Raoul Precht
Periscopio globale

L’universo assurdo di Fredric Brown

Incontro con uno dei grandi maestri nell’arte della contaminazione. Autore giallo, noir, fantastico e fantascientifico, lo scrittore americano ha precorso la narrativa di Stephen King, William Gibson o di altri “irregolari” come Giorgio Scerbanenco

Uno dei racconti più brevi e incisivi della storia della letteratura, scritto nel 1948, si riduce a due frasi: «The last man on Earth sat alone in a room. There was a knock at the door…» («L’ultimo uomo della Terra sedeva solo in una stanza. Qualcuno bussò alla porta…»). L’autore è Fredric Brown, scrittore di gialli e fantascienza di cui non solo in questi giorni ricorre il cinquantenario della morte, ma del quale l’editore senese Betti, con un’operazione quanto meno audace, ha appena pubblicato un altro famoso racconto, Sentry (Sentinella), ma tradotto stavolta in italiano e in altre venticinque lingue. Si potrebbe dire insomma che le stranezze e le peculiarità di Brown, di cui parleremo, si riflettano anche nella sua storia editoriale, ispirando curatori ed editori.

Come molti scrittori della sua generazione – era nato a Cincinnati nel 1906 – Brown si fa le ossa pubblicando racconti sulle riviste statunitensi, in particolare quelle dedite al poliziesco e alla fantascienza (i famosi pulp magazines), diventando, nell’arco di qualche decade, un vero e proprio specialista di entrambi i generi. Soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, non era del resto affatto raro negli Stati Uniti che uno scrittore si guadagnasse da vivere con la collaborazione costante a riviste di questo genere; ce lo dimostrano, per citare un solo esempio, anche le vicende umane e letterarie di Philip K. Dick, che alternava la pubblicazione di racconti (in genere di successo) a quella di (in genere sfortunati) romanzi. Rispetto ai suoi colleghi, tuttavia, la particolarità di Brown è anche quella di scrivere prose per lo più brevi, a volte folgoranti nella loro concisione, ma soprattutto dotate quasi sempre di un finale a effetto (e a sorpresa) che il lettore non vede arrivare e da cui è pienamente spiazzato. Non vi racconterò, per non togliere a nessuno il piacere della lettura, quello, peraltro famosissimo, di Sentry; lo fa (imperdonabilmente, se mi è consentito) Umberto Eco nella sua Storia della bruttezza, dove tuttavia si riscatta qualificandolo poi come uno dei più bei racconti della fantascienza contemporanea. Io da parte mia accennerò solo al fatto che il protagonista del racconto è una sentinella bagnata fradicia, solitaria e affamata che attende da un momento all’altro l’arrivo degli alieni e che, a differenza del lettore – il quale lo scoprirà solo con l’ultima frase –, sa perfettamente come essi siano fatti e quanto possano essere spaventosi.

Alla stregua di uno Stanislaw Lem, che ho ricordato sei mesi fa (https://www.succedeoggi.it/wordpress2021/09/il-futuro-secondo-lem/), anche Brown è affascinato e turbato dal progresso scientifico. In molti suoi racconti – si veda a mo’ d’esempio Answer – il coprotagonista è un supercomputer che può sostituirsi all’idea di Dio che l’essere umano si è fatto. In un altro, Solipsist, il personaggio principale, che non a caso di cognome fa Jehovah, ha la curiosa facoltà di cancellare persone e oggetti e finisce, per noia e rabbia, per cancellare l’intero universo. Rimastovi solo, incontra Dio che è ben lieto di andarsene finalmente in pensione, ne riceve il testimone e deve infine ricreare tutto il mondo da capo. Anche l’incontro con civiltà aliene compare in moltissimi racconti: in uno di questi, Earthmen Bearing Gifts, Brown immagina ad esempio che la civiltà terrestre e quella marziana si siano sviluppate in modo completamente diverso e complementare. Se gli uomini si sono concentrati sulla scienza e sulle tecnologie, ecco che invece i marziani hanno posto l’accento sulle scienze sociali, psicologiche e perfino parapsicologiche, e questo porterà a conseguenze impreviste per entrambe le civiltà. Sempre incentrato sulla colonizzazione di Marte è Keep Out, in cui un’intera generazione umana viene preparata a stabilirsi sul pianeta, ma anche qui con degli imprevisti e delle controindicazioni che, come al solito, non si concretizzeranno in tutta la loro crudeltà che nell’ultimo paragrafo.

Un’altra delle ossessioni di Brown è la macchina del tempo. In un bellissimo racconto, Hall of Mirrors, Brown immagina che il protagonista, il venticinquenne Norman Hastings, si risvegli improvvisamente, sbalzato dal patio di una villa con piscina a Beverly Hills in una stanza anonima, avendo davanti a sé solo una lettera, indirizzata proprio a lui. In teoria dovrebbe essere il 1954; quando comincia a leggerla, tuttavia, Norman si rende conto che a scriverla è stato lui stesso, ma cinquant’anni dopo, nel 2004, a settantacinque anni di età. La lettera gli racconta quella che sarà (o sarà stata) la sua vita e soprattutto il fatto che sarà (o sarà stato) proprio lui a inventare e fabbricare la macchina del tempo, decidendo infine di sperimentarla su se stesso. In realtà la macchina non consente un vero e proprio viaggio nel tempo, ma semmai di ritornare nel futuro all’età che si è avuta un tempo, esperimento cui Norman ha sottoposto appunto se stesso ritornando venticinquenne, ma nel 2004, lasciando al nuovo sé l’onore e l’onere di una difficile decisione: se cioè ripetere ad libitum l’esperienza, con il rischio però, qualora essa fosse estesa a tutti, di annullare la morte e di creare una sovrappopolazione ingovernabile. L’alternativa quasi inevitabile sarà allora quella di tenere l’invenzione ben nascosta, almeno fino a quando l’uomo non avrà conquistato altri spazi vitali nell’universo e non sarà pronto ad accoglierla. E ancora: nel brevissimo Experiment, un altro piccolo capolavoro, le aporie logiche degli esperimenti con la macchina del tempo (il famoso paradosso del nonno) fanno sì che l’oggetto inserito nella macchina e sottoposto alla prova resti al suo posto intonso, ma che in compenso scompaiano gli sperimentatori e il resto dell’universo. Per Brown, infatti, l’errore umano è sempre all’ordine del giorno, soprattutto al momento di maneggiare una tecnologia complessa, le cui implicazioni finali possono sfuggirci.

Un altro bel racconto, Hobbyist, ci appare, per la sua conformazione e per il modo di raggiungere il climax, come il punto d’incontro perfetto tra giallo e fantascienza. Qui un certo Sangstrom viene a sapere che un farmacista vende o addirittura regala un veleno mortale e decide di procurarselo per uccidere sua moglie. Il farmacista (dall’età incerta, Brown dice che dimostra tra i cinquanta e i cent’anni) lo invita a prendere un caffè e, mentre Sangstrom gli racconta la sua storia e le sue motivazioni, lo avvisa di aver messo il veleno, peraltro gratuitamente, nel caffè che gli ha appena servito, ma che per mille dollari può vendergli un antidoto. In modo però da cautelarsi qualora Sangstrom voglia ucciderlo dopo la somministrazione dell’antidoto, il farmacista gli fa firmare una confessione in piena regola. Se si vuole, è un po’ la vecchia storia dell’arroseur arrosé, ma sviluppata qui in modo del tutto imprevedibile ed elegante.

Ritornando alla microstoria in due frasi di cui abbiamo parlato proprio all’inizio, va ricordato che Brown, con un procedimento piuttosto originale, l’ha ripresa in altra sede, nel racconto Knock, sviluppandola in modo tale da dare una risposta alla domanda. L’unica persona che può bussare alla porta dell’ultimo uomo sulla Terra non può essere infatti che… l’ultima donna; ma Brown non si accontenta della facile boutade, decidendo invece di ampliare il discorso e di raccontare antecedenti e conseguenze della scena descritta. Ne viene fuori un altro piccolo capolavoro, in cui lo sviluppo di una trama ingegnosa si coniuga con l’abituale e impietosa logica dell’impianto narrativo. Trame ingegnose, appunto, e logica stringente: le stesse armi di distruzione della credulità del lettore che ritroviamo nelle opere maggiori, i romanzi What Mad Universe (Assurdo universo) del 1949, The Lights in the Sky Are Stars (tradotto con il titolo di Progetto Giove) del 1952, e Martians, Go Home (Marziani, andate a casa) del 1955. Nel primo, che resta il più famoso e anzi uno dei capisaldi della fantascienza classica, siamo di fronte alle avventure, peraltro eminentemente umoristiche – tanto da aver certamente ispirato il Douglas Adams della Guida galattica per gli autostoppisti–, del caporedattore di una rivista (rivista, guarda un po’ il caso, di fantascienza), che si ritrova a combattere con un universo parallelo in cui nulla è ciò che sembra e tutto è foriero di disillusioni, a cominciare dai prodotti – pericolosissimi – della propria immaginazione.

Flautista dilettante, pittore a tempo perso, grande bevitore, con una discreta propensione (pare) per i liquori più dozzinali – non a caso molti dei protagonisti dei suoi gialli sono degli alcolisti inveterati –, Brown non amava affatto lavorare ai suoi testi; mettersi a scrivere era anzi per lui una vera e propria sofferenza, ma al tempo stesso non poteva farne a meno. Alla fine, lascerà ai posteri cinque romanzi di fantascienza, altri ventitré ascrivibili al filone poliziesco, fra cui vanno citati almeno, per chi volesse cercarli sulle bancarelle o altrove, il primo e l’ultimo di essi, l’alfa e l’omega della produzione browniana, ovvero The Fabulous Clipjoint (Il sangue nel vicolo), del 1947, con cui inizia una serie di sette romanzi con gli stessi protagonisti che si concluderà con Mrs. Murphy’s Underpants, e The Five-Day Nightmare (Cinque giorni d’incubo), del 1962, scritto quando le sue condizioni di salute e la sua enorme produttività cominciavano già a declinare (morirà poi di un enfisema polmonare). Ma soprattutto nell’arco della sua carriera sarà stato l’autore di ben trecentosettanta racconti, in cui giallo, noir, fantastico e fantascientifico si mescolano allegramente. Con i suoi sconfinamenti tra i generi Brown avrà infatti precorso la narrativa di Stephen King, William Gibson o Jonathan Lethem nonché – da noi – di autori eclettici e difficili da incasellare come Giorgio Scerbanenco o Valerio Evangelisti, tutti maestri nella difficile e stimolante arte della contaminazione.

Facebooktwitterlinkedin