“A ogni stazione del viaggio”
Il segreto dell’attimo
La poesia di Loretto Rafanelli è tesa a decifrare la «difficile alterità che racchiude in sé il senso del mondo». Anche in questa nuova raccolta, dove le tematiche si fanno racconto di tappe esistenziali. Un racconto fedele al dettato di Mario Luzi, maestro di una «parola che unisce il tutto al senso»
L’ultimo libro di poesie di Loretto Rafanelli, A ogni stazione del viaggio (Jaca Book, 124 pagine, 15,00 euro), racconta di molti luoghi e di molte persone, a ognuna delle quali è dedicata una lirica spesso effusa in toni fraterni e di umana partecipazione (largo spazio è dato in tal senso all’apostrofe). Questo già dice parecchio delle capacità “simpatetiche” di Rafanelli che si traducono, nelle maglie dei versi, in un’ariosità e una larghezza strofica ma anche in una sorta di accoglienza tematica, peraltro ravvisabile già nel precedente L’indice delle distanze. Sì perché lo sguardo dell’autore porrettano è sempre impegnato a cogliere quanto vi sia di plurale e multiplo in una vita al fuoco della controversia («Vita che giungi nel segreto dell’attimo,/ […] guarda l’eccedenza e i grani/ del raccolto, quell’atto dell’incontrare/ o l’estrema solitaria oscurità»). Soprattutto se nel luogo attraversato si può implicitamente leggere la mise en abyme del viaggio stesso: «Le bruciate calcinate gocce di aiuto/ a la Virgen María, poi i respiri/ sospesi, le ossa fissate/ dal fuoco che issava una lunga/ colonna di fumo e di dolore nel vasto/ Messico».
Le cinque sezioni della silloge (Vita che dici di tante vite, Geografie, La linea delle stagioni, Presso la riva del nostro tempo, Poesie da un tempo minimo) dimostrano una progressione timbrica che è spia di un racconto sottotraccia, racconto di un’anima transitata in spazi e periodi differenti, e poi stanziatasi nella «riva» di un «tempo minimo», sull’orlo dell’eterno e dell’immutabile («Giunge il silenzio dell’infinito tempo/ ed è l’ultimo respiro del solo istante»). Le atrocità della guerra siriana – ricondotta a reminiscenze montaliane sulla «via di Aleppo» –, il «freddo montano di Porretta», la vertigine del deserto messicano, Venezia, Cartagena de Indias, un’«ordinata antica abbazia» lussemburghese, Pienza, il mare ligure, la luce del Reno emiliano sono segnaletiche (o segni urgenti) della difficile alterità che racchiude in sé «il senso del mondo», cartografie di un «intenso cominciamento», di un «delicato mormorio» in cui comunque non sono irrelate, ma appaiono ancora pienamente codificabili le «tracce dell’ignoto» («cielo/ che ci incontra e si fa cammino/ nel sillabario del nostro solco»).
In questo andirivieni di tappe esistenziali centrale rimane la figura paternamente poetica di un autore come Mario Luzi, maestro di una «parola che unisce il tutto al senso», lui che ha insegnato «il vertice e il vortice/ della speranza e della fine», additando la «vena di luce» ben oltre le «domande infinite». Lezione indimenticabile, agisce in Rafanelli come ricorsività del mistero che compare in questa pagine sempre da una prospettiva de lonh, persino in una poesia scopertamente sociopolitica come Il cielo bianco di vento («pregano gli uomini,/ le donne, i bambini in una lingua/ spenta dai respiri»). A ogni stazione del viaggio conserva così la metamorfosi luziana indirizzata all’essere (si ricordi l’ultima lirica di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini) e all’uno, in una continua azione e ri-creazione della parola.
*
Nel debole fianco
Mi insegui con la voragine
aperta nel debole fianco,
e come non aspettarti
alla fermata del viale
e passare con te le molte
tappe del ritorno, fino al segno
tracciato dal fragile sospiro
che ci vive in gola, e stringere
i lembi dei sudari, con le braccia
aperte al nostro anno,
così sopravvivere al sussurrato
avviso delle sentinelle,
che ci consegnano silenziose
alla fine dei cieli.
Nella foto vicino al titolo: Franco Villoresi, “Il treno”, particolare