Flavio Fusi
Cronache infedeli

Miei fratelli russi

Il privilegio di un inviato di guerra è quello di essere entrato in contatto con le contraddizioni della storia. E di averle riconosciute nelle facce delle singole persone, nel cuore delle singole storie. Come queste, dalla Cecenia a Mosca al Donbass

Io i russi li ho conosciuti. L’agosto del ’91 declinava in uno scroscio di piogge fredde. Sotto il ponte e sul viale che costeggia l’acqua grigia della Moscova, la barricata era un ammasso di legno fradicio. Il ragazzo che ci ferma è disarmato e porta al braccio una fascia di stoffa bianca. Dice: «Di qui i carri non passano», e quasi sorride alla sua stessa azzardata bugia. Lui lo sa bene, noi lo sappiamo: basterebbe un colpo o un urto di cingolato per far volare via questo patetico sbarramento di assi, tronchi, cartelli stradali sradicati, pezzi di granito raccolti nelle strade vicine. E tuttavia, nessuno può immaginarlo, ma davvero i carri dei golpisti non passeranno: ancora pochi giorni e Mosca sarà libera.

A trenta anni di distanza, il nome di quel giovane comandante non lo ricordo, o forse non l’ho mai saputo. So solo che capeggiava un gruppo di ragazzi e ragazze come lui, avventurati in una specie di romanzo giovanile dentro una storia troppo grande che in poche settimane avrebbe cambiato il mondo conosciuto.

Io i russi li ho incontrati. Si chiamava Anatoliy ed era un disertore: parola troppo impegnativa per un ragazzo di 19 anni – esile e biondo – con la sua maglietta militare a righe bianche e azzurre. Semplicemente: per paura o per disgusto, Anatoliy aveva abbandonato il contingente militare inviato da Mosca per dividere armeni e azeri che si massacravano per il Nagorno Karabach. Quella notte, il disertore se ne stava silenzioso e insonnolito davanti al fuoco del camino, in una baita nascosta nei boschi controllati dai partigiani armeni.

Che fine abbia fatto questo spaurito, infreddolito soldatino sovietico non l’ho mai saputo: succede così quando viaggi per raccontare guerre e guerriglie lontane da casa e corri da un fronte all’altro, da una storia all’altra. Del resto, era allora il maggio del ’91, entro pochi mesi l’intera armata rossa avrebbe disertato e si sarebbe ritirata a Mosca in attesa di cambiare simboli e mostrine, abbandonare la falce e martello dell’Unione Sovietica e innalzare il tricolore della vecchia madre Russia.

Il comandante Ivanov invece l’ho incontrato qualche anno dopo in un accampamento fangoso lungo il confine tra Inguscezia e Cecenia, in quella che fu la guerra di Eltsin e che diventò poi la prima guerra di Putin. Il comandante Ivanov lesse svogliatamente i nostri documenti ed emise una sentenza inappellabile: «Con il vostro lasciapassare mi ci pulisco il culo…». Il giorno dopo mostrò la sua benevolenza: ci caricò su un convoglio militare che arrancava verso Grozny e ci permise di vedere – solo vedere, e da lontano – la capitale cecena che bruciava, le ampie nuvole di fumo che si alzavano all’orizzonte, sotto il battito profondo degli elicotteri in volo e il sibilo dei razzi che si abbattevano a terra.

E, a proposito di Grozny. Prima di cadere, la capitale cecena – che fu ridotta in polvere e poi ricostruita secondo i modelli architettonici tardo-sovietici dei dignitari di Putin – si trasformò in una trappola mortale per decine e decine di giovani soldati russi, che tornarono in patria rinchiusi in bare metalliche: quei “ragazzi di zinco”, di cui parla la giornalista e scrittrice bielorussa Svjatlana Aleksievic.    

Il carrista Efim veniva da Mosca e aveva ventidue anni. Dicono che sia rimasto intrappolato nel suo tank che bruciava, colpito da un mortaio. Un bel ragazzo: ho visto la tomba e la sua fotografia sulla lapide, in un fiorito piccolo cimitero di Mozdok, la capitale dell’Ossezia del Nord. Era una mattina di primavera e ci siamo seduti su una panchina di pietra davanti alla fossa, insieme ai genitori e alla vecchia nonna del soldato: avevano fatto un lungo viaggio per venire a trovare questo figlio rimasto nel Caucaso. Ma non c’erano più lacrime: su quella panchina apparecchiata ci hanno offerto uova sode e pasticcini, e insieme abbiamo brindato con la vodka versata in piccoli bicchieri di metallo. Alla maniera russa: “chut chut, poco poco…”

«Il Caucaso sarà il Vietnam di Putin», mi disse qualche anno dopo la giornalista dissidente Yulia Latynina. Ero andato a trovarla in uno degli studi dell’emittente radiofonica indipendente Echo di Mosca, e Yulia – una giovane donna esile e indomita, occhi grigi sotto una gran nuvola di capelli rossi – raccontava uno per uno i misfatti dell’oligarca del Cremlino in Cecenia. Allora Anna Politkovskaya era già morta, fulminata con un colpo di pistola sul pianerottolo di casa, prima di pranzo, con le buste della spesa in mano. «Scrivo quello che vedo», diceva Anna, e Yulia parlava anche per lei, con il suo inglese a precipizio e con la speranza di un Vietnam sulle montagne del Caucaso che ci avrebbe presto liberato dall’ incubo di un presidente guerrafondaio.

Quanto tempo è passato? L’oligarca è ancora in sella, ha scatenato una nuova guerra, e Yulia vive oggi in una località segreta degli Stati Uniti. È stata costretta a lasciare Mosca e la Russia, dopo due attentati misteriosi: uno con il gas, la notte dentro casa, l’altro in pieno giorno, con l’auto imbottita di dinamite. E anche Echo di Mosca non esiste più: nel silenzio dei media di regime, la redazione sbaraccata e chiusa d’autorità, i redattori dispersi e minacciati. I giornalisti, appunto. Quelli che non si piegano, che rischiano la vita, e che Putin ha definito “pidocchi e microbi.” 

A proposito di giornalisti. Chissà se la scrivania di Anna nella redazione della Novaja Gazeta è rimasta quella che ho visto, troppi anni fa: un computer spento, una scrivania di legno ingombra di carte, un vecchio barattolo pieno di matite e penne biro, e alle spalle due ripiani di libri, documenti, ninnoli e ricordi di viaggio. So che Novaja Gazeta, l’indomito giornale che abbiamo conosciuto – poche stanze polverose in cima a una rampa di scale che odora di cavolo bollito – ancora combatte la sua impari battaglia contro l’oscurantismo. So che il suo attuale direttore e fresco Premio Nobel per la pace, Dmitrij Muratov, in questi giorni bui ha voluto stampare la prima pagina del giornale in doppia lingua: russo e anche ucraino. Come a dire: «Noi siamo fratelli».

Ieri il Caucaso, oggi l’Ucraina. Oggi: si fa per dire. La guerra di nervi tra Mosca e Kiev è cominciata quasi venti anni fa, nel 2004, quando la rivoluzione arancione si azzardò a portare il grande Paese di frontiera fuori dall’orbita russa. Anche allora un confine invisibile spaccava questa terra tra est e ovest. Dopo aver lasciato lo splendore e la festa di Maidam per raggiungere il Donbass, ci trovammo in una patria diversa, affondata in un desolato spleen industriale. Donetsk era una città cupa e color ruggine, le strutture di ferro contorte e i pozzi delle miniere punteggiavano una campagna arida e senza vegetazione.  

Il minatore più anziano dell’azienda – una sorta di antico guardiano – ci accompagnò allora dentro una gabbia di acciaio nelle viscere della terra, decine e decine di metri in vertiginosa discesa fino alla vena del carbone.  Lì, il vecchio sdentato, sorridente Kirill ci raccontò di essere russo. «La mia famiglia arrivò negli anni Cinquanta, per non morire di stenti nelle campagne. Allora il Donbass era una specie di far west russo: una terra violenta e spesso senza legge, ma ricca perché allora il carbone significava ricchezza, fuga dalla fame. Oggi, non saprei: sono russo, ma sono anche ucraino. Se ci penso non vedo la differenza». Di ritorno a Kiev, visitammo la casa di Michail Bulgakov: poche stanze anguste e buie, una scrivania, un letto cigolante e riflessi opachi alle finestre come fantasmi erranti.  Bulgakov: così ucraino e insieme così russo! Il più russo tra gli scrittori ucraini, l’uomo di Mosca, il vagabondo della Nep, il cantore dello Stagno dei patriarchi e della Collina dei passeri. Lo scrittore che non esitò a umiliarsi davanti a Stalin per non essere costretto ad emigrare lontano dalla Russia. Si inchinò dunque al potere in nome dell’arte, ma senza rinunciare al sogno: «Qualunque potere rappresenta una forma di violenza sugli uomini, e arriverà il giorno in cui non esisterà né il potere dei Cesari, né qualsiasi altra forma di potere. L’uomo entrerà nel regno della verità e della giustizia, dove non sarà necessario alcun potere…».

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