“Antologia personale” di Giampiero Neri
Le parole che restano
È laboriosissima la costruzione poetica dell’autore di Erba. Richiede studio ed esattezza e svela, in questa raccolta antica e nuova insieme, il suo orizzonte poetico fatto di variazioni, rimandi, studiate omissioni, disvelamenti. Tra Natura e Storia
Il lavarello è un pesce d’acqua dolce tra i meno sapidi. Si pesca in abbondanza nelle acque inquinate del Lario ed entra nella cucina di risotti di laboriosa assimilazione che i ristoratori locali servono ai turisti. Tale macchia della gastronomia nelle mani di un poeta può diventare, e se ne è felicemente sorpresi, tutt’altra cosa. Non resta che disporsi all’ascolto:
«Lavarello è il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago. Ha la testa piccola, come di chi deve pensare poco. Ma per la forma si adatta alla profondità. Il colore è bianco argento. Sta nei confini dell’acqua scura, fredda e si suppone pigro e pacifico.
Sul banco del pescivendolo si vede qualche volta, il corpo coronato dal rosso vivo delle branchie».
La voce è qui quella inconfondibile di Giampiero Neri, classe 1927 decano della poesia italiana, e in questo testo tratto dalla sua seconda raccolta (Liceo, 1982, poi confluita nell’importate Teatro Naturale, Mondadori 1998) presenta temi e toni che variamente (e sagacemente) elaborati caratterizzeranno il suo originalissimo percorso. Ne avrà conferma il lettore seguendo le 230 pagine della nuova Antologia personale che il poeta affida a Garzanti (Grandi Libri / poesia, 2022, 18 euro) e alle cure di Alberto Bertoni, autore del denso saggio introduttivo. Va aggiunto che ci troviamo in presenza di un’antologia per così dire a metà, in quanto da pagina 159 in poi è possibile leggere per la prima volta una raccolta affatto nuova, significativamente intitolata Piano d’erba.
Dunque il lavarello, convocato a epitome di un motivo centrale nella visione di Neri, la Natura con le sue leggi e tassonomie, a specchio dell’altro grande motivo, la Storia: entrambe – Natura e Storia – agenti di un mai risolto confronto che elabora affinità e scarti. Di sfondo… Erba, la città natale equidistante tra Como e Lecco alla base di quel triangolo che incunea tra i due rami del lago, tra “ville e villule” di gaddiano sarcasmo. Ed è singolare considerare come Milano, città in cui Neri vive dal 1948, si sia affacciata nelle sue pagine solo di recente, sotto forma di microcosmo (Piazza Libia, Ares 2021). Il suo è un paesaggio di boschi e di superfici lacustri, di antiche torri campanarie care ai vedutisti del XVIII secolo e lacerti di un liberty di smarrito decoro; la modernità vi entra con l’afflato lirico delle superfici bianche e del personale dramma di Giuseppe Terragni, amico del padre del poeta che in più punti, sfumatamente, lo ricorda.
Singolare è la storia poetica di Giampiero Neri, il suo esordio tardivo con l’enigmatico Aspetto occidentale del vestito (Guanda, 1976) cui va l’attenzione di autori della levatura di Raboni e di Giudici, che ne mettono in luce le ascendenze letterarie anche in ragione della prevalenza della prosa sul verso nella sua produzione (di “prosa-poesia” aveva opportunamente parlato Tiziano Rossi) e dunque il Ponge del Parti pris des choses, Campana, e in qualche modo di sfondo lo Spleen di Parigi e le Illuminations. Ma l’elaborazione è come si accennava originale, vi interagiscono profonde conoscenze del mondo naturale con le sue leggi (la forma del lavarello che si adatta ai fondali) e il complicato rapporto che intrattiene con la non sempre rispettabile specie sapiens sapiens che pure a esso mondo afferisce (le tracce di sangue del povero lavarello sul banco del pescivendolo, ma anche la tremenda agonia di una lepre: «un colpo, seguito da un grido che continuava in pianto e in singhiozzi, come di bambino».) Su tale quadro, stretto nelle sue invarianze, si viene in contatto con la Storia e il connesso tema della memoria, funzionale alla “costruzione” del testo. Va detto come la esibita discontinuità della memoria sia alla base di una pronuncia al tempo stesso puntuale ed evasiva che costituisce, per riconoscimento della migliore critica, il fascino e l’enigma della poesia di Neri. Allontanandosi dalla raccolta d’esordio la sua voce tende a una chiarezza espositiva a tratti cristallina che rifugge, come ha ben visto Maurizio Cucchi, tanto dai toni alti quanto dalle secche della colloquialità per farsi classica e quintessenziata. Il suo è un procedimento “a levare” di cui è ironica immagine il giardiniere maldestro che per troppe cure fa avvizzire la pianta: «fai di meno, se vuoi avere di più». Laddove naturalmente il “meno” è da intendere in senso quantitativo, a paventare un eccesso di sali minerali, ché la costruzione poetica di Neri è invece laboriosissima e richiede tutto lo studio che l’esattezza necessita. Un’esattezza non solo matematica: invitato a pronunciarsi su un testo di una comune conoscenza lo scrittore Giuseppe Pontiggia, fratello minore del poeta, lo lodò per poi aggiungere «ma ho taciuto la cosa più importante, che lui non ha un vero rapporto con le parole». Ecco, nella rastremazione del loro disporsi, e per il loro peso specifico, le parole di Giampiero Neri sanno dove condurci e anche quando ci devono lasciare. Sta al lettore, come aveva notato Tiziano Rossi, «colmare i vuoti» e andare in cerca di risonanze nascoste.
Sappiamo come una mai rimarginata ferita, risalente agli anni che videro il Nord Italia lacerto dalla “guerra civile”, sia momento fondante della poesia di Neri, e come la sua affabilità di dettato dia a volte l’impressione di coprire un grido trattenuto. Una “Cartolina del Canton Ticino, Novembre ‘43”, un testo che incanta per la manzoniana malinconia e si colora forse di un’ironia impalpabile nell’ultimo verso, ne costituisce a mio avviso un esempio perspicuo:
Dalla strada
che scendeva al lago
si guardava il paesaggio oltreconfine
nella sua quieta immobilità.
In quella lontananza
la frontiera sembrava scomparire,
trascorreva la linea dei monti
nella pacifica Confederazione.
Davanti al nitore di questa tavola che per certi versi richiama il mistero delle velature leonardesche (ma anche dentro di essa), davanti alla sua bellezza che è sottilmente e dolorosamente antifrastica, la Natura segue il suo corso immutabile e gli uomini si affrontano sordamente, drammaticamente, senza retorica (la Sequenza, sezione del recentissimo Piano d’erba, di questo ancora parla e Neri è buon lettore di Fenoglio). E si tratta di un punto veramente centrale di un orizzonte poetico che si è sviluppato in sessant’anni di scrittura secondo una serie fitta e sottile di variazioni, di rimandi, di ben studiate lacune e omissioni, ma anche di esche e di tracce utili al disvelamento.