“La candela di Caravaggio” di Nicola Fano
L’arte a colpi di teatro
Da Paolo Uccello a Burri, l’autore ci racconta la relazione che lega pittura e scena. Lo fa descrivendo nei dettagli 18 opere in cui si immerge in un appassionante «gioco alternato di sguardi e punti di vista» che alimentano i diversi “copioni” e il suo stile
Non cercate il nome di Caravaggio nell’intestazione dei diciassette capitoli che compongono questo prezioso libro (La candela di Caravaggio. Da Paolo Uccello a Burri: quando l’arte dà spettacolo di Nicola Fano, Elliot editore, 118 pagine, 17,50 euro), ognuno dedicato a un’opera o a un artista diverso, dal ciclo della villa dei misteri a Pompei alle plastiche bruciate di Burri. E neppure nell’appendice di immagini da museo che lo chiude. Non è una distrazione. Di Caravaggio qui si parla in continuazione. Impossibile non farlo. È uno spartiacque per la storia della pittura, che dopo di lui non sarà più la stessa, anche se bisognerà attendere il Novecento perché l’unicità del suo genio sia riscoperta. Ma anche l’anello di congiunzione con il parallelo evolversi della storia del teatro moderno. Un gigante che troneggia insieme a un colosso dell’altro campo, Shakespeare, all’incrocio di questi due binari della creatività, lungo i quali si snoda in un gioco di continui rimbalzi il racconto dell’autore. Ma allora perché non chiamarlo direttamente in scena quando è il suo momento a riscuotere l’applauso? Perché sostituirlo con un suo seguace, altrettanto bravo ma meno celebrato, come Carlo Saraceni, veneziano trapiantato a Roma, e regalare la copertina del libro alla sua Giuditta e Oloferne, e non a quella del maestro lombardo che 15 anni prima lo aveva preceduto nella reinvenzione di questo episodio biblico?
Perché il ricorso al sosia è un tipico colpo di teatro. Cedendo a questa tentazione Nicola Fano ci consegna immediatamente la chiave per distinguere questa sua rivisitazione letteraria dalle tante cui potrebbe in apparenza assomigliare, e precipitarci nel gioco alternato di sguardi e punti di vista che ne alimenta il copione. Un trucco cui ricorre per confessare la propria verità di intellettuale scrittore, a volte lui stesso regista, che nel teatro ha trovato insieme al piacere di vivere la sua professione di insegnante e saggista, il punto di partenza e di ritorno dei viaggi e degli sconfinamenti che ora condivide con noi, lettori in platea, l’altra metà che sa indispensabile per perfezionare il rito di specchi dello spettacolo dovunque esso avvenga. Già perché è nelle peregrinazioni per musei e gallerie, che accompagnano puntualmente da una quarantina di anni le sue trasferte da docente con allievi al seguito o da turista qualunque, che ha messo a punto il suo modo di osservare e raccontare i quadri che più lo hanno colpito, e che qui espone in una ridotta, trascinante, campionatura di esempi. Per rendere evidente la fitta rete di prestiti e furti d’ispirazione, analogie che legano i due universi delle arti visive e del teatro in un’appassionante rincorsa che ne ribalta le posizioni in prima fila in almeno due svolte cruciali.
La prima riassume in un unico flusso di rifondazione gli stimoli e le inedite bussole che alcuni artisti trasmettono al teatro nei secoli bui della suo quasi totale oblio. Occhio alle date. Il declino comincia nel 534 d.C. con l’editto di Giustiniano che sancisce la messa al bando delle professioni e dei luoghi dello spettacolo d’intrattenimento: troppo scomodo e pericoloso far circolare emozioni in un mondo spartito da due poteri assoluti in costruzione, la Chiesa e l’Impero. La sanzione ufficiale di rinascita arriva con un documento notarile del 1545 con il quale un gruppo di uomini e donne si costituisce in compagnia circolante di mestiere: la prima apparizione formale della Commedia dell’Arte che apre la strada al teatro moderno. Un intervallo di un millennio in cui il teatro sopravvive con una sorta di ritorno alle radici rituali e misteriche che fanno da incubatrice al parto della tragedia greca. I fedeli si trasformano in attori per raccontare in tutte le loro varianti le storie esemplari della Bibbia e dei Santi. Ma sono simulazioni da dilettanti.
Resta però e continua a scorrere sotto traccia un bisogno insopprimibile di tornare a sprigionare forme di narrazioni diverse più vicine alla sensibilità popolare e alla complessità del reale, che rimettano in gioco la necessità di presenza e liberazione dei corpi, di moltiplicazione delle maschere e dei ruoli in copione, di interventi adeguati sullo spazio e sul tempo per manovrare e indirizzare la macchina degli sguardi verso le fughe imprevedibili dell’immaginario. Un bisogno di teatro che il mondo dell’arte raccoglie e trasforma con grande anticipo in un raffica di intuizioni, scatti d’identificazione e soluzioni che spianano la strada del futuro della disciplina gemella. Un’iniezione di vitalità che raggiunge il suo culmine nel Rinascimento ma trascina la sua spinta d’innovazione adattandosi alle derive del Manierismo e del Barocco e delle altre correnti dei mutamenti di gusto e assetti sociali che tessono la fitta trama della Storia fin quasi ai giorni nostri.
E qui si snoda, con tre sole appendici riservate al Novecento e nessuna al terzo Millennio (speriamo sia solo la promessa di un nuovo libro) la tumultuosa cavalcata da un’agnizione all’altra con cui Nicola Fano ci travolge con la sua affabulazione incalzante, giusto le pause per cambiar abito di testimone e interprete, per alzarci davanti un nuovo fondale da interrogare, dischiuderci sentieri disseminati di indizi appena accennati da tener a mente perché ci torneranno utili dopo. Guai rifugiarsi nel distacco saccente da specialista che magari vede e sa altro, altro vuole aggiungere. Si perderebbe tutto il piacere di questo racconto, il ritmo delle emozioni verso cui con abile e smaliziata regia ci introduce facendo appello alle nostre emozioni di spettatori. E insieme a una serie di informazioni, scoperte, analogie da incamerare e ampliare, dettagli che avevamo trascurato o dimenticato. Anche la verità, l’utilità del suo approccio in prima persona e senza calcoli di convenienza al doppio mistero, all’incanto incrociato della rappresentazione teatrale e dell’arte.
Nicola Fano, in questo e in altri saggi che ha pubblicato, suggerisce un metodo di lettura e appropriazione delle opere d’arte che contraddice tutti gli schemi della critica più in voga, attenta quando spiega e descrive un quadro, una scultura, soprattutto a fissare il prezzo e le modalità di circolazione, garantendosi così anche la sua posizione nel sistema. Fano non estende ad altri del panorama contemporaneo questo rilievo. Ma sembra autorizzarci a farlo con le parole con cui torna ripetutamente a segnalarci l’arroganza da arbitro miope con un passato da mediocre calciatore con cui Giorgio Vasari, gran commissario della corte Medicea, fonte obbligata di consultazione, snobba, maltratta e sminuisce tanti grandi colleghi pittori, sicuramente più dotati di lui, che non riesce ad adattare alle sue preferenze, alle sue pignole simmetrie: la grande arte per lui è misurata solo dalla capacità di imitare la natura. Che gusto vederlo sbeffeggiare nella sua pochezza di giudice quando inciampa in maligne chiose d’incomprensione di fronte alle grandi prove di genio dei pittori e dei quadri che questo volume invece esalta e cita a modello. Che gusto toccare con mano la sua incapacità palese, il suo rifiuto di abitare con sguardo più attento le creazioni dei pittori che passa al setaccio.
Già perché la vivacità delle osservazioni con cui l’autore ci raggiunge e ci stimola nasce proprio dal fatto che invece la prima cosa che Fano ci comunica è che in ogni quadro di cui ci parla ci è entrato davvero dentro, come si fa in una casa sconosciuta in cui si è stati invitati, quasi mai a caso. E solo una volta dentro ha attivato il suo sguardo, le molle di una curiosità allenata dalle sue esperienze di uomo di teatro e dal sostegno di altre letture che si aggira stanza per stanza, interroga gli altri ospiti, annota i titoli dei volumi in libreria, la posizione e la comodità dei divani, apre il naso agli odori che vengono dalla cucina e dal bagno. Mi viene da immaginarlo proprio così, ospite tra gli ospiti della stessa cerimonia, mentre ci racconta la folgorazione delle Nozze di Cana del Veronese, là in fondo a chiudere quel salone del Louvre dedicato alla pittura italiana, in cui continua a tornare, snobbando la sovraffollata visione della Gioconda di Leonardo, seminascosta sul lato opposto. Un immenso telero che lo ha conquistato subito richiamando il paragone con un fondale teatrale e poi lo ha accolto con l’attenzione che si riserva a uno spettatore speciale, a un impresario che conta lasciandolo girare qua e là sul palco tra quella folla di comparse e primattori. E lui, Fano, che sta al gioco, annota come facesse la spunta da aiuto regista dei nomi e della parte di ognuno: la coppia festeggiata, il maestro di cerimonia che come un sommelier certifica la bontà del vino miracoloso, le figure defilate della Vergine e del Cristo, la truppa dei servitori. Nulla da dire sulla scenografia. Un perfetto impianto palladiano. Sì, tutto a posto e tutti recitano con entusiamo. Tra chi gli ripete orgoglioso le proprie battute ci devono essere anche monaci della Comunità di S. Giorgio, che nel loro refettorio quel telone, poi finito al museo, ce l’avevano proprio di fronte alla loro mensa e ci specchiavano a misurare la bontà o la miseria, capitava, dei loro menu quotidiani.
Credevamo di trovarlo subito il nostro amico Fano in un diverso capitolo dominato dalla descrizione di un altro capolavoro di un secolo prima, La battaglia di S. Romano, di Paolo Uccello. La stessa impresa di guerra sviluppata in tre sequenze successive, poi disperse in vari musei, per dare voce e corpo ai vincitori e agli sconfitti. Tre atti. Come si fa a teatro. Troppo ingombra di personaggi e figure, cavalli, cavalieri e fanti in lotta per la vita e la morte, truppe di riserva, contadini e altri spettatori dell’evento a far da coro sulle colline distanti. Troppe le lance che tagliano la scena, ne inquadrano l’orrore e la foga da prospettive sovrapposte col rischio di inciampare e turbarne il perfetto calcolo matematico e coreografico che le ricuce insieme, impresa mai tentata prima. No, anche Fano, il visitatore d’onore, non ha potuto fermarsi sul palcoscenico come avrebbe voluto. Con la fantasia lo abbiamo scovato in un ‘altra stanza dove la lettura ci ha trasportato, lo studio di Paolo Uccello. Era sdraiato a terra. Davanti al piano sul quale il maestro fiorentino stava sistemando e spostando i pupazzi dei guerrieri in battaglia per simulare le posizioni che dovevano occupare sulle due dimensioni della tela, un gioco da grande regista che precede di secoli la definizione di quel ruolo di primo direttore che la storia del teatro moderno avrebbe codificato.
Un terzo delirio di immedesimazione, Fano ci perdoni. Poi ci fermiamo. Per non guastare il gioco di partecipazione e di associazioni che ad altri lettori in platea, su questa scia, potrebbe venire in mente. È lo spettacolo della Deposizione di Pontormo (1524-1526) nella Chiesa di S. Felicita a Firenze. Un altro autore e un altro capolavoro che quel pettegolo di Vasari ha, per invidia, maltrattato e frainteso, nonostante in città fosse ormai conclamato molto trendy. Per la prima volta ho capito davvero la novità dirompente di quella pala d’altare, che non ero mai riuscito a cogliere, distratto da quella leggerezza diafana e nebbiosa di colori pastello, di quei corpi che galleggiano senza peso, come bastasse quel dispiegarsi di manti a sorreggerli e alla figura pallida del Cristo rimosso dalla Croce precipitare in una rovinosa caduta. È un trucco da teatro. Da teatro dei burattini per l’esattezza. Dietro ognuna di quelle vesti, quelle maniche sovrabbondanti, seguendo la narrazione, sono nascoste le mani di un burattinaio, che muove i personaggi, detta loro il copione da seguire.
Teatro, ancora teatro. Un capitolo dopo l’altro. In un gioco di sponda in cui per lungo tempo è la pittura a far da apripista e suggeritore. Può essere Caravaggio che con la candela ruba la magia della luce artificiale e la indirizza sui volti e sui gesti che ritaglia nel buio, spianando e complicando la strada degli attori che verranno e non potranno più limitarsi a dire ad alta voce battute, dovranno interpretarle con le espressioni della faccia e il dosaggio misurato dei loro corpi. Può essere il modo con cui Piero della Francesca fa irrompere nello spazio e nella forma assoluta anche la dimensione e le vibrazioni del pensiero e del sogno, aprendo squarci di parentesi visive che anticipano l’effetto e lo stupore di un sipario che si sta aprendo. Può essere l’azzardo visivo con cui Tintoretto trasforma il suo S. Marco che accorre a liberare uno schiavo in una sorta di supereroe che precipita a testa in giù, finzione che richiama subito alla mente il colpo di genio con cui Strehler nella messa in scena della Tempesta di Shakespeare appese a una corda invisibile il corpo minuto dell’attrice che interpretava quel folletto di Ariel. E così via, da un artificio all’altro.
Fino ad arrivare alla seconda svolta nei rapporti tra arti visive e spettacolo, descritta in questa raccolta di saggi, quella che si consuma in un ieri sempre più vicino e ribalta il ruolo di chi detta lo scambio. È il capitolo dedicato a Picasso e a una sua ossessione tematica: la figura di Arlecchino, rubata al mondo della commedia dell’arte. All’inizio un rigurgito dei suoi ricordi d’infanzia, poi la frequentazione del Circo Medrano, una scalcinata passerella di clown e giocolieri che aveva montato il suo tendone proprio sotto al Bateau Lavoir, la fatiscente Comune che il pittore spagnolo divideva a Montmartre con altri squattrinati compagni di sperimentazioni e di Belle Epoque.
Di Arlecchini Picasso ne ha dipinti e disegnati a centinaia, prima e dopo la sua svolta cubista. Imitato in questa compulsiva celebrazione da tutti i protagonisti di primafila del frastornante decennio delle avanguardie. Poi nel 1936 il pittore spagnolo se ne è allontanato per sempre. Un congedo che Nicola Fano identifica con un’opera precisa, il sipario per uno spettacolo sulla rivoluzione francese, in cui ritrae un Minotauro che dismette le vesti e la maschera di Arlecchino che aveva indossato. Il volto dell’eroe solitario adottato prima come specchio consolatorio di innocenza e risata creatrice, poi come prototipo dell’uomo novecentesco che non si rassegna a essere massa, sostituito infine da quello di un presunto mostro che il mito ci obbliga a uccidere per integrarci. Un groviglio di simboli da corteo funebre su cui svetta un altro simbolo ambiguo, quello di un angelo che doma un cavallo ma evoca anche lo spettro di un angelo sterminatore. La Guerra di Spagna è già iniziata. Un anno dopo Picasso nei sigillerà orrori e massacri nel dipinto Guernica.
L’ultimo siparietto è riservato a Burri, a quelle ferite che l’artista rientrato dalla prigionia con un distacco che lo allontana dalla sbornia d’ottimismo dell’Italia del boom, apre sui suoi grezzi sacchi di juta recuperati dalla discarica, su quei grovigli di plastica rossa su cui infierisce con la fiamma ossidrica. L’arte condensata in una piaga che getta sangue. Impone a sipario aperto il ricordo scomodo della guerra che tutti vorrebbero dimenticare.
Il senso della vita dov’è? Una sorta di larvato lieto fine irrompe però inatteso a consolare il lettore. E ancora una volta è il teatro a suggerire lo stato d’animo con cui Nicola Fano ci spinge a chiudere il libro. È la sua convincente rilettura di un testo che è ormai diventato l’emblema più classico della modernità. Aspettando Godot di Samuel Beckett. Molti lo hanno purtroppo avvolto d’angoscia, per quel personaggio annunciato che non arriva mai. Bollato come il mistero noioso di un messaggio cifrato da tragedia incompiuta. Una storia dove, dicono, non succede niente. E invece no, ci mette in guardia Fano chiamando a conforto lo stesso autore del copione, registrando il successo delle regie che virano verso la commedia. Succede che sul palcoscenico irrompono due clown sgangherati con il loro repertorio di gigionerie e di scenette ad effetto. Continuiamo ad aspettare Godot, ma almeno ridiamoci su. Come ha fatto anche Burri a fine carriera. Sfornando opere non meno riuscite nelle quali anche quella sua ferita inquietante si è rimarginata. Ha lasciato il posto ad altri colori, altre forme che non sanguinano più.
Giusto, sbagliato? Così è se vi pare, direbbe Pirandello.
(Nella foto vicino al titolo: Piero della Francesca, “Sogno di Costantino”, nelle “Storie della Vera Croce”, particolare)