Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Nostro calcio malato

Le società fanno finta che il Covid non esista e intanto chiedono soldi allo Stato. Eppure il crac del calcio ha radici lontane, prima della pandemia. Ed è fatto di cattiva gestione, bilanci in rosso e opacità contabili. Ma nessuno vuole cercare soluzioni

La domanda è una sola: vale ancora la pena seguire questo calcio sgangherato, arrogante, improbabile? E dare credito ad una enclave che si considera al di sopra delle leggi e delle norme dello Stato, che non si dà una regolata e che piagnucola risarcimenti senza cambiare mai, un mondo che continua a vantarsi di essere la terza o quarta “industria” d’Italia ed invece era già pieno di cambiali prima che arrivasse il Covid?

I giorni attorno alla Befana sono stati esilaranti, una farsa, una commedia all’italiana. Tanto che è dovuto intervenire Draghi – ma forse il governo avrebbe dovuto farsi sentire già prima – e dire ai presidenti dei club: datevi una calmata, altrimenti io chiudo tutto. Sennonché la Lega calcio ha trovato l’escamotage di ridurre a 5000 spettatori la presenza del pubblico negli stadi della Serie A. Ma soltanto per un paio di giornate.

Il nostro calcio non è nuovo a questi atteggiamenti. Mentre tutto il Paese contava i morti, i presidenti dei club mal digerivano le restrizioni e le partite senza pubblico: è accaduto durante la scorsa stagione con l’esplodere della pandemia e senza che vi fossero i vaccini. Succede anche adesso. Quando è stato dato il via libera alla parziale riapertura degli impianti, nessuno che si impegnasse a far rispettare le regole: distanza tra gli spettatori e mascherine (e tutti con il green pass?). In mezzo, la vittoria europea degli azzurri, le sfilate trionfali irresponsabili e scacciapensieri. D’altra parte, dentro altri stadi europei si è visto anche di peggio.

In queste settimane si è perso del tempo prezioso ad allestire contromisure efficaci contro la variante Omicron (anche al di fuori del calcio, per la verità) e si è fatto finta che tutto procedeva come nella scorsa estate. Il motto dei Signori del Pallone è rimasto invariato: andare avanti ad ogni costo, show must go on. In Inghilterra se le squadre hanno un certo numero di positivi, le partite non si giocano e vengono rinviate. Da queste parti invece no, l’integrità del calendario innanzitutto, non c’è spazio per i recuperi, la Serie A è un insaccato che nemmeno la migliore mortadella bolognese, venti squadre sono troppe, tutti lo dicono ma poi gli scenari non cambiano. E tutti i tornei, le coppe e le coppette internazionali non fanno che abbuffare la rana. Che prima o poi scoppierà.

La comica italiana, dunque: negli spogliatoi arriva una sola squadra, l’arbitro aspetta 45 minuti che l’altra squadra (che ha una decina di calciatori contagiati e che ha il divieto di muoversi dalla Asl), passi da lui per dire eccoci qua, signor arbitro, prenda nota dei cartellini. Ma questo non può succedere, l’altra squadra non c’è. Nel frattempo, gli altri, “i sani”, scendono in campo, l’arbitro constata che la partita non si può giocare e redige un verbale che invia ai cosiddetti organi competenti. Interviene il giudice sportivo, dà partita persa ai “malati” e poi partono ricorsi e controricorsi. Questa volta, nella calza della Befana, non c’è stato il carbone, i 3-0 a tavolino, il giudice sportivo ha preso tempo per vedere l’effetto che fa. Sono scesi in campo anche i vari Tar contro le Asl in una nuova partita che non ha fatto altro che aumentare la confusione. 

Il caos regna sotto il cielo del calcio. La parità sportiva è una formulazione accademica. C’è la guerra dei protocolli, la Lega contro le Aziende Sanitarie e queste ultime costrette a difendersi per aver fatto rispettare, più o meno confusamente e a volte in maniera contraddittoria, le norme contro la diffusione del Covid. Draghi che telefona al presidente della Federcalcio Gravina, gli impone l’aut aut, attenti che chiudiamo gli stadi, Gravina parla con Dal Pino, presidente della Lega, uno che gode di buona stampa. E allora sai che c’è? Noi facciamo entrare negli stadi soltanto 5000 persone così la smettete di rompere e vediamo se chiudete gli stadi. A fianco dei club si è schierato il più antico quotidiano sportivo italiano, La Gazzetta dello Sport, che ha accusato il governo di voler assumere decisioni vessatorie. Il direttore Stefano Barigelli ha scritto: «Chiudere gli stadi al pubblico è un errore, fermare il calcio una follia. Se giustamente restano aperti negozi, centri commerciali, cinema e teatri, pure con le comprensibili restrizioni, non si capisce perché dovrebbe rimettere i lucchetti il calcio che, ricordiamolo, accoglie solo spettatori con il green pass rafforzato. Una contraddizione incomprensibile che avrebbe il sapore di una punizione ne confronti di un’industria percepita come un gioco». E Matteo Bassetti, star televisiva e primario al San Martino di Genova, ha detto allo stesso giornale che ridurre gli spettatori è un errore: «Che messaggio si dà ai tifosi vaccinati? Serviva piuttosto alzare il livello di controllo su mascherine e distanziamento».

Varrà forse la pena ricordare che quando scoppiò la pandemia la Federazione dei Medici sportivi propose alla Lega un protocollo, delle bolle sanitarie e un coordinamento. E tamponi gestiti da aziende esterne. La Serie A rifiutò e preferì fare da sola. I risultati si sono visti. Adesso in questi giorni di nuovo difficili per tutto il Paese governo, Regioni, Lega e Federcalcio si metteranno attorno ad un tavolo per cercare di trovare meccanismi e protocolli meno complicati e più efficaci per andare avanti.

Il Covid ha assestato un bel colpo ad un’industria gravemente ammalata. L’impatto del calcio italiano sul Pil è diminuito del 18% nel periodo della pandemia, si è letto in un articolo di Marco Bellinazzo sul Sole-24 Ore delloscorso dicembre. Ilcalcio ha perso oltre il 23% dei tesserati, cioè 245 mila giocatori in meno. Lo dice il bilancio integrato 2020 della Federazione. Una valanga gli spettatori potenziali smarriti nello stesso periodo da tutto il calcio professionistico a causa della chiusura degli stadi: oltre 22,1 milioni.  «La pandemia di Covid 19 ha portato il sistema calcio ad avere un impatto indiretto sul Pil pari a 8,2 milioni di euro contro i 10,1 del 2019… I ricavi della biglietteria si sono azzerati rispetto agli 1,9 milioni del 2019… I diritti tv hanno portato in cassa 26,4 milioni contro i 32,6 milioni del 2019». Bisogna aggiungere che nel biennio 2018-19 la perdita totale era stata già di 412 milioni, mentre nel 2019-20 il “rosso” era arrivato agli 878 milioni. Annotare che negli ultimi cinque anni pre-Covid i ricavi mancati nel calcio professionistico ammontavano a 1,3 miliardi di euro, che erano quasi 82 milioni i biglietti invenduti, gli stadi già si andavano svuotando, la Serie A non superava il 63% di spettatori, a fronte del 95% della Premier League e dell’89% della Bundesliga.

Siamo sull’orlo del crac. E come se non bastassero i conti in dissesto, questo «asset strategico del Sistema Paese» come amano dire i padroni del calcio, è sotto la lente di ingrandimento di molte Procure italiane con il gioco delle tre carte delle plusvalenze: la Juve è sotto inchiesta; l’Inter ha ricevuto la visita poco gradita della Guardia di Finanza; il Napoli, pare, abbia barato per l’acquisto di Victor Osimhen preso dal Lilla nel 2020 per un prezzo dichiarato di oltre 81 milioni ma che, secondo l’Équipe, il prestigioso quotidiano sportivo francese, sarebbe costato molto di meno: circa 36 milioni (e dietro ci sarebbero valutazioni ipergonfiate di giovani calciatori mai trasferitisi oltralpe). I conti dei singoli club vanno malissimo: i campioni d’Italia dell’Inter hanno uno sprofondo di 245 milioni, la Juve di 200 e persino il Napoli, che pure è tra le società più virtuose economicamente parlando sotto la bacchetta di De Laurentiis, ha chiuso il 2021 con un deficit che sfiora i 59 milioni. I maggiori club europei, ad eccezione del Barcellona, sono quasi tutti in attivo. Certo, a volte, godono anche di denaro che arriva da fondi di governi e dinastie che hanno le mani sporche. Ma nessuno, o solo pochi, denunciano queste scelleratezze.

In un panorama che cambia di continuo a seconda dei contagi, al momento gli stadi sono stati chiusi in Germania, in Francia non entrano più di 5000 persone, anche la Spagna ha fatto marcia indietro e con la risalita dei contagi ha ridotto capienze degli impianti del calcio (75%) e dei palazzetti (50%). Non ci sono state proteste, né minacce dei dirigenti. La sola Inghilterra continua a mantenere la linea morbida, anzi morbidissima: Old Trafford, Anfield, Emirates Stadium e gli altri catini della Premier possono riempirsi a patto che gli spettatori presentino una specie di green pass all’ingresso oppure un test antigenico e si registrino sul sito del club. Niente mascherina sugli spalti ma solo nei locali chiusi dell’impianto. E dappertutto le squadre sono un cluster a cielo aperto. Il virus è anche una questione politica: si veda la sconcertante vicenda Djokovic.

Il nostro calcio ha le pezze al culo però invoca ristori ed agevolazioni: poi si scopre che nell’ultima Finanziaria, approvata a Natale, sono state rinviate le scadenze fiscali. Che il Decreto Crescita, in vigore dal 2019, favorisce l’acquisto di calciatori stranieri perché si pagano la metà delle imposte. Ed infatti tutti a prendere giocatori oltre confine, poche società puntano su manodopera locale, diciamo così: non conviene.

C’è un misto di effettive difficoltà, di dilettantismo e di imbrogli nel business della Serie A. Ma drammatica è la sorte di tanti altri sport. Sta di fatto che la passione verso il pallone continua a scemare. Negli stadi e nei salotti di casa la gente ha altro a cui pensare. E non solo a causa del virus maledetto. È la credibilità del calcio che si sta sgretolando di anno in anno. Persino la vittoria all’Europeo degli azzurri di Mancini è stata sfruttata male, considerato anche che rischiamo di non andare nuovamente al Mondiale. Le cifre parlano in maniera cruda: 16.500 spettatori in media a partita. Neanche si conosce bene l’audience televisiva ma certo il buffering di Dazn non ha aiutato, si sa che gli ascolti sono in calo. Sky s’è buttata sul tennis, il basket, la Premier League e su altri sport. Forse stiamo assistendo ad una trasformazione radicale dei gusti, le vittorie olimpiche in altri sport che sembrano meno inquinati hanno dato uno scossone anche da questo punto di vista. Chissà.

Resta la domanda iniziale: vale la pena continuare ad appassionarsi per questo pallone? Forse la risposta l’ha data domenica sera un dirigente di lungo corso, Pierpaolo Marino, direttore tecnico dell’Udinese, che ha perso 6-2 in casa con l’Atalanta giocando con seconde e terze file: «Come si fa a commentare questa partita? È stato un martirio. Siamo stati costretti a radunarci stamani come un torneo da bar. Alcuni non si allenavano da settimane, in panchina avevamo tanti primavera anche loro fermi da tanto. Perché questo accanimento per farci giocare? Si dice che si vuole salvare lo spettacolo, ma che spettacolo c’è stato oggi?».

Il virus non è uguale per tutti, anche nel calcio.

Facebooktwitterlinkedin