Periscopio (globale)
Dire Pasolini
Il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini è l'occasione giusta per tornare a riflettere sul suo “teatro di parola”. Da "Affabulazione” a "Calderon", una drammaturgia contro il vuoto teatro borghese e l'avanguardia "del gesto e dell'urlo"
Certe volte si fa fatica a credere che siano già passati cent’anni dalla nascita di un autore che ci sembra, se non pienamente contemporaneo, almeno ancora molto vicino alla nostra sensibilità e alle nostre lacerazioni. È il caso di Pier Paolo Pasolini, di cui davvero sorprende che ricorra già, il 5 marzo, il centenario della nascita. Sarà per le circostanze ancora in parte oscure di una morte drammatica, o per la sua scelta costante di essere un intellettuale militante, molto presente nella vita culturale del paese; sarà per il suo essersi impegnato così a fondo su tanti fronti (poesia, narrativa, saggistica, cinema) o per la “disperata vitalità”, ma questi cent’anni sembrano essere trascorsi davvero in un soffio, e nelle more del tempo che passa, e che tanti altri autori ci fa subito dimenticare, la sua figura non è affatto sbiadita.
Sul Pasolini appunto poeta, narratore, saggista, polemista, regista cinematografico, persino traduttore-adattatore di classici si sono spesi fiumi d’inchiostro. Più in sordina è rimasto il suo impegno come drammaturgo e teorico del teatro, il suo anelito a una riforma del fare teatrale che rappresentasse una specie di terza via rispetto alle due tendenze prevalenti nella società a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Nel suo caso, tutto nasce nel 1968, perché il 1968, oltre a essere l’anno della contestazione giovanile, che gli ispirerà prese di posizione indubbiamente polemiche e originali, è anche il momento preciso in cui si avvicina al teatro da teorico, sistematizzando certe intuizioni cui già davano corpo i drammi concepiti e scritti due anni prima (primo fra tutti, Affabulazione) durante una lunga e fastidiosa convalescenza. Pasolini s’interroga insomma sulle ragioni che lo hanno spinto, in quella parentesi d’immobilità forzata, a scrivere proprio dei drammi anziché altre poesie o romanzi – ricordiamo en passant che erano già usciti tutti i suoi maggiori lavori poetici tranne Trasumanar e organizzar, come pure i due romanzi principali e Il sogno di una cosa – e sulla stessa possibilità di investire il linguaggio poetico di compiti tanto eterogenei quali sono quelli che il rito teatrale impone.
Nelle sue riflessioni l’esempio cui Pasolini si rifà è quello del teatro ateniese, e la sua proposta di un “teatro della parola” ignora implicitamente e deliberatamente tutte le teorizzazioni successive al modello prescelto. Ciò non toglie peraltro che occorra fare i conti con la situazione attuale, e che tanto nella scelta dei moduli stilistici, quanto in quella del destinatario, ci si debba riferire alla società in cui si vive. Il nuovo teatro proposto da Pasolini nasce allora in immediata polemica con le due correnti che predominano nella teoria teatrale del Novecento, e che Pasolini definisce spregiativamente “teatro della chiacchiera” e “teatro del gesto o dell’urlo”, ovvero teatro accademico e teatro d’avanguardia, uniti da uno stesso destinatario e fruitore: la borghesia. Anche il cosiddetto teatro della parola, tuttavia, coinvolge quale destinatario la borghesia: anzi, come precisa Pasolini, i suoi “gruppi avanzati”, dalla cultura più o meno paragonabile a quella dell’autore. Se il pubblico è quindi grosso modo lo stesso – in pratica, coloro (i pochi) che vanno a teatro –, il rito deve tentare di rifondare, presso questo stesso pubblico, l’amore per la parola, che passa per una scomparsa quasi assoluta della messinscena e una riduzione drastica dell’azione scenica. Ma la parola, a sua volta, dovrà essere veritiera, rimandare a un lessico italiano non prettamente letterario (cioè scritto, convenzionale), ma orale e quotidiano, dinamico seppur privo di calchi mimetici: solo in questo modo il problema ideologico posto nel dramma all’intellettuale borghese potrà raggiungere la classe operaia, solo in questo modo il testo − rigorosamente “a canone sospeso”, privo cioè della pretesa di risolvere le contraddizioni che presenta − potrà essere davvero intellegibile nella sua complessità e stimolare una discussione più serrata. È quasi inutile precisare che questa discussione per Pasolini non dovrà essere quella retorica e banale fomentata dal teatro del gesto o dell’urlo, nel quale è sempre implicito un certo misticismo, e quindi la rivelazione di verità prefabbricate. Qui, per l’intellettuale borghese si tratta invece di arrivare, attraverso i canali della ragione e di una parola recuperata, a un ripudio sempre più convinto della propria classe sociale, sottoposta a un rigoroso esame ideologico.
La fruizione teatrale non sarà quindi più un saccente e semplicistico veicolo di propaganda, ma diverrà momento privilegiato del ripensamento e della messa in discussione dei principi fondamentali dell’esistenza (anch’essa borghese) dello spettatore. Se istintivamente Pasolini si rende conto di non poter rinunciare al predominio della parola, allo stesso tempo le assegna una funzione nuova, cercando di liberarla dalle pastoie della mera declamazione e utilizzandola non più come rudere, o detrito, ma come strumento vivo per il decisivo incontro fra attore e spettatore – quel mistero grazie al quale si dà appunto il teatro.
Proprio come un’esemplificazione dell’azione manipolatoria compiuta principalmente dalla parola, ma anche dall’insieme degli elementi scenici che la rinforzano, può essere letto il seguente passo di Affabulazione, in cui l’Ombra di Sofocle (lo scrittore stesso sotto mentite spoglie) ribadisce l’esigenza della parola teatrale: “Nel teatro la parola vive di una doppia gloria, / mai essa è così glorificata. E perché? / Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata. / È scritta, come la parola di Omero, / ma insieme è pronunciata come le parole / che si scambiano tra loro due uomini al lavoro, / o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio, / o le donne al mercato − come le povere parole insomma / che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita: / le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello. / Ora, in teatro, si parla come nella vita.”
E se è vero, come aggiunge, che “il teatro / non evoca la realtà dei corpi con le sole parole / ma anche con quei corpi stessi…”, è altrettanto sacrosanto che per Pasolini – si pensi anche al suo cinema – i corpi, a loro volta, fanno tutt’uno con la parola pronunciata. È evidente però come la teorizzazione pasoliniana non sia del tutto priva di pericoli: tanto per cominciare, come in Platone (a cui Pasolini, per sua stessa ammissione, si è ispirato), la parola si piega a una funzionalità ben precisa, quella di rendere comprensibile e di comunicare un’idea previamente formatasi nella mente dell’autore. Capita allora che la tesi propugnata da Pasolini travalichi i suoi limiti naturali e debordi in una tessitura poetica resa filamentosa e vischiosa dall’assenza di un plot preciso. In questo modo essa non semina il dubbio che lo spettatore dovrebbe risolvere dopo un’estenuante analisi dialettica, ma fornisce invece una situazione più o meno univoca, più o meno consolatoria nella sua prevedibilità. È questo il caso dei drammi meno riusciti di Pasolini, mentre il contrario, per la quantità di stimoli e riflessioni che producono, potrà dirsi invece di testi come Calderón o Affabulazione.
La lotta sempre più aspra (e solitaria) che Pasolini ingaggia contro ogni forma di compromissione con un potere apparentemente laico, libertario e perfino edonistico lo induce a sperimentare in prima persona quel diaframma fra le generazioni e le classi che va ispessendosi benché si cerchi di negarne perfino l’esistenza. È per questo che in una missiva a un immaginario scugnizzo napoletano – il Gennariello delle Lettere luterane – egli avverte in primo luogo che il linguaggio da lui parlato è il linguaggio dell’esclusione, della separazione: “…i tuoi compagni sono, sia ben chiaro, i tuoi veri educatori. Essi sono portatori, inconsapevoli e perciò tanto più prepotenti, di valori assolutamente nuovi, che solo tu e loro vivete. Noi − vostri padri − ne siamo esclusi. Quei valori, anzi, sono intraducibili nel nostro linguaggio. Ma è tuttavia con un linguaggio paterno che cercherò di parlartene. E qui avrò bisogno di una certa tua comprensività o curiosità in qualche modo proprio paterna…”
Il teatro è la sede dove la denuncia di tale esclusione, o divario, si fa più sofferta e vibrante. Pasolini vi oscilla quindi più che altrove fra paternalismo e aperta sovversione, fra parenesi e disperazione, individuando quest’ultima proprio nell’unica forza che ancora può opporsi (perdendo, essendo anzi condannata a perdere) all’ordine dei padri conformisti: la diversità, la riconquista della tradizione non come mera operazione nostalgica, ma come recupero di una genuina interezza perduta nel momento stesso in cui gli individui e le classi sono stati depredati della loro identità. È questo il senso ultimo di Pilade, ma è anche il senso della sterile eresia – non essendovi più spazio né per il conformismo, né per una altrettanto conformistica ribellione – del protagonista Julian in Porcile, o del jeu de massacre inscenato dall’Uomo e dalla Donna in Orgia, o ancora della manifesta, bruciante autobiografia di Bestia da stile, dove la degradazione del mondo circostante è resa con un’intensità d’accenti che sembra non lasciare più scampo. Pasolini si rende conto di non trovare più proprio nella parola, nell’affabulazione, quel fremito vitalistico che essa aveva sempre posseduto.
Ciò non toglie che, fino all’istante della prematura e violenta morte, Pasolini abbia lottato per garantire a sé e agli altri, per un principio anzitutto formale e magari proprio “borghese” di giustizia, la moltiplicazione degli esigui spiragli lasciati alla libera espressione. Con la speranza, dunque, che quel sentimento di estraneità potesse a poco a poco cancellarsi, che la frattura non fosse irrimediabile, ma lasciasse scorgere anche uno stimolo, positivo, verso la ricerca di sé nell’altro da sé e viceversa, o, per tornare ad Affabulazione, del padre nel figlio e del figlio nel padre. E di certo anche con la consapevolezza che la sapienza dei padri di tutte è la migliore, la più disinteressata, ma anche la più inutile; poiché, per dirla con Socrate, essa è “ben misera, assai discutibile, vaga come un sogno…”.