Su “Il colore del tuo sangue”
Un’altra Greta Scacchi
Nel nuovo romanzo di Paolo Restuccia la protagonista, Greta Scacchi, come l'attrice, è una film maker che guarda con gli occhi del cinema. Perché l'unica possibilità che ci rimane è quella di conoscere attraverso un obiettivo
Paolo Restuccia, timoniere del popolare programma di RaiRadioDue Il Ruggito del Coniglio condotto da Dose e Presta, e di Genius, scuola di scrittura, torna in libreria con Il colore del tuo sangue, (pagine 272, €17, Arkadia/SideKar) un noir, dopo aver debuttato in questo genere con La strategia del tango (Gaffi, 2014) e con Io sono Kurt (Fazi, 2016), seguiti a una manciata di altri libri, tra traduzioni e collazioni, sulle tecniche della scrittura.
La protagonista del nuovo romanzo si chiama Greta Scacchi, come l’attrice, in auge soprattutto negli anni Ottanta e Novanta. La Greta Scacchi del romanzo è una film-maker e la sua conoscenza della realtà passa sempre attraverso un obiettivo e un’inquadratura in cui per caso può capitare che resti intrappolato il documento, all’inizio molto oscuro e poi faticosamente svelato, di un mistero o di un fatto delittuoso, che però chiede d’esser guardato meglio. Così come meglio anche se per pochi tocchi è scrutatp il setting del romanzo, perlopiù centrato nel quartiere Esquilino, con qualche spostamento nei dintorni della Caffarella. Una Roma afosa, agostana, bollente, rovente.
Ecco, il senso di questo romanzo è proprio nel nodo che, mentre impone si proceda per scioglierlo, è in effetti IL problema, lo definirei conoscitivo, o se si vuole valutativo, che cerca di sospingere verso una più reale comprensione. Non si tratta solo o tanto di andare più in profondità ma di guardare più volte e rilevare dettagli minimi che, per quanto sottili, introducano nella valutazione corretta del quadro veri e propri capovolgimenti. Dopo, nulla sarà uguale, cioè tutto sarà diverso, però resterà opaco. La “pioggia” di dati contraddittori e oscuri non aiutano a fare chiarezza. L’eccesso di notizie, il caos delle informazioni, non coincidono con una miglior dotazione per l’identificazione della o delle verità, ma costituiscono una fitta complicazione, rafforzano il velo di Maya, opacizzano la lente.
D’altra parte l’angolo visuale, l’inclinazione dello sguardo, da cui tutto è riportato, è l’altro elemento fondante nella scrittura del romanzo di Paolo Restuccia, che, a libro letto, ci permette di inquadrare meglio il senso del titolo, la funzione di quel “tuo”. Capiamo cioè che tutta la storia è proiettata assecondando il punto di vista della protagonista da parte di un narratore che non deflette mai da questa specifica angolatura, come se intrattenesse con la “sua” protagonista un rapporto di verità speciale, e da questo desumiamo che, a dispetto della presenza del sintagma il colore del tuo sangue tra le battute di uno dei dialoghi finali da cui sarebbe tratto, l’uso di quel “tuo” è proprio il narratore a farlo verso lei, verso Greta, la “sua” protagonista. Sono poi continui gli inserti in corsivo in cui sentiamo soprattutto il ruminare del pensiero di lei, il commento di Greta a ciò che le accade intorno; e, sempre in corsivo, troviamo la trascrizione di una serie di soggetti per il cinema che la “nostra” non fa che ideare in vista di un esame per accedere alla formazione cinematografica. La sua “lettura” della realtà, dunque, ancorché intuitiva, è spesso “compositiva”: tutto ciò che le accade nutre in Greta una fervida formulazione di storie che naturaliter sono immaginate già pronte per tradursi in immagini.
Dicevamo della protagonista: Greta Scacchi. A un certo punto, stretta dalla necessità, si spaccerà per Marina Suma, anche lei attrice relativamente nota: chi non la ricorda in Cuori nella tormenta, film di e con Carlo Verdone in cui figurava anche Lello Arena in veste di spalla al comico romano? Del resto nel libro l’investigatore, un funzionario di polizia piuttosto ambiguo, ha all’incirca i tratti del Gian Maria Volonté di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, film del 1970 di Elio Petri.
Era dai tempi di Per Dove Parte Questo Treno Allegro (esordio di Sandro Veronesi nel 1988 presso Theoria) che non leggevo un romanzo in cui si assume, come metodo di suggestione e sistema di scrittura, la “sostituzione” iconografica dei personaggi e dei loro gesti o delle loro parole con quel pozzo inesauribile di suggestioni collettive pescate nel cinema nella letteratura nella musica, cioè da quel patrimonio di storie e narrazioni che in epoca moderna condividiamo come bacino comune del nostro comune immaginario. Il fatto che in fondo al libro questo immenso patrimonio visivo sia ricapitolato con precisione (sciogliendo ogni dubbio in noi lettori che però via via molto abbiamo riconosciuto) ne è la conferma. Una forma di “trattenimento”. Il trovarsi amabile in uno spazio di confidenza che lo scrittore riesce a evocare per dare un luogo sostanzialmente fisico al rapporto col lettore. Una corrispondenza d’amorosi sensi in cui tra scrittore e lettore trascorre l’intimità della condivisione di una storia e di una relazione con la folla che li accomuna che sono i personaggi.
Nel romanzo, la ricapitolazione risulta essere un sistema ricorrente nella conduzione dello sviluppo: un continuo “fare il punto” che da un lato è il segno della difficoltà per la protagonista a reggere la portata di ciò che le accade e di cui si trova a essere testimone, dall’altro lato obbedisce alle esigenze del “genere”.
Ci sono due punti precisi in cui, allo scorrere lungo e più o meno tranquillo di questa trama noir in cui come è d’uopo fioccano (apparentemente) due omicidi, si contrappone un cambio di marcia che sollecita una vertiginosa accelerazione: più o meno un po’ prima della metà e poi nelle sequenze che precedono il lungo scioglimento finale. Prevale però la visione “pulita” della protagonista che non si mescola con la fauna che le ruota attorno: glielo dice un’altra figura, angelica e ambigua, Anissa, che le fa notare come nulla di tutte le sciagure disavventure e peripezie abbattutesi su Greta sia riuscito a cambiarla. Greta attraversa l’inferno, o forse solo la sua miserabile anticamera, senza esserne scalfita nella sostanza, salvo esserlo fisicamente.
Si pone dunque un tema che può apparire secondario ai fatti che nutrono la trama noir ma al fondo pare essere il vero terreno di indagine del libro: la conoscenza visiva della realtà e la sua esatta valutazione.
Guardare il mondo da un obiettivo, che sia la videocam del cellulare o un vero e proprio strumento video cioè una vera tele/cine camera, non è solo il filtro che tendiamo a interporre tra noi e ciò in cui inciampiamo. È proprio un metodo di avvicinamento/allontanamento dalla famosa verità. Il fatto che ci dotiamo di qualcosa che ci aiuti a capire conferma che capiamo molto poco e capiremmo poco comunque.
Non basta guardare. È l’elaborazione il trucco. È lasciar decantare. È allargare o stringere l’inquadratura e riuscire a “leggere il testo” per collocare in modo efficace i suoi elementi e come si leghino tra di loro. E sapere dipende anche dal non sapere. È l’antica storia della conoscenza.
È talmente urgente questo tema per l’autore, che ha una lunga militanza radiofonica ai microfoni di trasmissioni, anni fa, come Chiamate Roma 3131, che capiamo esser questa la vera ragione per cui in fondo al libro troviamo le numerose pagine di ricapitolazione di tutto il cinema e la letteratura e la musica citati sottotraccia, e, ancor più in fondo, la nutrita pagina dei ringraziamenti: tutto questo è il chiaro segno (vagamente coleridgiano) del libro che non vuol smettere di finire, del narratore che non vuol lasciar andare il lettore: uno che ha la sua vita ordinaria a cui dedicarsi e viene trattenuto per un braccio e invocato ad ascoltare – come fa il vecchio marinaio con l’invitato al matrimonio…
Intendiamoci. Si tratta di un noir. Ma la fine tessitura della pagina lascia trapelare una osservazione anche sapientemente antropologica delle figure che vi si muovono.