Alla Galleria di San Luca di Roma
La saga Marchini
Da Balla a Fausto Pirandello, da Licini a Leoncillo: una grande mostra ripercorre la storia epica di una famiglia di appassionati d'arte, quella di Alvaro Marchini, e della sua galleria La Nuova Pesa, ancora oggi attiva grazie alla figlia Simona
Una storia nell’arte. Incisivo e intrigante come un manifesto ben fatto il titolo con cui è stata battezzata la mostra che a Roma fino al 22 aprile invade e ridisegna gli austeri spazi dell’Accademia di San Luca. Spiega con grande chiarezza l’iniziativa in cartellone: ricostruire il lungo tragitto di mutazioni di orientamenti e di sedi di una prestigiosa galleria della capitale, La Nuova Pesa, ancora attiva in un appartamento di via del Corso, attraverso un campionario delle opere che in settant’anni ha messo in circolo. Di testimonianze visive che ricostruiscono le vicende e i ritratti dei singolari personaggi a tante facce della famiglia Marchini, il padre Alvaro che l’ha fondata e sua figlia Simona che l’ha resuscitata e continua a gestirla. Di scatti in bianco e nero da cronache d’epoca degli intellettuali che l’hanno frequentata, sostenendone o criticandone le scelte che per lunghi periodi hanno influenzato la vita culturale della città.
Ma quel titolo prepara anche il visitatore ad immergersi nel fascinoso controcanto di immagini e capolavori di altri secoli, altri stili, altri gusti, riuniti nelle sale d’esposizione del piano nobile accanto ai lavori della collezione Marchini. Sale recentemente riordinate a vetrina dei tesori acquisiti per regole d’istituto e donazioni dall’Accademia. Che incanto vedere le levigate chimere che stravolgono d’altrove e mistero i paesaggi dei grandi maestri del Settecento e del primo Ottocento specchiarsi e fare a pugni nella parete di fronte con il simultaneo intreccio di piani, volumi e colori sporchi con cui Picasso e altri compagni cubisti reinterpretavano la vista della natura. Che piacere per la mente e per gli occhi rintracciare le sfuggenti sintonie tra i bozzetti di terracotta vibranti di frenesia dei temi di concorsi di scultura dell’aula intitolata a Canova e la rosea e marmorea rigidità dei corpi dipinti da Antonio Donghi e altri maestri del realismo magico, riportati in passerella dalla Nuova Pesa.
Un accavallarsi di stimoli e vibrazioni che dimostra come un museo possa svecchiare se stesso e accettare la contaminazione e il raffronto con i linguaggi del presente o di un passato meno remoto, senza snaturare la propria funzione di scrigno della memoria e senza perdere l’ancoraggio del conto del tempo, ma riallacciando con rigore i fili sotterranei attraverso i quali il complesso mosaico di andirivieni della creatività si ricompone e trova il suo senso specchiandosi nella trama ininterrotta della Storia e delle storie che ce la raccontano per continuare a rileggerla, interrogarla.
Non è un omaggio rituale questa mostra, anche se restituisce spessore umano e culturale a una figura d’eccezione, Alvaro Marchini (1916-1985) che troppi hanno dimenticato. Cancellata nel ricordo delle nuove generazioni insieme a quella stagione legata alla presenza di massa e alla spinta innovativa del partito comunista in Italia, che per molti oggi appare solo come il fossile di un altra èra geologica. Una biografia sfaccettata, a cui rende ora almeno il risarcimento della riscoperta e della curiosità la galleria fotografica sgranata lungo le pareti della rampa elicoidale che cala al pianoterra. Alle spalle, una famiglia di piccoli imprenditori edili di fede socialista costretta a fuggire dal paesino dell’Umbria dove la persecuzioni del fascismo ne mettevano a rischio la sopravvivenza per rintanarsi a Roma. Lui e il fratello Alfio partigiani su fronti diversi ed entrambi decorati al valore. Ecco in un elenco di appena otto nomi, la sua firma in un documento notarile siglato subito dopo la Liberazione: è l’atto che sancisce la rinascita de l’Unità, dopo anni di diffusione clandestina. Ecco una inquadratura in bianco e nero del Palazzo delle Botteghe Oscure, che insieme alla famiglia acquista e dona come casa madre al PCI. Ora possono permetterselo. Hanno fatto fortuna costruendo case popolari nei quartieri dove la città ha cominciato ad espandersi.
Ma Alvaro non è un palazzinaro come gli altri. Chiusi i cantieri eccoli, lui e il fratello, in varie foto far festa in una tavolata alla buona accanto agli operai. Un imprenditore di successo, col fiuto degli affari, ma anche un mecenate, che investe nell’arte, convinto che sia una leva indispensabile per far crescere il paese, dischiudere nuovi orizzonti di partecipazione e democrazia. È il progetto da cui nasce nel 1959 la Galleria La Nuova Pesa in via Frattina. Sicuramente benedetto dall’approvazione dei vertici del Pci. La parola d’ordine continua ad essere la difesa del realismo come linguaggio più vicino ad un pubblico popolare e agli ideali di giustizia sociale. L’elezione di Guttuso a modello e arbitro. E la difesa contro l’avanzata dell’astrazione e dei suoi richiami alla soggettività. Ma la strategia non è più quella del muro contro muro che aveva infiammato gli anni del dopoguerra. Per consolidare la propria egemonia, i comunisti italiani sentono che devono ampliare il campo d’azione, usare altri registri. Antonello Trombadori, uno dei portavoce più fidati di questa corrente, grande amico e consulente di Marchini, non esita a replicare alle polemiche dell’ambasciatore russo, che aveva condannato come un cedimento e una caduta di gusto la passerella offerta dalla Biennale di Venezia all’arte pop americana. Come punto di partenza si ripiega su una mirata rilettura degli artisti che sono emersi nel ventennio fascista sulla strada maestra della figurazione. La prima mostra della nuova galleria è proprio dedicata a una collettiva che ne chiama in passerella una trentina. In pratica tutti i maestri della scuola romana: Mario Mafai, Antonietta Raphael, Socrate, Scipione, Fausto Pirandello, Trombadori, Francalancia, Cagli. Ma c’è posto anche per Giacomo Balla, quello divisionista, prima dell’avventura con il futurismo di Marinetti, che per gli intellettuali del partito resta ancora tabù. E più tardi anche per il recupero di Mario Sironi, uno che il fascismo non l’ha mai ripudiato pubblicamente. Rispuntano nomi caduti in parziale e ingiustificato oblio. Come quello di Ziveri. Impugnato dai critici amici di Marchini per attaccare Palma Bucarelli, la zarina della Galleria d’arte moderna che ha spianato la strada all’arte astratta. Le si rimprovera come un tradimento del suo ruolo di funzionaria pubblica di aver disertato la personale di Ziveri in via Frattina.
La rosa delle scelte si allarga anche agli emergenti della nuova figurazione, chiamati alla ribalta come gruppo e poi per una serie di personali: Gianquinto, Vespignani, Gaetaniello, Vacchi, Attardi, Guccione, Calabria. Ma l’influenza di Guttuso continua a spargere veleni. Senza la sua promozione o la sua manifesta simpatia si rischia di finire ai margini tra gli eretici, tra i maltollerati, nonostante la patente di militanza.
Con il trasferimento in via del Vantaggio, una sede più ampia, si apre un nuovo ciclo, che consacra il prestigio internazionale e il curriculum di successi della Nuova Pesa e del suo fondatore che, vincendo la concorrenza di altri colleghi del Nord, riesce a stringere alleanza con i galleristi e i collezionisti parigini, che controllano la circolazione dei più importanti maestri francesi del cubismo. Ecco così approdare in via del Vantaggio Leger, Braque, Gris e Picasso. Vernissages da tutto esaurito, registrati nello stile morbido e ironico di Berenice, la giornalista che cura la rubrica di eventi culturali e mondani su Paese Sera. Un diario fedele e seguitissimo delle polemiche e delle battaglie sotterranee che infiammano la vita dei salotti della Roma che conta. La Nuova Pesa è un osservatorio privilegiato. Basta vedere le foto delle inaugurazioni. Ci ritrovi Alberto Moravia, Pasolini, i pezzi da novanta della critica e della letteratura di sinistra. E poi i grandi del cinema italiano e della commedia che sta vivendo la sua stagione d’oro. Mastroianni, Tognazzi, Giovanna Ralli. Persino qualche divo di Hollywood, come Burt Lancaster, che aveva appena finito di girare Il Gattopardo. Racconta Simona Marchini di esser rimasta incredula e senza parole quando lo vide entrare con quei basettoni che si era fatto crescere sul set. Era venuto lì per conto di Visconti a ritirare un Picasso di cui il regista si era innamorato a prima vista e di cui aveva prenotato l’acquisto.
Alvaro Marchini e sua figlia Simona, che ora lo affianca, insieme alla sorella Carla, sono ormai merce preziosa da paparazzi. E i riflettori della notorietà si accendono di una luce più intensa quando lui si lancia nell’avventura del calcio, diventando, da azionista, presidente della Roma. Un’avventura che dura solo tre anni e porterà più amarezze che gioie. A lui regala solo l’ostilità dei tifosi romanisti, che ancora gli rimproverano come una colpa indelebile l’arrivo alla guida della squadra di Helenio Herrera, un mago ormai spompato, la vendita alla Juve di tre giovani e promettenti gioielli (tra cui Fabio Capello) e i risultati da bassa classifica. Alla figlia Simona, l’imbarazzo di un matrimonio che fa scandalo con il talento incompiuto di Ciccio Cordova e non avrà futuro.
Il vento del ’68 che scompiglia la compattezza del Pci e degli intellettuali che gli ruotavano attorno, il nuovo corso imboccato dal sistema dell’arte, e poi le minacce e le paure gli anni di piombo lo spingeranno prima ai margini e poi alla chiusura della Nuova Pesa nel 1976. Alvaro Marchini morirà nell’85. Ma sarà la spinta che convince Simona, che ormai ha imboccato altre strade come attrice e conduttrice tv a resuscitare la sigla della galleria, che, trasferita in via del Corso, continua l’avventura dell’arte per altre strade. Cambia la schiera degli intellettuali di riferimento e cambia radicalmente l’elenco degli autori. Arte povera, arte concettuale, videoarte, fotografia, poco spazio alla pittura, che del resto è precipitata in fondo alle classifiche del postmoderno. La Nuova Pesa non riesce più o stenta a fare opinione. Ma le sue scelte restano ancorate alla qualità. Basta attraversare le ultime sale, riservate a questo capitolo della saga Marchini ancora in corso per rendersene conto. Gran parte del merito spetta all’entusiasmo e al rispetto con cui Simona Marchini, con quella spontaneità da Nata ieri che ha decretato la sua fortuna di attrice, si lancia in ogni impresa. Piccole, deliziose perle i racconti dei suoi rapporti con Kounellis, De Dominicis, Di Stasio racchiusi nel catalogo, impreziosito dagli scritti dei cinque curatori: Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Gianni Dessì, Flavia Matitti, Italo Tommasoni.
Ma le emozioni più intense questa mostra le riserva attraverso le opere che è riuscita a raccogliere. Resuscitando la storia, questo denso spicchio di storia datata, con le parole senza tempo dell’arte. Una successione di chicche imperdibili. Dal ritratto di Roesler Franz dipinto da Balla che ti accoglie per la prima sala fino all’inquietante fotogramma di Shirin Neshat, una donna velata che ti punta addosso un fucile, da cui ti congedi all’uscita. Passando per altri capolavori. Come il cielo che Magritte ti dischiude davanti, appeso ad un cavalletto che troneggia nel buio. Come la bambina dal volto corrucciato e gessoso che Pirandello ritrae mentre allinea sassi e schegge di pietra su un tavolo (nella foto accanto al titolo). Come quel corpo di donna assassinata firmato da Renzo Vespignani: la cronaca nera che irrompe in tutta la sua spietata crudezza su un quadro. Come quella stralunata dattilografa imprigionata da Leoncillo negli smalti vivaci e sfrangiati della ceramica. Come quello stupefacente siparietto, un concerto di pittura in quattro tele, che esalta il talento anomalo di Osvaldo Licini, che i tifosi del realismo socialista faticavano ad inquadrare. Come la straordinaria galleria di disegni e caricature graffiate dal genio corrosivo di Grosz e Otto Dix, dalla furia espressiva di Kirchner, di linee trasformate in fantasmi da Scipione, cui è riservato il piano ammezzato. Come quella magica fontana inventata da Rebecca Horn nel 2002 che Simona Marchini rimira ogni giorno dalla sua scrivania; un telaio di vetro con dietro una piuma e una pietra e una pioggia di gocce che scivolano in basso.
Arte nella storia e storie nell’arte.