Erminia Pellecchia
Al Teatro Off Off di Roma

I sogni di Jennifer

Antonello De Rosa riporta in scena la sua versione de "Le cinque rose di Jennifer", il monologo che rivelò il grande talento di Annibale Ruccello. Uno spettacolo dolce e spietato al tempo stesso, per riflettere sulla solitudine che segna - sempre - le diversità

La penombra della stanza è rotta dal bianco del copritavolo habillè su cui campeggiano, tra ninnoli vari, pacchetti di sigarette, profumi e ciprie, un vaso con cinque rose, un portaritratti senza foto, una sveglia e un telefono in bachelite modello anni Cinquanta. Accanto, c’è una sedia-poltrona, di quelle dal design omologato che acquisti a pochi euro all’Ikea o su Amazon e che fa tanto buona borghesia. Una radio diffonde la voce di Maria Callas mentre, in lontananza, si ode un trillo incessante che riempie di angoscia il silenzio del desolato appartamento di un quartiere ai margini. Sullo sfondo, un cono di luce avvolge il bel volto perlaceo di una ragazza, i capelli raccolti in uno chignon basso; nell’elegante abito rosso si muove a passo di danza come una bambola-carillon. Il faro si spegne, la ballerina svapora, appare Jennifer, farfalla dalle ali tarpate e dai sogni sbriciolati, tragica eroina come quelle interpretate dalla soprano greca, come loro, vittima di una passione disperata. Corpetto nero e vestaglia di raso rosso dal lungo strascico, fa il suo ingresso, come una diva di celluloide, sulla vertiginosa altezza del décolleté tacco 20.

Il suono è insistente, lei incede a passo lento, ha il terrore di rispondere malgrado aspetti da mesi la telefonata che, come recitava un vecchio spot di Massimo Lopez, ti salverà la vita. È consapevole che la promessa di Franco, il giovane bello come un David di Michelangelo che ha conosciuto in discoteca, di sposarla, è pura invenzione, ma ha bisogno di aggrapparsi a quell’illusione: «Ci deve credere per sopravvivere alla morsa gelida della solitudine – spiega Antonello De Rosa, da venticinque anni volto corpo anima della figura icona della drammaturgia degli ultimi di Annibale Ruccello –. Chi di noi non è in attesa di qualcuno o qualcosa che non arriverà mai? Le sue ossessioni, i suoi fantasmi della mente sono anche i nostri. Abbiamo tutti bisogno di sperare: Jennifer siamo noi, tesi alla ricerca spasmodica di un briciolo di felicità. Jennifer è un trans, ma se scaviamo nel profondo del suo essere semplice e complesso, scopriremo che è molto più vicino a noi di quanto possiamo immaginare. Soprattutto in questo tempo segnato dalla pandemia che ci ha reso più soli e impauriti, acuendo, dall’altra parte, gli odi ed i razzismi».

L’attore salernitano, che ha creato a Roma un’accademia gemella a quella storica di Scena Teatro nata con una mission innanzitutto sociale, porta nella Capitale, per la prima volta, Jennifer-Il Sogno, tratto da Le cinque rose di Jennifer con cui Ruccello esordì, ventiquattrenne, nel 1980. A ospitarlo per tre giorni, da domani 7 dicembre al 9, è l’Off/Off Theatre di via Giulia (info e prenotazioni 0689239515), uno spazio libero, fuori dalla routine di spettacoli già piazzati, che, con la direzione di Silvano Spada, offre un cartellone di qualità.

Di versioni di Jennifer ce ne sono tante e altre ne verranno, ma questa diretta e interpretata da De Rosa – sul palco con Caterina Ianni e Marianna Avallone (direzione organizzativa del vulcanico Pasquale Petrosino) – ha qualcosa di speciale, perché lui, come disse Andrea Camilleri nell’assegnargli il premio omonimo ad Agrigento come migliore spettacolo, migliore regia e migliore interpretazione, «non fa Jennifer, è Jennifer», la «più bella Jennifer che ho visto» per Pino Strabioli, regista teatrale, attore e conduttore televisivo che ha già battezzato ad agosto, nei Giardini della Filarmonica di Roma, il debutto capitolino dell’amico Antonello con Traccia di mamma.

La storia è nota. Jennifer è un’ombra leggera ed incerta sulla linea sottile che divide il femminile dal maschile, continuamente alla ricerca di sé, della sua sessualità, della sua natura di uomo, della sua verità di donna. Deportata dai Quartieri Spagnoli, insieme ad altri femminielli, in un rione periferico di Napoli, vive sospesa tra sogno e realtà, nell’attesa di qualcuno che la ami per quella che è: né uomo né donna veramente, ma uomo e donna contemporaneamente. Crede, spera che quel qualcuno sia Franco, occasionale amante di una notte, aspetta una sua telefonata, ne arriveranno altre, tutte sbagliate, mentre la radio diffonde, insieme a canzoni di Patty Pravo, Mina, Edith Piaf e Rosanna Fratello, la notizia di un serial killer che si aggira nel nuovo quartiere dei travestiti. Jennifer risponde, parla, ride, grida, insulta, si agita, sempre oscillando tra il riso ed il pianto, tra il comico ed il tragico. «Le voci che ascolta – scrive De Rosa nelle note di regia – sono voci che arrivano dal mondo al di fuori di lei, che da sempre la esclude perché “diversa”, o forse più semplicemente che salgono dal fondo più intimo del suo cuore, come ancora per sentirsi un po’ meno sola».

Si avvicina l’orario del presunto appuntamento. Jennifer si fa bella per Franco. La scena della barba è la più poetica dello spettacolo. Il gesto è prettamente maschile, ma il movimento del braccio, fluido e armonico, è femminile. Dietro di lei un’ombra prende forma, riappare la bambola carillon, alter ego della fanciullezza innocente della bambina che Jennifer avrebbe voluto essere. Il Jennifer adulto, trans romantico e melanconico, si trucca, s’infila un kimono giallo e turchese, si avvolge della dolce follia di un amore che possa lenire il dolore. Suona il campanello, prende vita l’altro personaggio, Anna, che De Rosa, allontanandosi dal copione senza però tradire Ruccello, ha voluto donna e non femminiello, una donna infelice, chiusa nel cerchio della solitudine e specchio di Jennifer. L’incontro sarà l’ultimo siparietto divertente prima che la tensione esploda. La telefonata surreale con l’amica Janice, il ritorno di una Anna delirante perché le hanno ucciso il gatto… Jennifer resta sola col suo bagaglio di tristezze. Non ha più una linea di protezione, è stanca di camminare ai bordi di una società che lo respinge e di sogni che si rivelano incubi. Si sveste, si toglie le ciglia finte, i tacchi, indossa un pantalone e una giacca nera… L’orologio ritma il tempo che va a finire. Un colpo di pistola. Indifferente squilla il telefono.

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