche la fonte delle nostre gioie! E diteci almeno: quanti morti dobbiamo contare?  

Le sorrido per questo primo ponte che aveva costruito perché non entreremo tra i narcotizzati, gli indifferenti, anche se lavoreranno per posizionarci sulla strada della rassegnazione dove si dice si viva più a lungo. Adesso i due corpi sono stati ricomposti sulla neve dalle mani gelide dei bambini. Erano russi.

Tra rassegnazione e guerra scelgo la resistenza non violenta. Tra il 1940 e il 1945 in Danimarca, gli abitanti di Copenaghen si risvegliarono con i soldati tedeschi nelle strade; il governo decise di non opporsi con le armi ma di subire l’occupazione, cercando di risparmiare al Paese danni maggiori. Si attivarono per contrastare lo sfruttamento e il dominio nazista sulla società con la disobbedienza civile, quella senza armi, sabotando obiettivi industriali, ferrovie… Ma se vuoi combattere nessuno te lo potrà impedire; se vuoi immolarti per la libertà ed eliminare la dittatura nessuno te lo potrà impedire…

Come si fa a ridare valore alla parola pace se concepiamo la guerra? Non basta contrapporre una bandiera arcobaleno per abolire tutte le bandiere del mondo. Proprio all’ombra delle bandiere si nasconde la guerra. Come si spiegheranno ai bambini le ragioni di tutti quei morti? Come faranno i sopravvissuti che hanno ucciso a riprendersi la vita insieme ai loro figli? Come si può zittire il boato delle bombe che ritorna nel sonno? Come si potrà resuscitare dalle macerie?

Non è possibile nessuna continuità con la guerra. Ma continuiamo a sperare in un nuovo inizio mentre le fabbriche continuano a costruire armi per il Medio Oriente, per l’Africa del Nord, per il Sudamerica, per l’Asia Sud-Orientale… E pure per noi stessi.

Intanto, amico Zombie, le risposte stanno volando nel vento, ma siamo ancora senza orecchie e ancora non sentiamo la gente piangere.

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