Alla Galleria Borghese di Roma
La danza di Guido
Esposto per la prima volta (dopo l'acquisto di due anni fa), "La danza campestre" di Guido Reni. Intorno allo splendido (e atipico) olio, una ricca mostra che riflette sul rapporto tra la Natura e il Sacro nell'arte del Seicento, da Caravaggio a Bernini
La pandemia lo ha tenuto celato per oltre un anno. Adesso è esposto al pubblico nella sede originaria. E attorno ad esso ruota un’intera mostra, a salutarne il ritorno nella Capitale e nelle collezioni di Beni Culturali. Parliamo della Danza campestre di Guido Reni, ricomprato nel 2020 e ricollocato nella raccolta dalla quale era partito. Il sorprendente olio infatti fu scelto dal cardinal nepote Scipione Borghese per la sua galleria di capolavori. Era l’anno 1605 e nelle sale incastonate nella omonima villa l’opera rimase fino all’Ottocento. Da allora risultò dispersa. Ricomparve nel 2008 sul mercato antiquario di Londra, citata come lavoro di anonimo bolognese. Verifiche attributive sancirono invece che l’autore è Guido Reni. Di qui il riacquisto da parte della Galleria.
Una storia italiana, insomma. Una minuscola tessera nel mosaico dell’esodo plurisecolare delle opere d’arte nate nello Stivale. Sicché ora questa “Danza campestre” diventa motivo di trionfo e di riflessione. Ma è soprattutto lo spunto per un focus attorno alla figura di Reni, non esposto da un trentennio. Egli è noto in specie per i suoi santi, gli aureolati che copiosi dipinse per chiese e conventi, richiesto da cardinali e pontefici. E però ebbe un’altra, consistente, fonte di ispirazione, il paesaggio. Ecco allora spiegato il titolo della rassegna appena inaugurata alla Galleria Borghese: Guido Reni a Roma. Il sacro e la Natura (oltre trenta opere, fino al 22 maggio, dal martedì alla domenica dalle 9 alle 19, catalogo Marsilio). Vi pone l’accento la curatrice, Francesca Cappelletti, che dirige la Galleria stessa dal novembre 2020. E che sottolinea la leggendaria perfezione a Reni attribuita, al punto da definire anche lui “divino”, al pari di Raffaello. Non a caso uno dei suoi ammiratori, il banchiere collezionista Vincenzo Giustiniani, lo pone come capace di affrontare il “duodecimo modo” di dipingere: “a maniera, e con l’esempio avanti al naturale”. Virtù posseduta “a tempi nostri” da “Caravaggio, i Carracci, Guido Reni ed altri, tra i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera, taluno più nella maniera che nel naturale…”. Una citazione nella quale c’è parecchia della storia di Reni, che frequenta la scuola di pittura di Carracci e che a Roma si confronta con l’arte di Caravaggio.
I suoi primi anni nella città del Papa sono lo sfondo della rassegna. L’approdo nel 1601, ventiseienne, già famoso. Vi rimarrà a fasi alterne fino al 1614, firmando lavori prestigiosi come la Sala delle Dame nei palazzi Vaticani, chiamato da Paolo V. Ma restando – sottolinea Cappelletti – “un isolato di successo”, uno desideroso di tornare a Bologna, tormentato, prigioniero del vizio del gioco. In sostanza, non un artista maledetto come Caravaggio, ma un irrequieto che morirà, “colto da febbri”, nel 1642, a 67 anni.
Appunto il serrato confronto con Michelangelo Merisi è evidente nel grande dipinto che apre la rassegna: La crocifissione di San Pietro, dipinta nel 1604 su commissione del cardinale Pietro Aldobrandini per l’Abbazia alle Tre Fontane. Riferisce con malizia Carlo Cesare Malvasia, biografo secentesco di Reni, che fu il Cavalier d’Arpino a suggerirgli il soggetto per danneggiare quella di Caravaggio, in Santa Maria del Popolo, che è del 1601: ma nell’opera di Reni il corpo dell’apostolo si distende scultoreamente a testa in giù mentre i carnefici sono concentrati a issare la croce e lo sfondo è già cielo blu e chioma scura di alberi. S’intrufola la natura nelle altre pale d’altare che campeggiano nel salone d’ingresso. La trovi, miniaturistica, perfino in un dettaglio del Martirio di Santa Caterina d’Alessandria, che leva patetica gli occhi verso l’angelo mentre il carnefice vestito rosso sangue impugna la spada.
“Questa mostra intende anche illuminare le nostre collezioni”, avverte Cappelletti. E infatti l’allestimento è un sapiente gioco di rimandi, grazie alla concretezza tridimensionale delle figure di Guido: nel suo “Paolo rimprovera Pietro penitente”, l’apostolo poggia la testa sul braccio al medesimo modo della canoviana Paolina Borghese, sullo sfondo; la frenetica Strage degli innocenti guarda la concitazione di Apollo e Dafne di Bernini e il dialogo si ripete nel Davide e Golia che fa da quinta al Davide berniniano. Il contraltare del Ratto di Proserpina è poi Atalanta e Ippomene, luce diafana, colori freddi, a esaltare la tensione dei due corpi in movimento.
Nella sala che ospita i sei quadri di Caravaggio della Galleria Borghese è collocato, di Reni, “Lot e le figlie”, prestito eccezionale della National Gallery di Londra: nella scelta compositiva delle mezze figure avvolte dal buio e con al centro il vecchio, il bolognese si collega all’attiguo “San Girolamo” dimostrando di aver assorbito senza farsi schiacciare la lezione del Merisi.
La danza campestre attende i visitatori al piano superiore: il paesaggio, sotto un cielo turchino, accerchia i cavalieri e le dame seduti intorno, mentre due di loro cominciano il leggiadro ballo. Occhieggiano, di fronte, quattro scene campestri di Francesco Albani, dedicate con dei e amorini alle quattro stagioni. Si dà anche conto del Guido Reni di piccolo formato, attraverso tre olii su rame provenienti dal Prado di Madrid. Dell’influsso dei fiamminghi (tale fu il suo primo maestro) dicono due minuscoli paesaggi, uno marino l’altro con le rovine di Tivoli, di Paul Bril. L’altro maestro, Agostino Carracci, declina a modo suo una festa in campagna. Del resto, la più grande esaltazione della Natura da parte di Reni è nell’affresco dell’Aurora di Palazzo Rospigliosi, committente il solito Scipione Borghese: la protagonista accanto al carro del Sole guidato da Apollo avanza su un tappeto di nuvole e reca la luce su un panorama di valle e monti. Alla mostra si affianca, partendo dal Casino dell’Aurora, una guida ai luoghi romani del bolognese, dalla Cappella dell’Annunciata al Quirinale alla Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, alla pala della Trinità nella chiesa dei Pellegrini.