Rossella Pretto
Anticipazione da “Teatro è una parola”

Le anime e i sogni

Raccolti in un volume edito da Algra, gli scritti dedicati al libro di Roberto Mussapi “I nomi e le voci” apparsi su Succedeoggi. Con qualche inedito, come questo testo che penetra nei personaggi a cui il poeta ha ridato voce, facendola riecheggiare dalla classicità, da Shakespeare, da Bisanzio…

«Non possiamo pensare / a un tempo che è assenza di oceano / o a un oceano non cosparso di rottami / o a un futuro che non possa / come il passato, essere senza destinazione», scriveva T.S. Eliot nei Quattro Quartetti. Oceano e rottami da cui però derivino stupore e rinascita, suggerisce Roberto Mussapi ne I nomi e le voci (Mondadori 2020), vera e propria cosmogonia della sua ispirazione poetico-teatrale, qui ricomposta grazie a un lavoro di tessitura e raggruppamento inediti – come fece per Le Poesie (Ponte alle Grazie 2014) e per una personale antologia di traduzioni, The conversation of Voices (Algra Editore 2015). Molteplici i sussurri, così come gli echi letterari che si rincorrono, dipanando il filo primigenio che ci guida attraverso le pieghe del sogno, dall’inganno all’incanto, dal buio dei primi versi dell’abbandonata Arianna alla luce del maestro Minardi che esce dalla scuola, nell’approdo dell’ultimo lungo componimento, ‘Lezioni elementari’, nella quarta sezione ambientata nella contemporaneità. Quel filo è frutto di conoscenza e gratitudine verso chi insegna lo scarto tra parola venefica e racconto-viatico, alla «voce senza voce che chiama all’unisono». 

Il primo nucleo di testi tratto dalla tradizione classica schiude la rosa delle voci femminili – già monologante nelle Eroidi ovidiane, nei casi di Arianna, Didone e Penelope, ma qui meno carica di rivendicazioni: Arianna, ormai stella fissa ma tutta piena «di nostalgia per la terra dei vivi»; Didone conscia che le parole di Enea «si tramutavano nell’incanto di una fiaba, / così come i lamenti e i rantoli delle ferite d’amore / diventano nella voce di Saffo armonia inaudita», non la regina virgiliana dallo sguardo feroce; e Penelope intenta a ordire la trama che invena il sentimento nell’attimo dilatato e intramontabile, «l’istante eterno, il brivido attimico d’amore». La fedeltà è adesione piena alla vita, al divenire, all’avventura, e a un sogno che gli artisti non temono, perché sanno bandire «la consuetudine al disinganno».

Del secondo gruppo di voci shakespeariane, al maschile stavolta, fanno parte Otello, Amleto e Ariel. In Otello, però, si assiste subito al fallimento dello sposalizio del mare, perché la parola ha avvelenato la mente del Moro, la trama del fazzoletto regalato a Desdemona ha reso il suo amore tossico: «Galleggiano gondole gonfie di parole vuote / e quelle di Iago inquinano i canali». L’amore è una sostanza vischiosa, una «nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri» (Prufrock), una faccenda troppo umana che appanna la visione. Nel male che si dilata. E impazza nella mente di Otello, in quel Panopticon che possiamo osservare – al riparo noi (forse) – dove tre figure si contendono l’ora d’aria non sapendo però d’essere una sola: Otello, Iago – il suo stesso carnefice – e il Coro – colui che testimonia e non può nulla, se non narrare le vicende terribili che seguono, il gorgo in cui affonda la vita del Moro, quella presagita nel buio della fucina che avrebbe dovuto forgiare il vero ferro, la porta sul buio heaneyana. E a tutti dà diritto di parola, anche solo nella scissione e nel disordine del pensiero contraddittorio di Otello, in campo e controcampo, e c’è chi afferma e chi dissente. Chi sgretola il più saldo degli amori. Un gioco al massacro. Shakespeare conosceva il garbuglio del desiderio, il ginepraio dei sensi, la brama d’amore «pazza nella caccia come nel possesso; / cercando di avere, avendo e avendo avuto, estrema; / una beatitudine nell’atto, e, compiutolo, una pena; / prima, una gioia sperata; dopo, un sogno» (sonetto 129). 

È un incessante lavoro d’ago che si infila e si sfila per comporre la discesa drammatica di un amore eccessivo che pretende certezza di possesso e sempre viene disilluso, per un fatto qualsiasi, un fazzoletto qualsiasi. No, non uno qualsiasi… quel fazzoletto ha un ricamo truffaldino, «la trama tramata storta», la beffa della felicità eterna come dono augurale. Augurio e condanna. Troppo carico di senso e dunque funesto. Lo sperpero del sogno incagliato in un orizzonte asfissiante, in quell’afrore giallastro – altrove non condurrà il finale – che sfila a un uomo il destino dalle dita. Ed è la gelosia che corrode, l’offuscamento, il vuoto, l’orrore, un cuscino premuto sul volto amato. E se Otello frana ed è franto – come è cavo il suo cuore tarlato, come dubita, che tremore, quale rabbia, come batte a scatti, quel tamburo, risuonando cupo nei cunicoli dove il carattere si sperde -, Iago imperversa in quel franare echeggiante, scellerato nei ritmi ipnotici da formula del malocchio. E il coro altro non può che intonare un de profundis salmodiando l’anatomia della malinconia perché «nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella malinconia impoverito e svuotato è l’Io stesso» (Freud). 

Così è per Amleto, malinconico per eccellenza, ma già in qualche modo rischiarato dalla preghiera che rivolge a Orazio, conscio che «no, Orazio, non era, non è vuoto il cielo, / ero io che attanagliato dall’esatta visione / per troppo amore non riuscivo a pregare». Ben diverso dallo scacco conoscitivo in cui si dibatte il principe di Danimarca shakespeariano. Quella preghiera mira a strappare il «velo» della «mente vischiosa», cosicché le lacrime di Ofelia si trasformino in perle e, sul fondo del mare, possano finalmente incontrare «le anime e i sogni». 

E infine, ci pensa Ariel a ricostituire definitivamente l’unità infranta, e dunque a restituirci l’incanto, perché nel naufragio tutto si compie, come nel rito celebrato dal teatro: al volgere del giorno saremo liberi. Nella Tempesta l’affondamento è solo un prodigio, un coup de théâtre, appunto. E quel sangue che in Otello e Amleto scorre per davvero, qui, grazie alle parole del folletto del vento, viene come ripulito, depurato, sublimato: «Perdona chi non sente coloro che gli sono accanto, / perdona chi crede nella solitudine / senza sentire il respiro della sera, / la folla d’anime che lo sta cercando». E la preghiera di Amleto viene esaudita, scende nelle profondità del mare, ne accarezza i fondali ritrovando origine e rinascita: riprenderanno insomma a vivere sotto la volta del cielo, quelle anime sognanti, a desiderare l’antica realtà di carne e sangue, come quelle che Enea scorge sulle rive del Lete. E allora l’anello affondato dal doge di Venezia assiso sul suo Bucintoro in parata, come lo immaginiamo grazie a Canaletto e Guardi, riaffiora nella quarta sezione, viaggiando attraverso i tubi, nel ronzio d’acqua delle latrine sotterranee dove la giovane Maria si guadagna da vivere facendo le pulizie, mai rinunciando alla «mania di sognare», e le viene restituito in rosso corallo dal cielo giottesco della Grotta Azzurra.

Il mare è depositario di storie, le sue correnti abissali ne facilitano circolazione e memoria: «qui passa la conoscenza del mondo tra le acque, / le storie si sciolgono e diffondono / in ogni piccola onda, in ogni goccia» (‘La Veneziana’) e, pur se quelle forme paiono svanire, vengono trasfigurate in altra trama, nuove, direbbe ancora Eliot. Così Mussapi, che «trama e distrama», e per il quale il naufragio è solo scaturigine di mille e una notte di parole che affratellano. Le immersioni nei regni d’ombra sono piuttosto aperture verso la terra dove sorge la luce, nella terza sezione, verso la Bisanzio di W.B. Yeats che si augurava di diventare «una forma d’oro battuto e foglia d’oro». E la suggestione orientale ha posto accanto alle parole del tuffatore di Paestum e di Plinio davanti all’eruzione del Vesuvio. Ne esce comunque un canto d’amore o di devozione alla donna, che è garante di intimo riconoscimento: «Dite ai romani e ai cristiani che verranno, / che questo scoprì Plinio nel fuoco del cratere, / la piena intelligenza di una donna, / e in essa il segreto di sé stesso». Quel travaglio amoroso che variamente intreccia le voci di Mussapi permette alla materia di cui sono fatti i sogni di farsi monumento perenne, cosicché «la morte non avrà più dominio e ragione», afferma la sua Didone echeggiando Dylan Thomas. Lo Shakespeare dei Sonetti (il 146, stavolta) sarebbe d’accordo, perché «morta la Morte, non ci sarà più morire».

Da “Teatro è una parola – Per I nomi e le voci di Roberto Mussapi” (Algra Editore, 64 pagine, 8,00 euro). Nell’immagine vicino al titolo: Penelope di John Roddam Spencer Stanhope, particolare

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