Tra arte e memoria
La casa dei Camondo
Una mostra di Edmund de Waal al Museo Nissim de Camondo di Parigi è l'occasione per ripercorrere la storia straordinaria e dal grande valore simbolico di una famiglia di banchieri mecenati arrivati da Istambul a Parigi (passando per Trieste) che ha chiuso la sua storia nei lager nazisti
Qualcuno dei miei sette lettori, forse, ricorderà una mia visita guidata di qualche anno fa dedicata al Museo Nissim de Camondo di Parigi (clicca qui per legger l’articolo), dove un enigmatico quadro di Philippoteaux con sei gentiluomini a passeggio nel giardino di St. Cloud, girati di spalle, mi era sembrato un anelito di speranza nei primi tempi di confinamento da Covid. La settimana scorsa ho avuto voglia di tornare in quel museo, evidentemente le affinità elettive tra me e il luogo sono irriducibili.
L’occasione era la mostra di un artista contemporaneo, Edmund de Waal, invitato in quegli spazi: un artista che ha esposto nei più importanti musei del mondo dal Victoria&Albert Museum a Waddesdon Manor, dal Jewish Museum di New York al Kunsthistorisches Museum di Vienna; personaggio di poliedrica attività intellettuale, scrittore noto anche in Italia per almeno tre volumi editi da Bollati Boringhieri: Un’eredità di avorio e ambra nel 2012, La strada bianca. Storia di una passione nel 2016 e il recentissimo, appunto, Lettere a Camondo nel 2021 che è l’impulso ispiratore della mostra di cui parliamo. De Waal è un ceramista, convinto da sempre che Oriente e Occidente possano incontrarsi nella fragile ed eterea arte della porcellana; e ha trascorso la vita a inventare mescole di celadon e oro e polveri metalliche varie per oggetti di traslucida delicatezza. Ma de Waal è anche il discendente di una famiglia antica della quale ci ha raccontato nei suoi libri: sua nonna si chiamava Ephroussi, apparteneva a una di quelle genealogie ebraiche che attraverso i secoli e i millenni hanno abitato molti luoghi del mondo. Uno di questi luoghi è stato anche un hôtel particulier parigino, nella rue Monceau, a pochi metri di distanza dal numero civico 63 che è l’indirizzo del museo Camondo; il quale all’epoca era la sontuosa casa dei Camondo, banchieri ricchissimi arrivati da Istanbul a Trieste nel XIX° secolo e poi a Parigi, nobilitati da Vittorio Emanuele II° per il loro sostegno alla causa dell’unità d’Italia; protagonisti della vita mondana della Belle Epoque, anfitrioni di cene famose in tutta la Ville Lumière, mecenati di artisti e letterati come Proust, Monet, Renoir e molti altri, portavano con orgoglio quel cognome cosmopolita, cittadini del mondo da secoli. Il conte Moise aveva raccolto in quella casa una delle più straordinarie collezioni di mobili e suppellettili francesi del XVIII° secolo, un’epoca che più di ogni altra sembra aver inventato il piacere di vivere nella quotidianità. La nonna Ephroussi ha raccontato molto di quel tempo al nipote Edmund e delle sue visite ai vicini di casa. Poi…
Poi, dopo la morte di Nissim, unico figlio maschio, il conte Moise decise che la casa sarebbe diventata un museo a condizione che tutto fosse lasciato nella disposizione originaria; una specie di mausoleo vivo, a memoria della famiglia che lo aveva abitato e nel nome di quel ragazzo, pilota dell’aviazione francese abbattuto durante un’azione di guerra nel 1917. Ha continuato a vivere in quella casa, il conte Moise, fino al 1935, anno della sua morte. Pochi mesi dopo, nel 1936 si perfezionava il lascito allo stato francese e la dimora al numero 63 della rue Monceau diventava il museo Nissim de Camondo: ma niente doveva cambiare nell’assetto di quel luogo. E niente cambiò lì dentro: ma molte cose cambiarono nel mondo, in Europa e a Parigi negli anni immediatamente successivi. L’ultima figlia di Moise, Béatrice, esperta cavallerizza ed ultima erede dell’ingente patrimonio di famiglia, venne arrestata dai nazisti con la figlia Fanny nel dicembre 1942; poco dopo, la stessa sorte toccò al marito, il compositore Léon Reinach, e al figlio Bertrand. Le loro tracce si sono perse per sempre dopo il trasferimento ad Auschwitz nel 1944. Si sa soltanto che Béatrice fu una delle vittime assassinate nel campo il 4 gennaio del 1945.
Da queste suggestioni nasce la mostra di Edmund de Waal e prima ancora il libro Lettere a Camondo: cinquattotto lettere immaginate dall’artista a un amico di famiglia che non ha potuto conoscere ma del quale ha sentito molto parlare; riflessioni sul valore della memoria, sul senso dell’amore per gli oggetti e gli arredi, sulla malinconia, sul tempo che passa e sull’illusione che qualcosa di quel tempo resti attaccato a quegli oggetti, alle case, alle opere d’arte. Prima di farle diventare pagine di un libro, De Waal le ha vergate sui suoi fogli bianchi di porcellana e poi spezzate, “piccoli gruppi di porcellana, quercia e oro” abbandonati qua e là nei saloni sontuosi, quasi nascosti dietro suppellettili preziose, posate con noncuranza sui ricchi mobili di ebanisti del Settecento; la leggenda racconta persino che alcune di questi reperti siano stati messi da de Waal nei cassetti dei secrétaires, chiusi a chiave, invisibili al pubblico che guarda la magnificenza di quelle sale al di là dei nastri di passamaneria. Soltanto nel cortile di accesso, all’aperto, il visitatore è accolto da otto forme di pietra, costruite secondo una rivisitazione della tecnica di kintsugi con la quale in Giappone dal Quattrocento si riparano le porcellane rotte, marcando con polvere d’oro la linea della spezzatura.
«Non puoi riparare questa dimora o questa famiglia, ma puoi segnare alcuni dei luoghi infranti, con dignità, con amore, e poi andartene e lasciare questa casa al suo destino».
Così, nel raccomandare a qualcuno dei miei sette lettori una visita da qui al 5 maggio 2022 a questa mostra che nega persino il senso etimologico delle parole “mostra” o “esposizione” perché si rifiuta di mostrare o esporre alcunché, mi ritraggo dal proporre fotografie delle opere, sarebbe una violenza ingiustificabile. È sufficiente qualche foto dei sontuosi saloni del 63, rue de Monceau, 75008 Paris: ciascuno saprà per conto suo, in silenzio, ritrovare dal vivo i cocci bianchi dimenticati da de Waal, per provare un’emozione personale indescrivibile e inenarrabile.