Isabella Savoia
Una storia drammatica

Storia di Edoardo

«Azzurro, il mio colore preferito, o forse quello che odio di più, sicuramente quello che più ho visto in assoluto, il colore del fondale della piscina...»

Mi chiamo Edoardo, ho quattordici anni, non mangio le caramelle e ho appena aperto gli occhi dopo due giorni di coma. Un centimetro di sangue mi tiene incrostato al letto dell’ospedale, a fatica riesco a muovere braccia e dita per poter scrivere. Dal momento in cui ho aperto gli occhi, inalato un forte respiro e capito che il mio primo tentativo di suicidio non è andato a buon fine, ho sentito un bisogno improvviso, fortissimo, di urlare al mondo intero tutto quello che mi è successo. Ero sicuro che otto metri di volo nel vuoto bastassero. Qualcuno, non ricordo chi, mi ha detto che qualche anno fa un uomo di mezza età, preso dalla disperazione per aver perso il lavoro, ci era riuscito. Con me non è andata così, eppure il ponte era lo stesso. Sarà perché io faccio nuoto.

Non ci è voluto molto prima che mi decidessi a farlo, ero sicuro, convinto di voler farla finita, eppure quando sono arrivato li, in piedi sul muretto, con le scarpe a un centimetro dal vuoto non ho avuto il coraggio di guardare giù. Ho pensato che girandomi avrei sentito meno la paura così mi sono voltato e mi sono lanciato di schiena, senza pensarci troppo. Volevo riempire per l’ultima volta i miei occhi di azzurro del cielo, lo stesso cielo che in questo momento intravedo a malapena tra le tendine della stanza in cui mi sono svegliato.

Azzurro, il mio colore preferito, o forse quello che odio di più, sicuramente quello che più ho visto in assoluto, il colore del fondale della piscina.

Mamma ci ha lanciati in acqua a due anni, sia me che a Marghe, a cinque in pre-agonistica e a sei in agonistica. Avanti, in dietro, avanti e in dietro, tutti i giorni, dal lunedì alla domenica, dalla domenica al lunedì, sempre. Al perchè lo facessi non saprei rispondere, al se mi piacesse; nemmeno. Ero semplicemente obbligato.

Casa era un posto sicuro, ero protetto, nessun mi poteva toccare. Sono cresciuto con queste sensazioni.

Mamma non ci ha mai fatto mancare nulla, è stata come una lupa con i suoi lupacchiotti, ci ha protetto cercando di svelarci il marcio del mondo il più tardi possibile. Non solo mamma ha reso la nostra infanzia dolce come una caramella, ma anche tutti i nostri parenti. Ho avuto la fortuna di crescere insieme a tutti e quattro i miei nonni e zii compresi. Ai pranzi di Natale e alle cene in famiglia io e mia sorella Margherita eravamo sempre al centro dell’attenzione, coccolati e ascoltati da tutti.

Ogni giorno alla sera mi addormentavo con la favola della mamma e se per qualsiasi motivo non riuscivo a chiudere gli occhi, lei passava a controllarmi ogni dieci minuti dandomi una carezza sul viso e un bacio in fronte.

Il mercoledì era il giorno della cena dai nonni, si partiva intorno alle diciannove con l’auto della mamma, si percorrevano circa dieci o quindici minuti di strada e si arrivava li, dove mamma ci lasciava nelle mani dei nonni. Nonna ci faceva trovare ogni ben di dio, pasta al forno, lasagne, pizza, torta di mele, crostate e tutte le cose che più ci piacevano. Per ogni viaggio di ritorno nonna ci raccontava una storia diversa e io mi chiedevo come facesse a conoscerne così tante. Si che lei lavorava a scuola, quindi era abituata a stare con i bambini e poteva essere normale che ne conoscesse parecchie, ma così tante, ecco così tante non me lo spiegavo.

Ho capito molti anni dopo, che in realtà le inventava sul momento e che brava che era a farle finire proprio nel momento in cui nonno parcheggiava sotto casa nostra.

Ogni giorno della mia vita era uguale a quello precedente e già sapevo che sarebbe stato uguale a quello successivo. Mi alzavo la mattina, papà ci portava scuola, alle tredici ci veniva a prendere e alle quattordici si entrava in acqua. Nuotavo da sempre, non ero mai riuscito a liberarmi di quell’ambiente, io e mia sorella Margherita conoscevamo tutti li dentro, bambini, allenatori, genitori, tutti quanti, ormai eravamo di casa.

Sentivo si essere una delusione agli occhi spenti di mio padre, avrebbe voluto un maschio forte e coraggioso, proprio come lo era stato lui, amante degli sport estremi, nato e cresciuto con i piedi negli scarponi e il verde della montagna attorno.

La vita gli era stretta, soffocante, doveva costantemente evadere da tutto e tutti, sentirsi libero di fare e di pensare, anzi a volte di non pensare nemmeno.

Appeso alle corde a 2500 m di altezza, con le mani congelate e uno strapiombo sotto di lui si sentiva leggero. Liberava la testa dal corpo, comandava il corpo, si imponeva definitivamente sulla mente. Solo in quei momenti si sentiva completamente vivo.

Il desiderio che quegli attimi non finissero mai lo spingevano a volerne ancora e ancora, sempre di più, così che ogni weekend lasciava la città per rifugiarsi sulla pendice di qualche monte non troppo distante, con piccone e ramponi incastonati in qualche parete ghiacciata o legato alle settili corde del parapendio gironzolante nel cielo.

Io, figlio primogenito maschio, al terzo gradino di una scala sento girare la testa.

Da quando sono nato le occasioni per evadere di mio padre sono sempre state meno.

Un pomeriggio di Marzo, sopra la testa di mia madre che mi allattava, seduta in una chiazza d’erba che si faceva spazio nel bosco, il parapendio di mio padre non ne voleva sapere di aprirsi.

Precipitò dopo vari tentativi di manovra per cercare di spalancarlo, dentro un pino e ne uscì miracolosamente quasi in leso. In pochi secondi la gita di famiglia della domenica si tramutò in un orribile incubo.

La corsa in ospedale, le urla di mio zio, il braccio che fuoriusciva sanguinante dalla tuta strappata. Un attimo che bloccò il tempo, uno spartitraffico nella sua vita che da quel momento si capovolse e cambiò completamente.

Era sopravvissuto, si era sopravvissuto ma gli si erano pezzate le ali.

Da quel giorno fu evidente come il suo dovere di padre era più importante delle sue evasioni pericolose nelle quali rischiava la vita.

Ora il compito spettava a me, avrei dovuto portare avanti il suo desiderio, renderlo orgoglioso, scalare ogni singola cima di ogni montagna e sfiorare ogni singola nuvola nell’azzurro del cielo. Liberarmi della testa così come solo lui riusciva a fare.

Io, figlio primogenito maschio, al terzo gradino di una scala sento girare la testa.

Per mia madre era diverso, era tutto perfettamente in ordine, come in un cassetto della cucina, ogni posata nel suo scompartimento; i cucchiai con i cucchiai, le forchette con le forchette,. Così era la vita di mia madre: in ordine, tutto al posto giusto.

Mai un brutto voto, pagelle da far invidia, mai una nota o un richiamo. Una carriera incredibile dalla scuola dell’infanzia alle sue due lauree. Un brava moglie in una piccola e graziosa famiglia che la rendeva mamma, donna, psicologa. Realizzata.

Mia mamma si era accorta della depressione di mio padre e cercava in ogni modo di aiutarlo in quella vita apparentemente perfetta che lei vedeva, mostrandogli come tutte le cose fossero nel posto e nel momento giusto. Non si rendeva conto che lo stava portando in fondo a quel tunnel che sempre di più si stringeva intorno a lui.

Il periodo delle feste natalizie era il peggiore, il culmine arrivava ai pranzi e alle cene con i parenti, letteralmente soffocanti sia per lui che per tutta la famiglia. Non si faceva problemi a mostrare il suo disagio. Infatti spesse volte rispondeva male e si scontrava con mia zia Isabella, da sempre cane e gatto loro due, uno scontro dopo l’altro, in continuazione. Lo si vedeva dai suoi occhi che era in gabbia, un uccello con le ali spezzate, stretto, legato. Respiravi la sua sofferenza. Eppure io non riuscivo proprio a capire come potesse non essere entusiasta in quei momenti. Regali, dolci, cibi prelibati.

In piscina le vacanze natalizie erano le peggiori dell’anno, il periodo di carico, setto o otto km al giorno tutti i giorni, con allenamenti sfiancanti, l’acqua gelata e il buio fuori dalle finestre.

Al perché lo facessi non saprei rispondere, al se mi piacesse; nemmeno. Ero semplicemente obbligato.

L’unica cosa positiva era la mattina della Vigilia, ogni anno Massimo, il nostro allenatore organizzava una partita di pallanuoto con tanto di brindisi e panettoni sul finale. A quella giornata partecipavano sempre tutti, dai più piccoli ai più grandi. Puntualmente finivo nella squadra degli sfigati e perdevo.

Da buon adolescente almeno una volta all’anno frantumavo il telefono per terra.

Avevo appena spaccato il telefono di quell’anno e stavo frugando in quello che mio padre mi aveva prestato temporaneamente.

Una pioggia ghiacciata sulla testa, contemporaneamente bollente, un brivido lungo il corpo, una scarica elettrica, una pugnalata nella pancia e un colpo di fucile in piena testa mi colpirono.

Nella cartella dei messaggi archiviati di mio padre c’era un messaggio da Elena: “i tuoi baci sono come le caramelle, uno tira l’altro farei l’amore con te per tutta la notte”

Elena, una decina d’anni in più di me, faceva parte dei grandi, una di quelle che ogni anno vinceva la partita di pallanuoto.

Non poteva essere, non ci potevo credere, strinsi gli occhi per leggere di nuovo.

Da Elena: “i tuoi baci sono come le caramelle, uno tira l’altro farei l’amore con te per tutta la notte”. Per quanto fossi sul punto di esplodere e urlare in pieno pomeriggio, pensai a Marghe.

“Devo stare zitto, tenermi tutto dentro, non far passare nemmeno una singola espressione di disagio sul volto, camuffare fino alla morte. Non deve sapere. È troppo piccola per reggere e sopportare un trauma così grande.”

Nemmeno avevo finito di pensarlo che un attacco di panico mi bucò il petto.

L’ansia mi portò con il telefono alla mano da mia mamma che lesse in silenzio, anche io ero in silenzio, nessuno dei due una parola, silenzio, solo silenzio. Il silenzio più assordante di tutti i silenzi.

Camuffai il mio disagio giorno per giorno.

Non mi feci mai più toccare da mio padre, dalle mani che vedevo sporche come quelle di un meccanico a fine turno. Ne sentivo l’odore di catrame da lontano e ne vedevo l’unto del grasso dell’olio di motore salire fino ai polsi.

Ogni carezza o bacio che dava a Marghe era un nodo che mi si contorceva nello stomaco.

Lei, così piccola, così pura, doveva essere tenuta al riparo e spettava soltanto a me riuscire a non far passare nulla.

Mi sentivo come quando si trattiene il respiro. Pronto a resistere il più tempo possibile con i polmoni pieni di ossigeno e le guance gonfie dall’aria. Io che nuotavo ero anche allenato. Dovevo farlo, sapevo farlo. Era forse l’unica cosa che sapevo fare; trattenere il respiro, sott’acqua.

Al telefono frantumato dell’anno successivo, questa volta me lo feci rigorosamente prestare da mia mamma. Non volevo nemmeno sfiorarlo quello di mio padre, anzi nemmeno vederlo. Solo la vista di disgustava, figuriamoci tutto il resto.

Un’altra pioggia ghiacciata sulla testa, contemporaneamente bollente, un brivido lungo il corpo, una scarica elettrica, una pugnalata nella pancia e un colpo di fucile in piena testa.

Messaggio da Massimo, il mio allenatore, sul telefono di mia madre: “alleno fino alle diciannove, poi ti porto a cena amore mio”.

Il respiro che con fatica avevo trattenuto per circa un anno esplose in un getto di aria e saliva. Nello shock ripensai al silenzio di mia madre un’anno prima. Improvvisamente mi fu chiaro. Aveva semplicemente incassato il colpo e reagito di conseguenza.

Sentivo sotto di me, crollare uno ad uno i pilastri fondamentali che fino a quel momento mi avevano retto; amore, amicizia, fiducia, lealtà. Nella caduta agitavo le braccia verso l’alto cercando con le mani un appiglio, un qualcosa a cui aggrapparmi. Ma nulla. Sprofondai.

Ora l’unica cosa che volessi, era che il mio respiro, quello che tanto avevo trattenuto, cessasse per sempre.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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