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Scrittori contro
Nelle corrispondenze tra Nicola Chiaromonte e Albert Camus c'è la chiave di lettura del fallimento delle élite occidentali nel Novecento. Così come nelle pagine di Sciascia (analizzate da Stefano Lanuzza) c'è la fotografia di una borghesia che ormai sa solo sfruttare la società
Élite. Non è una profezia campata in aria, semmai in frutto di un accorata disamina e di prolungamento di svariate a profonde riflessioni riflessioni. Albert Camus, uno dei più grandi scrittori e saggisti del Novecento, in una corrispondenza (1945-1959) con Nicola Chiaromonte (In lotta contro il destino, a cura di Alberto Folin, 256 pagine, 22 Euro, Neri Pozza)si occupa in modo quasi perentorio, delle rovine prossime e venture: «Giustizia e libertà sono soltanto specchietti per le allodole, mentre riaffiorano i nazionalismi della peggior risma. È una cieca volontà di potenza anima tutti gli attori in scena». Considerazione amara e soprattutto vera, in specie se si tien conto dei limiti (soprattutto) e della conseguente impotenza della nostra Europa. I due intellettuali si interrogano sulle alternative: concordano che «l’altro sentire umano» potrebbe incentrarsi sull’«amicizia», l’antica philia degli antichi greci.
Come si legge nell’acuta prefazione di Samantha Novello, «sarà un grappolo di valori precisi a fare da collante: la legge dell’ospitalità (altro tema estremamente attuale, ndr), la dura fraternità degli uomini in lotta contro il destino». Camus parla di «una società nella società», che fa sì che gli uomini si uniscono sulla base di un medesimo stile di vita, fondato nella franchezza, l’onestà, la sobrietà, la forza di persuasione di una parola capace di «cambiare i comportamenti umani pervertiti nei valori e atrofizzati nei valori e nelle azioni dall’odio e dalla paura». Spiega lo scrittore francese, «isolato come sceglieva di essere» condivide quanto scriveva Chiaramonte su Tempo presente: «Il fatto che una parte importante delle élite (e non di una folla qualunquista) si sia sentita esclusa dall’azione politica, è uno dei fatti più salienti del dopoguerra: forse il più importante, in ogni caso il più grave». Sono parole, queste intrise di verità, quindi profetiche. Chi oggi ci medita sopra?
Il siciliano. Potremmo affibbiare a Leonardo Sciascia alcuni, e non poche, qualità o tratti letterario-caratteriali. Forse il più adatto è “contro”. È su questo che insiste (anche) uno dei migliori libri scritti sul narratore di Racalmuto. S’intitola Scrittore contro, l’autore è Stefano Lanuzza, l’editore è Jouvence, 147 pagine, 14 Euro. L’autore, nella premessa, lamenta giustamente che Sciascia oggi è trascurato: uno dei più grossi difetti dei lettori, soprattutto giovani (in toto, salvo ovviamente le eccezioni). Scrive Lanuzza: «Nei libri di Sciascia, integrati in un’opera unitaria intrisa di pensiero e intelligenza, si esprime, generalmente con una lingua media fatta di chiarezza e raziocinio, l’animus insulare includente, entro una vocazione all’universalità, un’idea dell’Italia e dell’Europa». Un pallone che va dritto nella porta della squadra che sostiene che Sciascia, perché siciliano, è un provinciale. Lo scrittore nato in terra pirandelliana aborriva delle mistificazioni e delle false idee, fidandosi in modo assoluto alla verità. Nei suoi due libri di maggior diffusione, Il giorno della civetta e A ciascuno il suo, romanzi gialli in apparenza e costruzione, l’autore, parla di mafia. In una intervista disse: «Il mio primo romanzo narro di un sistema, la mafia, che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato, ma dentro lo Stato». La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta. Analisi scomoda e coraggiosa, contro, appunto, visto che siamo agli inizi anni Settanta. Esiste nelle sue opere qualcosa che ha del profetico. Ne Il contesto anticipa le inchieste giudiziarie di “Mani pulite”. Mentre in Todo modo, descrive le trame criminali dei diversi poteri e racconta la corruttela della politica spesso criminale e con certi interessi degli organismi ecclesiastici. Così annota Stefano Lanuzza, il quale aggiunge: «Tutti i suoi scritti contengono il pessimismo «contro lo stato di cose, non assimilabile da passivi nichilismi». Sciascia se la prende sempre con il potere. Sull’accusa di provincialismo, o meglio di regionalismo, assurda di per sé a patto di avere l’intelligenza di cogliere appieno il termine “metafora”, nella raccolta di saggi intitolata La corda pazza si può leggere, tra l’altro una lapidaria critica del carattere siciliano sospeso tra “la corda civile”… bloccata da secoli e la “corda seria” fino all’orgogliosa affermazione secondo cui «se l’are e la letteratura del nostro tempo contano qualcosa nel mondo, il merito è peculiarmente di scrittori e artisti regionalisti… e basti pensare a qu ella summa di regionalismo che è Il gattopardo». A ciò si può aggiungere la frase di Goethe: «Senza la Sicilia non si può avere un’idea dell’Italia: qui è la chiave di tutto».