Il senso di una crisi
Fantasmi di guerra
Suscitare emozioni è indispensabile nel racconto della guerra. Serve a spingere meglio la comprensione dei fatti laddove da sola la razionalità non riesce ad arrivare. Ma fino a che punto è lecito "spettacolarizzare" il dolore? E che dire delle immagini che indulgono sui bambini con il fucile?
La guerra sul campo e la guerra raccontata. Il dolore, il sangue, la morte. E le immagini, le parole per renderne conto. «La prima vittima della guerra – ammonisce Eschilo – è la verità». Il rischio cresce nel stagione dell’immediatezza e del real time. Racconto veritiero, perché verificato, e falsificazione manipolatoria della stessa realtà si confrontano e scontrano ogni momento sul campo. Il vero come il falso generano convinzioni, orientano opinioni e, nel teatro di guerra, agiscono incisivamente sulla percezione agendo sulla motivazione delle popolazioni.
Distinguere il vero dal falso non è affare da studiosi mentre bombe e cannoni generano carneficine. È azione militante. Professionalmente militante. Un dato è chiaro ed ineludibile: si sa chi è l’aggressore e chi l’aggredito. La scelta di campo militante è tra questi due poli. Il giornalismo professionale è schierato con l’aggredito. Ma non basta, non può bastare. La petizione di principio esige una pratica rigorosa che non può arrestarsi dinanzi a nessuna autocensura o, il che è lo stesso, forzatura retorica “a fin di bene”.
Suscitare emozioni è indispensabile nel racconto della guerra. Serve a spingere meglio la comprensione dei fatti laddove da sola la razionalità non riesce ad arrivare. La spettacolarizzazione è un rischio ma anche una condizione per fare emergere quella verità che il grande tragico greco ci insegna essere la prima vittima predestinata di ogni guerra.
Sincero spirito militante ha animato la confezione, qualche giorno fa, della prima pagina de La Stampa. Una grande foto, macerie e cadaveri sulla strada, un titolo secco “La carneficina”. Senza ulteriore contestualizzazione l’immagine è assurta a simbolo della violenza spietata dell’esercito russo.
La foto illuminava un altro campo, un’altra azione e altri responsabili. Il direttore del quotidiano torinese ha riconosciuto l’errore e si è pubblicamente scusato ma chiarendo che l’intenzione era la denuncia, dalla parte delle vittime civili, quanto più forte del massacro che sta avvenendo in Ucraina. Ne va preso atto ma se ne può discutere. Accuratezza e precisioni, istanze base del lavoro giornalistico e preliminari alla verità possibile, non possono lasciarsi travolgere nel nome legittimo di una militanza professionale umanitaria. Peserà quell’errore quando si dovrà ricostruire la storia (esercizio politico prim’ancora che scientifico) di questa guerra.
Il tema non è facile da affrontare. L’esigenza di verità (sulle azioni di tutte le parte in conflitto) non può ignorare l’assedio interiore di un “fantasma”: il giustificazionismo, la terzietà, il rischio di porre sullo stesso piano aggressore ed aggredito. Ma quel “fantasma” va scacciato nel solo modo possibile: il rigore della conoscenza del giornalista. La categoria dei giornalisti sta dando prova di saperlo fare.
Scacciato il fantasma della terzietà ecco presentarsene subito un altro. Più insinuante ed apparentemente innocuo. Potremmo definirlo – mutuando la definizione dall’ambito psicologico-giudiziario – “vittimizzazione secondaria”. Il meccanismo allude ad una super esposizione, in chiave mediatica ed a fini virtuosi, delle vittime reali del conflitto.
È ancora una fotografia ad offrirci questo angolo di visione. Risale a qualche giorno fa. Ha trovato spazio in molti giornali ma è stata la foto di prima pagina di Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. L’immagine ritraeva una bimba piccola rannicchiata, lo sguardo fiero ma obliquo rispetto al campo fotografico, e un mitragliatore in grembo. La foto è potente, il messaggio drammatico. I bambini, come le cronache confermano, non sono risparmiati. Se sono vittime, sono pronte a difendersi. L’infanzia brucia le tappe della crescita, dai pelouche alle armi.
Quella foto racconta una verità di fatto. E tuttavia la usa. Usa l’infanzia nell’intenzione di smuovere le coscienze. Anche l’esposizione fotografica del cadavere del piccolo profugo siriano Aylan riverso sulla spiaggia turca smosse coscienze ed azioni concrete. Anche lì c’è stato un uso dell’infanzia. Regge il paragone con la bimba ucraina che imbraccia il mitra?
L’immagine della bimba ucraina tocca il cuore e raddoppia, se possibile, l’allarme per la tragedia. Ci sono però limiti, anche etici, che vanno accettati e rispettati. Aylan era consegnato alla morte, era sua accompagnatrice nella fuga disperata di piccolo migrante, presto o tardi lo avrebbe richiamato a sé. Aylan era armato solo della sua paura e della propria inconsapevolezza prima che gli stenti lo uccidessero.
La bimba ucraina condivide la sofferenza senza nome e l’inconsapevolezza di Aylan. Ma nella foto diventa altro. Salta la barriera della sua innocenza in un set costruito per diventare simbolo. Gli occhi di quella bimba hanno certamente visto morte e distruzione. Altro è offrirle, anche solo per il tempo di uno scatto fotografico, la percezione tattile di uno strumento di morte. L’innocenza deve adattarsi al destino di bambini-soldato? Cosa avrà pensato la piccola ucraina una volta imbracciato il mitragliatore? Che era un nuovo quanto strano giocattolo? Che proprio come giocattolo sarebbe entrato a far parte del suo mondo fantastico, dei suoi giochi che mediano il rapporto con la realtà anche alleggerendo paure ed angosce? Non è forse un modo per abituare l’infanzia alla possibilità della guerra e della morte violenta? A normalizzare sin da quell’età il terrore?
Attendibili retroscena raccontano che Papa Francesco abbia avuto una reazione indignata alla vista della prima pagina di Avvenire. Non ha fatto filtrare la sua disapprovazione. Il giorno dopo la pubblicazione il direttore dell’Avvenire, Marco Tarquinio ha scritto e pubblicato un editoriale nel quale si scusava della scelta.
L’infanzia è il riflesso e la radice della nostra umanità. L’infanzia va protetta. Soprattutto quando si precipita nella terribile voragine della guerra. Protetta non vuol dire anestetizzata di fronte al male ma condotta per mano anche di fronte a quella dimensione. Condotta e protetta non usata.
Tutti ricordiamo La vita è bella, lo splendido film premio Oscar di Roberto Benigni. Purissima e delicata poesia, atto d’amore per i bambini. La poesia sa nascere anche sui terreni intrisi di sangue e disperazione.
Benigni interpretò il suo ruolo nella finzione filmica. Lo interpretano nella realtà tutti i giorni le assistenti sociali dei centri di accoglienza dei bambini in Ucraina. Ogni sirena che annuncia l’arrivo di un attacco aereo trasforma in un gioco la corsa dei bambini e delle proprie custodi verso il bunker sotterraneo. Una gara e poi i disegni e le caramelle per festeggiare la vita difesa.
Quei bambini sanno e sentono che fuori c’è guerra, c’è il dolore, c’è il sangue e la morte. Ma sanno e sentono che le loro mani sono fatte per abbracciare e stringerne altre. Non per impugnare fucili. Neanche per lo scatto di una foto.