Si apre la stagione degli eventi
Arte della ripetizione
Gian Maria Tosatti, artista molto in voga da qualche tempo, si divide tra la Biennale di Venezia (al Padiglione Italia) e la Quadriennale di Roma (per cui ha varato un programma di tre anni). Ma in realtà le istituzioni dell'arte qui da noi hanno il fiato corto
Che cos’è l’arte contemporanea e dove sta andando il sistema che ne governa la circolazione e l’assegnazione dei valori? Difficile trovare risposta in un universo globale che corre sempre più velocemente, precipitato dal relativismo del pensiero debole al dominio del pensiero unico del capitalismo finanziario. Tanto più nel territorio delle arti visive che, almeno in Occidente, sembra aver rinunciato ad interpretare il compito di aiutarci a capire e a cambiare le cose. Non sta più al passo coll’incalzare dei tempi: incapace nel suo complesso di metabolizzare le mutazioni di due anni di stallo del covid, figuriamoci quelle della guerra in Ucraina.
Ma qualche indicazione – non troppo incoraggiante a dire il vero – può venirci da due istituzioni che in Italia gestiscono le passerelle più prestigiose della creatività, e che proprio in questi giorni, a poca distanza l’una dall’altra, si sono affacciate alla ribalta a presentare i propri programmi a breve, ostentando come credito la loro anzianità di servizio.
La Biennale di Venezia, nata 127 anni fa, cinquantotto edizioni alle spalle, con un percorso di alti e bassi, ma una solida continuità garantita da fondi sicuri ma soprattutto dal compito di vetrina internazionale che sin dall’avvio le è stato assegnato. E la Quadriennale di Roma, 95 anni d’età portati male, segnati dal peccato originale di esser stata partorita nel ventennio fascista come rivendicazione del ruolo di Roma capitale dell’Impero e contrappeso indirizzato a valorizzare la produzione artistica italiana e una serie di altri compiti di ricerca, promozione all’estero e documentazione sanciti da continue modifiche di statuto. Un boom iniziale poi vari tentativi di rinascita, un cammino costellato da continua incertezza sui fondi, sulle sedi a disposizione e sugli obiettivi da raggiungere, fotografato dal modesto numero di edizioni portate al varo, appena diciassette.
Venezia ha presentato una ventina di giorni fa la sua nuova edizione che verrà inaugurata ad aprile, con una quantità di informazioni inconsueta, spiegabile soprattutto dal bisogno di attivare il passa parola, attirare a Venezia il turismo di massa messo in fuga dalle restrizioni anticovid, confermare il record di presenze dell’ultima puntata, quasi seicentomila persone.
Solo qualche dato per inquadrare il cartellone, rinviando chi è interessato a nomi e dettagli al sito internet della Biennale e alle interviste diffuse su Youtube. Oltre 200 artisti presenti, in rappresentanza di 61 paesi, ai quali andranno aggiunti quelli portati in scena dai 31 eventi collaterali previsti e quelli che animeranno i circa novanta padiglioni delle nazioni presenti.
Con lo scoppio della guerra, la Russia si è autoesclusa, e la presenza di artisti ucraini sarà recuperata per quanto possibile in altri spazi. La rappresentanza più nutrita, quasi l’ottanta per cento, è composta da donne e da creativi che respingono inquadramenti sessuali di genere. Moltissimi gli artisti e le artiste esordienti o recuperati dall’ingiusto oblio della disattenzione e dei tagliafuori di un mondo che si è sempre rappresentato al maschile.
Tre, a ritagliarli, i settori tematici: la riflessione sul valore e la crisi dell’umano, le variazioni dei rapporti che ci legano e a volte ci sottomettono al mondo delle macchine e della tecnologia, la necessità di ridefinire e rappresentare le relazioni con l’ambiente naturale, animali, piante, materie e soggetti dell’inorganico. Molti i capitoli, ribattezzati capsule del tempo, che ripercorrono da varie angolazioni e con continui raffronti al presente e sguardi alle esperienze del mondo globalizzato, le pagine della storia dell’arte e ripropongono la riscoperta e l’attualità di personaggi e protagonisti dimenticati. Come la scrittrice e pittrice Leonora Carrington, inglese trapiantata in Messico, voce di primo piano dell’avanguardia surrealista, che la rassegna incorona come musa madrina, rubando il titolo, Il Latte dei sogni, a un suo prezioso e bizzarro libretto di novelle e disegni per l’infanzia, pubblicato da Adelphi.
Ecco a linee sommarie le svolte inedite legate al cambio in cabina di regia, che affida lo spettacolo della Biennale alla direzione di Cecilia Alemani. La prima volta in assoluto di una donna italiana al vertice. Ma non un vero debutto per la curatrice. Il che annacqua molto le promesse e le speranze di novità. Già, perché la Alemani è già sfilata in posizione di prima fila a Venezia, incaricata nel 2017 di gestire il padiglione Italia. Aveva le carte in regola, un curriculum di tutto riguardo a New York, capitale per eccellenza del contemporaneo. E se la cavò benino. Due delle tre istallazioni scelte per l’Arsenale erano di forte impatto. Ma già allora c’è chi storse il naso sulla sua nomina. Perché solo quattro anni prima, nel 2013, a guidare la Biennale era stato suo marito, Massimiliano Gioni, altro critico molto portato soprattutto negli Usa. Firmò un’edizione, intitolata il Palazzo enciclopedico, un po’ fuori asse ma apprezzabile, alla quale anche questa nuova puntata sembra ispirarsi nei suoi sconfinamenti verso l’irrazionalità dell’istinto e la forza rivoluzionaria delle pratiche magiche e della follia.
Nessuno scandalo da tribunale, ma un’aria chiusa di staffetta in famiglia che sa di muffa, di arroccamento autoreferenziale, a volte cinismo, malanni che sono benzina corrente del sistema contemporaneo. Un sospetto di falsi movimenti alla Gattopardo. Cambiamenti perché nulla cambi. La rassegnazione conviene al mercato e a tutti quelli che con motivazioni diverse, critici in carriera, artisti, direttori di musei, collezionisti, galleristi, ne hanno sposato le regole e ci si sono adeguati.
Possibile che non ci si accorga che questa girandola di nomi intercambiabili pescati dallo stesso cilindro, è un segnale d’arroccamento preoccupante? Non sembra preoccuparsene nessuno.
Di rimbalzo questa pratica tutt’altro che liberatoria da serpente che si mangia la coda sembra aver contagiato anche l’altra istituzione gemella, la Quadriennale di Roma, che pure in una logica di leale concorrenza avrebbe tutte le ragioni per battere strade diverse da quelle disegnate in Laguna. E invece guarda caso ha affidato la direzione delle sue attività proprio ad un artista a certificazione sicura, quello scelto come unica carta per animare il Padiglione Italia della Biennale: Gian Maria Tosatti, 41 anni, romano trapiantato a Napoli, dove la sua carriera di performer multimediale e concettuale, specializzato nella contaminazione di linguaggi che l’élite della critica ha consacrato come emblema e conquista dell’arte di oggi e del futuro, è decollata.
A sceglierlo come esclusivo portabandiera italiano sulla laguna è stato Eugenio Viola – insediato alla guida del Padiglione Italia dal ministro Dario Franceschini – il curatore che, guidando il museo Madre, polo partenopeo del Contemporaneo, lo aveva lanciato, promuovendo insieme a Lia Rumma – capofila di un altro perno del fronte made in Italy dell’arte, il gallerismo più aggiornato e rampante – un ambizioso progetto di sceneggiature d’ambientazione, una sorta di via crucis, che ha invaso in tre anni vari luoghi della città. E poi ha ispirato altre due operazioni dello stesso tenore a Istanbul e Odessa.
Gian Maria Tosatti è un creatore di istallazioni di talento, poliedrico ma soprattutto, a differenza dei suoi colleghi, abile e appassionato affabulatore, che si è conquistato la promozione sul campo e vuole sfruttare il momento. E il favore del sistema in tutte le sue componenti, che ci hanno investito su, ma prima o poi gli chiederanno di essere ripagate. O comunque contano di ricavarne un guadagno, convinti di assicurarsi con il suo coinvolgimento una carta vincente.
Un calcolo che sembra aver guidato anche il presidente della Quadriennale Umberto Croppi, che l’ha chiamato al suo fianco e lo esibisce come fiore all’occhiello del suo mandato in scadenza in una conferenza convocata nel salone dell’Acquario Romano all’Esquilino. All’ordine del giorno un programma triennale d’iniziative, messo a punto proprio da Tosatti, scelto in una rosa di 51 candidature, quando già si sapeva che la Biennale lo aveva premiato come capofila in esclusiva dell’arte italiana d’ultima generazione. Una firma che fa notizia e magari basta da sola a smuovere le acque: difficile non pensare che nella valutazione finale non abbia pesato anche questo.
Perché, figlia di un Dio minore, la Quadriennale ha un disperato bisogno di fare notizia per non annegare nella palude d’indifferenza e disattenzione che la capitale abitualmente le riserva. Un richiamo tra gli altri che sfonda il muro degli addetti ai lavori solo quando si celebra il rito vistoso e quasi mai puntuale della grande mostra finale che smuove interessi, polemiche, curiosità.
Da presidente, Croppi ha avuto la sfortuna di non riuscire ad officiarlo da primattore. Ha tagliato il nastro di una rassegna al Palaexpo, la diciassettesima, impostata da altri con intenzioni discutibili, penalizzata dalle restrizioni del Covid e costretta a una proroga che ne ha prolungato la durata per mesi. Uno slittamento che ora gli nega la possibilità di lasciare la sua impronta sull’edizione successiva che, se tutto va bene, aprirà nel 2025, mentre lui dovrà lasciare la poltrona nel 2023.
Un destino ingiusto che ne offusca altri innegabili meriti: come quello di aver trovato per la Fondazione che guida una sede più centrale, più ampia e più adatta di quella sotto sfratto che occupa a villa Carpegna: l’Arsenale pontificio in disarmo a porta Portese, che si sta recuperando alla nuova funzione con un restauro i cui tempi stanno anch’essi slittando.
Per lasciare il suo segno, eccolo dunque concentrarsi sugli altri compiti istituzionali, la ricerca, la valorizzazione della sua biblioteca che accoglie la più ricca documentazione sulle vicende e gli autori dell’arte italiana dagli Anni Venti a oggi, e la promozione all’estero degli autori made in Italy.
Ed è qui che lo conquista l’idea di ingaggiare Gian Maria Tosatti e metterne a frutto la fama di astro montante usandolo come motore e testimonial dell’operazione. Trascurando forse le ricadute negative di questo suo sdoppiarsi tra Roma e Venezia che appaiono un segnale di debolezza del sistema, denunciano l’imbuto troppo stretto delle sue possibilità di reclutamento. Un messaggio indiretto di chiusura che contraddice la volontà di aprirsi, costruire nuovi approcci per gli artisti di oggi e il loro pubblico, che traspare tra le intenzioni più interessanti dei progetti presentati per la Quadriennale.
C’è l’idea di una serie di piccole mostre periodiche per scoprire e incoraggiare giovani talenti, non più di tre opere ad artista, da tenere a Roma: dove? Non si sa o non si può ancora dire. C’è l’idea di un festival di alcuni giorni, programmato per settembre, anche questo in città, in luogo da stabilire: un momento incentrato sul dialogo e lo scambio di idee fra operatori del settore. C’è l’intento di avviare una sezione di studio e approfondimento dell’arte digitale come strumento adattabile alla voglia di dire di ogni artista, che dovrebbe sfociare nella produzione o coproduzione dei progetti migliori. Come, dove, quando: non si sa ancora. C’è un piano di ricognizione a tappeto su tutto il territorio nazionale per il quale sono già insediate tre commissioni di curatori al Nord, al Centro e al Sud, incaricati di visitare quanti più studi di artisti possibile e portarli periodicamente in visione, trenta alla volta, sul sito on line della Quadriennale. C’è il proposito di rimettere in moto i rapporti con le Università, che fino ad oggi funzionano come corpi separati di formazione. C’è una forte attenzione a lasciare traccia scritta del lavoro fatto. Si punta sulla rivista trimestrale Quaderni italiani edita dalla Treccani e sul sito web della stessa testata che sarà aggiornato ogni giorno. E su un volume da pubblicare ogni anno nel corso del triennio per ripercorrere le novità più interessanti emerse in quei dodici mesi.
Tanta, fin troppa carne al fuoco da portare al traguardo. Con molti rischi. Il primo, quello di scivolare nei trabocchetti degli interessi di parte, nei favoritismi alle scuderie personali che sono da sempre il punto di debolezza della stampa specializzata e dei critici in carriera. Tosatti conta di superare l’ostacolo promettendo porte aperte per allargare la partecipazione ad ognuno dei tanti progetti: «Chiunque può farsi avanti, portare nuove idee, candidarsi. Esamineremo tutte le proposte e se meritevoli le inseriremo a lavori in corso». Dargli credito non costa nulla: tra tutte le idee messe sulla carta, questo desiderio di coinvolgimento senza preclusioni ci sembra la novità più stimolante.
Il secondo rischio nasce da una vistosa dimenticanza: mancano iniziative dirette per allargare la platea dell’arte contemporanea oltre la cerchia di intenditori, colmare la distanza di comprensione che la presunzione delle avanguardie ha scavato e la mediazione degli esperti colmato di parole e concetti che non arrivano al cuore e alla pancia.
Il terzo rischio è invece una trappola di percorso e di date che non è stato possibile eliminare e rischia di vanificare tutti gli sforzi. Nel 2023 il mandato di Croppi scadrà, subentreranno un altro presidente e un altro consiglio d’amministrazione: l’intera operazione rischia di perdere il padrino che l’ha voluta e finanziata. Nel 2024 anche l’incarico di direttore artistico affidato a Tosatti giunge alla fine. Nel 2025 andrà in scena una nuova edizione della rassegna che è il primo obiettivo, il più popolare e seguito, assegnato alla Quadriennale. Probabile che cambino anche i referenti politici: un nuovo governo, altre maggioranze, altre emergenze, altre clientele. Probabile che si cambi strada e orientamenti. E non si tenga alcun conto dei risultati raggiunti, che non è detto siano quelli sperati. Delle proposte che emergeranno. In un mondo così non c’è posto per tutti. Bisogna cambiarlo. E l’arte non può star seduta e limitarsi a guardare. Accoccolandosi in presenti senza futuro e viceversa.