A proposito de "Le cattive"
La speranza di Camila
La scrittrice argentina Camila Sosa Villada racconta la storia di una comunità trans. Ma non è un romanzo sulla violenza e la degradazione. Piuttosto una vicenda che apre uno squarcio di vitalità in una comunità di persone che sono quel che vogliono essere
Camila, nome della protagonista de Le cattive di Camila Sosa Villada (Sur, 223 pagine, 16,5 Euro), è una donna che si prostituisce nel Parco Sarmiento a Còrdoba. Lo fa con le sue compagne, un gruppo di donne trans che come lei sfugge alla povertà, alla violenza, alla cattiveria della società, al proprio stesso corpo, il corpo maschile che non voleva. E così il gruppo diventa branco – con membri come Natalì, unica trans che teme la luna piena perché la trasforma in una lupa mannara, pronto a difendersi con le unghie e con i denti dai clienti violenti che desiderano e disprezzano – e diventa famiglia, con la mitica Zia Encarna, che accoglie tutte le sue figlie adottive nella sua casa rosa stordendole di racconti del suo passato che mischiano fiabe e antichi miti. Come la Zia Encarna, anche le sue protette hanno storie tragiche e rocambolesche, un mix di realtà degradante, che le vede tutte costrette ad emanciparsi dalla povertà e dal rifiuto della famiglia d’origine attraverso la prostituzione, e realismo magico, che rende episodi come quello di Marìa la Muta, che si trasforma progressivamente in un uccellino, oggetto della quotidianità.
Il libro è un racconto fatto di tante storie, di episodi intrecciati. Camila Sosa Villada, scrittrice argentina, non condivide con la sua protagonista solo il nome ma anche parte del passato, a cui si è ispirata in questo lavoro di autofiction. La storia presente, che inizia con il ritrovamento di un bambino da parte di Zia Encarna nel Parco, si alterna così a quella passata di Camila, che scappa dalla casa dei suoi e finisce a prostituirsi con le altre ragazze pur di essere la donna che è e non piegarsi alla povertà e alle ristrettezze di vedute del suo luogo d’origine.
Uno stereotipo, si potrebbe dire, quello della prostituta trans sudamericana. È quello che anni di rappresentazione sempre uguale ci hanno insegnato delle donne trans, che finiscono a prostituirsi, che finiscono tragicamente, ed è quello che dice anche il padre di Camila a sua figlia non appena si rende conto che non diventerà il ragazzo che lui pensava di stare allevando. Eppure questo libro non racchiude in sé la storia che ci aspetteremmo, di emarginazione e tragedia, ma una storia di speranza e di legami familiari che non sono quelli che ci sono stati dati alla nascita ma che possiamo costruirci con chi è più simile a noi e ci sostiene. Perché è questo che fanno le trans tra loro e con gli altri emarginati, come gli Uomini senza Testa, reduci da una guerra in un Paese straniero, e con Lo Splendore Degli Occhi, nome con cui battezzano il bambino adottato dalla Zia Encarna, che cresce dotato di una spettacolare empatia verso chi è discriminato. “Essere trans è una festa”, dice a Camila una sua compagna del Parco, e lo pensa davvero: si vede nel battesimo dello Splendore e si vede alla festa di Natale, quando le donne trans si riuniscono e festeggiano senza paura. “Chiunque ci avesse visto non si sarebbe mai immaginato che vivevamo nella totale indigenza, perché eravamo tutte vestite come regine” commenta Camila, e ha ragione, perché sebbene la vita sia difficile e ogni giorno ci sia una tragedia da affrontare – i pestaggi, una compagna morta nello stesso fosso che aveva dato la vita allo Splendore – le donne della sua famiglia per elezione la affrontano con estrema dignità, umorismo e un po’ di follia. Indomite e speranzose.
Ed è proprio l’essere quello che si sentono di essere e non quello che la società ha deciso per loro a dare a Camila e alle altre la forza di andare avanti, in modo senza dubbio inaspettato, ma a volte le soluzioni inaspettate sono le uniche che possiamo prendere. Perché Camila ripercorrendo il suo passato dice “Il desiderio di morire risale all’infanzia, un prematuro fantasma del suicidio con cui convivo fin da bambino. So che è lì, lo identifico con chiarezza, lo distinguo in mezzo a tutti i desideri possibili, ancora senza sapere che me ne libererò quando diventerò trans, che contrariamente a quanto previsto, la salvezza saranno un paio di tacchi e un rossetto color rosa antico”. Quei tacchi e quel rossetto fanno parte di un rituale quasi sacro con cui le trans riescono a tornare quello che si sono sempre sentite di essere, e per quanto questo rito possa essere doloroso è necessario per sopravvivere.
“Non ci piace uscire di giorno perché non ci siamo abituate, perché è impossibile abituarsi alla gabbia delle loro regole. Meglio restare a letto, chiuse nelle nostre stanze, a guardare telenovelas o a non fare nulla. Non fare nulla durante il giorno, cancellarsi dalla mappa della produzione, ecco cosa facciamo”. Sosa Villada critica così la società che ha prodotto anche il capitalismo e le differenze di classe. Una società che desidera le prostitute e poi cerca di sradicarle, in un meccanismo di continua ricerca e negazione, che manda uomini in guerra anche a costo di fargli perdere la testa. Una società che crea mostri, e chiama mostri quelli che pagano il prezzo di essere diversi, e dà ad alcuni, come alle Sorelle Corvo, la possibilità di scegliere ipocritamente di essere uomini di giorno e donne di notte, di rubare i clienti alle prostitute senza farsi pagare, perché loro i soldi ce li hanno e vogliono solo sentire il brivido che le altre, nate povere, sono costrette a vivere anche quando non vorrebbero.
E questo è uguale ovunque, anche in Paesi meno poveri, ed è quello che rende universale nella sua esperienza particolare questo libro coloratissimo e ricco di magia. Camila Sosa Villada qualche volta esagera nei suoi interventi all’interno della storia facendoci sentire un po’ troppo l’autrice, che sovrasta anche le protagoniste, ma non possiamo comunque smettere di immedesimarci nelle donne del Parco, nella loro lotta quotidiana e nella loro incredibile forza vitale. Le trans del Parco ci insegnano che non solo essere trans, ma l’intera esistenza può essere una festa, e anche nei percorsi più accidentati si possono vedere inaspettati squarci di meraviglia.