Domenico Calcaterra
Su “L’invenzione degli italiani”

Lezione di Cuore

Nel saggio di Marcello Fois, il celebre (ma oggi dimenticato) libro di Edmondo De Amicis ci appare sempre di più come un catechismo laico per la formazione dei "nuovi italiani". E proprio la sua vocazione didattica ha finito per allontanarlo dalla nostra sensibilità

Vorrà dire qualcosa se i libri fondativi e più popolari del nostro Ottocento, come tratto comune, possiedono una più o meno dichiarata giustificazione antropologica e insieme pedagogica. Penso al magnifico ingranaggio dei Promessi sposi, in cui tutto accade e viene determinato senza passi falsi o tentennamenti di sorta; penso al Pinocchio riveduto (diversa la storia del ben più ambiguo e inquietante nucleo originario del romanzo collodiano del 1881); penso all’oramai considerato illeggibile libro Cuore di De Amicis, che pure ha avuto un ruolo notevole nella formazione scolastica di tanti italiani. E se la lezione di Manzoni resiste come può nello studio a scuola, se Pinocchio non ha mai smesso di attrarre e si dimostra assai vivo nell’orizzonte di filosofi e scrittori (bastino i libri di Agamben e l’annunciato Contro Pinocchio di Picca), è Cuore, il più pedagogico in assoluto, ad aver conosciuto, negli anni, una fortuna (anche in ambito scolastico) sempre più calante, per quella programmatica e melensa cifra buonista che lo caratterizza. Eppure, non c’è libro che in maniera più stringente fornisca un’idea così concreta della scuola come potenziale territorio di cittadinanza.

Queste e altre considerazioni mi sono suggerite da L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore di Marcello Fois (Einaudi, 2021) in cui l’opera viene analizzata nella sua natura di perfetto congegno che doveva servire, nella mentalità dell’autore, ancora una volta a ‘fare gli italiani’. La Nazione giovane, malfatta, strappata, viene portata in classe, laddove l’esperimento di De Amicis ha il suo puro eroe nella figura del maestro Perboni, chiamato a incarnare l’utopia d’un destino nazionale, l’imprinting d’una società nuova cui tendere. Fois, insomma, mira al nucleo diretto, da «decalogo a costo zero», che De Amicis declina e articola nel suo libro più celebre. Nella combinatoria di ingredienti e motivi che per così dire animano i racconti di vita di Cuore, nulla è superfluo, tutto è anzi estremamente funzionale allo scopo di contrabbandare una tensione utopica che avrebbe dovuto informare la realtà (assai lontana dal ritratto offertone dallo scrittore di Oneglia). Il terreno rimane ancora una volta quello, sdrucciolevole, dell’autobiografia della Nazione: per quanto agisca da formidabile meccanismo, la migliore pubblicità progresso che sia mai stata concepita per il nostro Paese, legando indissolubilmente prodotto e claim – ‘italiani’ e ‘brava gente’–, Fois ci mette innanzi al paradosso per cui «lo stesso sistema che ci ha, anche sotterraneamente, uniformato, protetto con una cortina giustificatoria e consolatoria, è anche quello che ci ricorda che avremmo potuto essere e invece non siamo».

Si tratta di un dispositivo assimilabile, in pittura, al Quarto stato di Pellizza da Volpedo – «la proposta di una nuova, inedita, frontale, concordia sociale» – a ricercare il risultato, solo in apparenza spontaneo, di perseguire un’idea netta; quell’«idea parlante» cui faceva riferimento per il suo dipinto senza dubbio più iconico proprio Pellizza. Cuore, dunque, come creazione cosciente di un mondo di segno negato, rispetto al nostro: sorta di eterocosmo evocato sulla pagina; l’altra metà del cielo in cui, con affilata e coerente precisione, al male corrisponda il bene, all’ingiustizia la giustizia; all’egoismo la filantropia; e così via… Riprendere in mano senza pregiudizi Cuore, rileggerlo adesso, al di là del sapore quasi archeologico di un simile ripasso di memoria, significa tornare ad avere confidenza con l’utopia d’una società armonica, equa, solidale, e che trovi il suo basamento nella scuola, quintessenza dell’inclusione sociale («Pare che li faccia tutti eguali e tutti amici la scuola»).

Ma gli italiani di oggi: bisognerebbe reinventarli? Rifondarne l’immagine? Sarebbe possibile il ritratto-gente di un nuovo tipo d’italiano là da venire, personaggio-burattino che, al pari del più blasonato Pinocchio, vivesse nel miracolo assurdo di diventare uomo in carne e ossa? Con simili pensieri mi sono immerso nella rilettura integrale del libro più edificante della letteratura italiana da cui si riceve, ancora intatta, l’impressione di trovarsi dinnanzi al più variegato repertorio di nobili sentimenti e di morali intonazioni, per cui nella stessa pagina può capitare di trovare celebrata l’etica della fatica e l’esempio civile dei morti, in nome di una laicissima religione amministrata dagli adulti, investiti del ruolo di dispensare a piè sospinto il memento a mai distrarsi dalle brutture, dalla durezza del lavoro (specie quelli più umili), dalle ingiustizie, dalle crudeltà sociali, dalla fatiche tutte, insomma, della vita. I racconti di Cuore hanno il sapore, teatrale, della rappresentazione, della messa in scena; e così pure la realtà della scuola, in verità già a quei tempi non così idilliaca come viene dipinta da De Amicis, finisce per assomigliare a un seminario entro cui s’insegna e si apprende l’esemplarità delle buone azioni e delle ‘cose giuste da fare’, impegnato com’è lo scrittore a cesellare, quantomeno nell’immaginario dei lettori, i tratti ben precisi di nobiltà d’animo e di patriottismo per i giovani italiani. Inumidisce ancora gli occhi, quella genuina epica dello studio, del lavoro sodo sui libri, delle difficoltà da superare: un modello di abnegazione oramai definitivamente tramontato. La bell’avventura della conoscenza che ha cessato – per decreto ministeriale – di essere un valore, lo scopo centrale dell’insegnamento. Consequenziale col disegno deamicisiano, ma assai disturbante, quella specie di morale ricattatoria (da ‘bravi ragazzi’) veicolata e incarnata soprattutto dal padre di Enrico, l’ingegner Bottini, che con il suo forsennato impulso pedagogico non perde occasione di plasmare (secondo rettitudine e amor di patria) la complessione intellettuale e morale del figlio. Quel padre «primo maestro» e «primo amico» osannato da Enrico sul finire del suo diario, insieme alla dolce madre – «angelo custode amato e benedetto» –, subito dopo aver fornito il compendio delle «virtù piccole», nella vita quotidiana, di cui ciascuno dei coprotagonisti della classe sembra essere l’emblema: l’ammirabile Derossi; Stardi, l’eroe di una ferrea volontà; il gigante buono, che buoni e generosi rende tutti, Garrone; i campioni del lavoro, come Precossi e Coretti… Ognuno di essi piccola indispensabile tessera a definire il mosaico complessivo del sistema valoriale che all’autore interessa erigere: accanto all’abbecedario di affetti e buoni sentimenti, la monumentalizzazione degli eroi (piccoli e grandi) del Risorgimento; l’esaltazione della vita militare e del soldato; la sensibilità per alcuni temi stringenti già allora come quello, cruciale, dell’emigrazione (che stava a cuore non poco a De Amicis, si legga il successivo Sull’Oceano) – quella transoceanica (Dagli Appennini alle Ande) e quella mediterranea (si rammenti l’ultimo dei racconti mensili, Naufragio).

E a proposito del racconto mensile conclusivo contenuto in Cuore, Naufragio, sembra consegnarci, malgrado le intenzioni dell’autore, un allarmante presagio riguardante le sorti di quella allora pur giovanissima Nazione; una pagina di tanto inconsapevole quanto profetica autobiografia collettiva: nel momento di massima esaltazione di quella pedagogia da cui rameggerà il mito degli italiani ‘brava gente’, De Amicis, con Naufragio, offre la messa in scena d’una effigie d’inquietudine che, a leggerla col senno di poi, mette decisamente i brividi al lettore. L’immagine dell’eroismo suicida del ragazzo che, mentre il bastimento in preda alla tempesta sta per affondare, cede l’ultimo posto disponibile sulla scialuppa all’amica e migrante conosciuta a bordo – «ritto sull’orlo del bastimento, con la fronte alta, coi capelli al vento, immobile, tranquillo, sublime», un attimo prima di essere inghiottito –, rimane indelebile come amara involontaria preconizzazione del passato, del presente e, ahinoi, forse anche del futuro dell’Italia. Nello schizzare il rapido affresco perbenista e ipocrita, correlativo di una società invero di là da venire nelle attese dello scrittore, a De Amicis capita d’incappare nei buchi neri del vaticinio. Motivo questo che ne giustifica e autorizza una lettura per così dire in controluce o a-rebours.

Edmondo De Amicis

Invano, del resto, si cercherebbe nel best-seller deamicisiano una consapevole critica della storia d’Italia, qualcosa che vada oltre l’azzerante retorica patriottarda e monumentale di un Risorgimento peraltro appena lasciatosi alle spalle, ché la necessità prioritaria era quella, se si vuole alquanto didascalica, d’insegnare ad essere bravi italiani. D’altronde si tratta pur sempre di un libro per ragazzi. Non ci si poteva attendere che lo scrittore facesse politica o mettesse in discussione le ambigue fondamenta di un Regno d’Italia che già in appena un quarto di secolo di vita mostrava parecchie crepe e incoerenze. La scelta dell’utopia in luogo delle contraddizioni appare quasi opzione obbligata nella letteratura italiana per ragazzi degli anni Ottanta dell’Ottocento (in pieno accordo con la pancia del pubblico): Collodi ritratta e muta l’asciutta e cupa prima versione della storia del suo burattino, nascondendo sotto il tappeto il finale tragico per approdare alla conciliante strizzata d’occhio e all’happy end consolatorio e conformista con l’edizione dell’83 delle Avventure di Pinocchio. Tuttavia, per De Amicis sarebbe stato inconcepibile un ripensamento o una riscrittura di un’opera che, come poche, nasceva con un intento insieme così nitido e ambizioso.

Ciononostante, il più bidimensionale in assoluto tra i personaggi di un romanzo che aspira alla coralità, il più disprezzato e il più libero, Franti, il cattivo ribelle, agisce da stenogramma in nuce di una contestazione inesplosa ma che, come chiosò Eco a suggello del suo noto Elogio di Franti, si palesa come ghigno maligno (è il solo che possa permettersi di ridere a una parata militare al passaggio dei soldati e di non retrocedere rispetto all’imperativo etico di fare tutto il male possibile). Franti, insomma, è l’unico per cui riesca impensabile la redenzione e la conseguente adesione al radioso avvenire dell’utopia deamicisiana. È proprio in virtù della cromosomica incompatibilità con il mondo di Cuore che Franti si rivela figura dinamitarda: implicita coscienza critica nei confronti di quel brand new world puntellato d’ideologia nazionalista e di paternalismo perbenista. Ancora una volta l’ignaro De Amicis non si accorge di seminare la gramigna spontanea della contestazione. Siamo di nuovo all’humus paradossale denunciato da Fois come sostanza stessa dell’opera. E certo non ha torto nel ritenere che sussistano oggi ragionevoli motivi per ritornare a riflettere sulle pagine ingenue di Cuore, specie se interpretate a fondo come sintomo della conclamata e oltremodo consolatoria puerilità bloccata degli italiani, rimasti al palo della mitopoiesi collettiva partorita dall’autore.

Non sarà il De Amicis migliore dell’assai più godibile Amore e ginnastica (1892) amato da Calvino, romanzo breve che sembra scritto da tutt’altro scrittore, per il tono di sincerità e il ben più sfrontato candore (scevro qui da ogni falso moralismo) con il quale esplora il lato oscuro e pruriginoso delle passioni, raccontando del corteggiamento del mite e cortese don Celzani per la giunonica maestra di ginnastica Pedani, la cui fisicità, l’abbagliante culto per il corpo, gliela fanno apparire come dea scesa in terra a instillare con prepotenza il miracolo e le gioie della carne. La storia di una vita ordinaria, non più pacificata, ma sconvolta dall’irruzione del variegato ventaglio di malizie, seduzioni, stati d’animo, ne fanno ancora oggi un’operetta deliziosa. Ma con buona pace del fustigatore Arbasino che ha in spregio le poche cose di pessimo gusto di un angusto, disgraziato e «stupidissimo» secondo Ottocento (così in Ritratti e immagini, 2016) e che proprio in Edmondo De Amicis vede il tanto eccellente quanto involontario antropologo della buaggine degli italiani del XIX secolo, ritornare in tempi così tristi e confusi su Cuore, e più in generale sui nostri provinciali autori del secondo Ottocento, non sarebbe vano se all’ingenuità dell’utopia si accoppiasse il giudizioso correttivo d’uno sguardo autenticamente critico, nel provarsi a immaginare nuovi plausibili e più umani orientamenti che aiutino la società italiana del terzo millennio a scrollarsi da un perdurante e quasi irredimibile stato di minorità. Giacché c’è ancora molto da imparare, perfino dallo «stupidissimo» Ottocento italiano.

domenico.calcaterra@gmail.com

Facebooktwitterlinkedin