Marco Ferrari
Il senso di una crisi

Povera Odessa!

Considerata la "Napoli sul Mar Nero”, Odessa, vittima della spietata invasione russa di queste settimane, è quasi un pezzo di Italia. Una frontiera tra Est e Ovest, fondata da un napoletano e realizzata da alcuni grandi architetti nostri conterranei: una storia spezzata

Odessa, sotto il tiro dei carri armati e degli aerei russi, ha un forte legame con l’Italia per la sua nascita, per una canzone e una scalinata. Una città simbolica per l’Unione Sovietica e la storia del socialismo, secolare porto affacciato sul mar Nero, crocevia di incontro tra oriente e occidente e cuore multietnico dell’eurasia. A fondarla, nel 1794 fu un napoletano, Josè de Ribas, nome completo José Pascual Domingo de Ribas y Boyons, conosciuto in Italia come Don Giuseppe de Ribas y Boyonsin, (Napoli, 24 settembre 1749 – San Pietroburgo, 14 dicembre 1800), figlio di un diplomatico iberico, entrato nell’esercito napoletano a sedici anni, ammiraglio al servizio della Spagna, nel 1772 arrivò in Russia, con il grado di capitano. Nel 1783 entrò al servizio del nuovo favorito dell’imperatrice, il principe Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, promosso al grado di colonnello, partecipò alla conquista della penisola di Crimea, per poter costruire la nuova base della flotta del Mar Nero, a Sebastopoli.

Con lo scoppio della Guerra russo-turca (1787-1792) divenne l’ufficiale di collegamento tra il generale russo Potëmkin e l’ammiraglio statunitense John Paul Jones. Sul finire del 1789, i granatieri di De Ribas catturarono Khadjibey, il piccolo villaggio di baracche dove sorgerà la città di Odessa, senza combattere, uno scontro che durò solo una mezz’ora: infatti la guarnigione ottomana, alcune dozzine di soldati coi loro ufficiali, si arresero praticamente subito. Al termine della guerra, il napoletano propose a Caterina di trasformare il vecchio borgo ottomano di Khadjibey in uno dei principali porti russi, in un luogo che non correva il rischio di ghiacciarsi in inverno. La zarina accettò l’idea ed il 27 maggio 1794 emise un editto per la fondazione di un centro commerciale e di scambio marittimo di cui De Ribas divenne amministratore capo. Era l’inizio della futura città di Odessa.

Non a caso l’italiano rimase la lingua prediletta da molti mercanti e commercianti odessini e ancora oggi è studiata e praticata dai giovani. 

Odessa, con un milione di abitanti, quarta città più popolosa dell’Ucraina dopo Kiev, Charkiv e Dnipro, è dunque considerata “una piccola Italia” nell’impero prima zarista e poi sovietico. Oggi il russo è la lingua più parlata, segue l’ucraino, ma c’è anche una forte componente di greci, armeni, turchi georgiani, moldavi, bulgari, romeni, italiani. E pure le religioni sono diverse: musulmani, ortodossi, cattolici ed ebrei. Proprio qui nel 1941, a seguito dell’occupazione dell’esercito rumeno, alleato dei nazisti, 35mila civili, in maggioranza ebrei e rom, furono sterminati o deportati. Un genocidio a cui sopravvissero solo 703 ebrei. Episodi di contrasto tra le varie componenti etniche sono avvenuti nel tempo, ma tutto sommato la convivenza resiste. 

Il merito di De Ribas è stato quello di fornire un’impronta italiana anche all’architettura della città sul Mar Nero. Sognò il Vesuvio che aveva lasciato e decise che avrebbe convinto gli zar a fare di quel golfo una città, la Napoli del Mar Nero.

L’Opera di Odessa e la Chiesa della Trinità sono stati realizzati su progetto del napoletano Francesco Frapolli e al fondatore De Ribas sono dedicate due statue, una in via Deribasovskayao dello scultore ucraino Alexander Knyazik, inaugurata per il bicentenario dalla città, e un busto nella zona strategica del porto.

La scalinata Potëmkin subito prima dell’invasione russa

Il luogo più noto e fotografato è la mitica Scalinata Potëmkin, anche in questo caso con un pizzico di italianità, visto che è stata progettata nel 1815 dagli architetti Francesco Boffo (Orosei 1796- Odessa 1867) e Avraam Mel’nikov e quindi edificata tra il 1837 e ‘41. Lo stesso Boffo fu autore dei palazzi che contengono l’attuale Museo d’arte, la sede dei pompieri e l’albergo Londonskaja in stile neorinascimentale nella città sul Mar Nero dove finì i suoi giorni terreni. La scalinata, considerata la porta di accesso nella città dal mare, originariamente era chiamata Boulevard a gradini, Grande Scalinata, Gradinata Richelieu o Primorski, costruita con lastre di marmo grigio-verde importate dal porto di Trieste che, sottoposte ad una forte erosione, nel 1933 sono state sostituite con altre di granito rosa, provenienti da cave ucraine. Boffo utilizzò il modello della precedente scalinata Depaldo che disegnò a Taganrog nel 1823. Degli originari 200 gradini, otto andarono persi con l’ampliamento del porto, riducendo pertanto il numero agli attuali 192.

Nel 1906 venne edificata una funicolare sul fianco sinistro, sostituita nel 1970 da un ascensore che funzionò fino al 1990. Nel 2004 venne realizzata una nuova funicolare a scalinata, alta 27 metri e lunga 142. Gli scalini hanno una larghezza variabile dai 21,7 metri della base ai 12,5 della cima. Dall’alto, guardando verso il basso, si scorge soltanto i tratti orizzontali della costruzione, ma non i gradini; viceversa, chi guarda dal basso verso l’alto vede soltanto i gradini.

La scalinata è l’immagine cardine di un capolavoro del cinema muto, La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, del 1925, che raccontava la rivolta di Odessa durante la Rivoluzione russa del 1905. Qui venne ambientata la lunga scena dell’attacco alla folla inerme da parte dei cosacchi dello zar e la celebre sequenza della carrozzina, spinta da una madre appena fucilata, che scivola giù per la scalinata. In realtà tale scena non rispecchia gli avvenimenti realmente accaduti, dato che la strage di civili durante la rivolta si verificò non di giorno sulla scalinata, ma di notte nelle strette vie della città.

Ma Odessa è nel cuore degli italiani anche per un brano musicale famoso del 1898, firmato da Eduardo di Capua e Giovanni Capurro, ‘O Sole mio, uno dei più celebri inni all’italianità nel mondo. La musica venne ideata proprio qui da Di Capua unendo Napoli e Odessa, il Mar Nero e il Mar Mediterraneo, il golfo napoletano a quello della città ucraina. Di Capua si trovava nella città, distante 2.700 chilometri da Napoli, in pieno regno zarista. Quelle note e quelle parole erano un malinconico ricordo evocativo della terra natale lontana. Capurro, giornalista e redattore delle pagine culturali del quotidiano “Roma” di Napoli, nel 1898 scrisse i versi della canzone affidandone la composizione musicale a Eduardo Di Capua che si trovava a Odessa con suo padre, violinista d’orchestra. Capua studiò al conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, ma abbandonò gli studi per seguire la tournée per l’Europa il padre Giacobbe. Nei viaggi il giovane Eduardo iniziò a comporre musica. Di Capua ebbe per tutta la vita il vizio del gioco, che lo portò ad avere un’infelice situazione economica. Fu tuttavia grazie al gioco che conobbe il poeta Vincenzo Russo, col quale ebbe una collaborazione artistica. Insieme composero canzoni come A serenata d’ ‘e rose, I’ te vurria vasà, Torna Maggio, Chitarrata e Maria Mari’.

Nel caso di ‘O sole mio le note furono ispirate da una splendida alba sul mar Nero. Il brano è anche un omaggio alla nobildonna oleggese Anna Maria Vignati-Mazza detta “Nina”, sposa del senatore Giorgio Arcoleo e vincitrice a Napoli del primo concorso di bellezza della città partenopea. Il brano venne poi presentato a Napoli alla Festa di Piedigrotta a un concorso musicale organizzato da “La tavola rotonda: Giornale, letterario, illustrato, musicale della domenica” della Casa Editrice Ferdinando Bideri, ma senza ottenere grande successo e arrivando secondo, ottenendo un premio di 200 lire. ‘O sole mio si diffuse successivamente in tutto in modo, soprattutto tra gli emigranti campani, diventando un vero e proprio patrimonio della musica mondiale, proprio come simbolo della nostalgia. Purtroppo, Capurro e Di Capua non usufruirono di tale trionfo poiché morirono in povertà, rispettivamente nel 1920 e nel 1917. Un brano che ha richiamato grandi voci, da Enrico Caruso a Elvis Presley, da Tony Martin ai Tre Tenori quale testimonianza di ciò che significa la lontananza dalle proprie origini.   

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