Itinerari per un giorno di festa
Un Eden per l’ozio
Ricostruito un unicum di architettura, urbanistica, storia, costume. Sono i mitici Horti Lamiani, area archeologica nel sottosuolo capitolino dove si rifugiavano per lo svago gli imperatori dalla dinastia Claudia a quella dei Severi. Finalmente oggi restituiti al pubblico nel Museo Ninfeo
Una lastra di marmo candido, lucente, tanto è incontaminata. Basta forse da sola a testimoniare quanto preziosa sia l’area archeologica che il sottosuolo capitolino ha restituito alla città. È il Museo Ninfeo di piazza Vittorio Emanuele, nel palazzo rinnovato della Fondazione Enpam, l’ente previdenziale dei medici e degli odontoiatri. Si entra nell’elegante atrio al numero civico 78, si scende di un piano attraverso una suggestiva scala elicoidale che reca istoriati i nomi dei medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid e ci si trova in un dilatato spazio bianco, nel quale l’illuminazione restituisce il lattiginoso chiarore del giorno. E un possente tratto di mura dei primi secoli dopo Cristo, lo spazio circolare di un ninfeo, ricostruzioni in 3d, pannelli illustrativi, parte di un affresco lungo quindici metri ricomposto assemblando 90 mila frammenti, bacheche ricolme di reperti ci restituiscono la storia di un luogo mitico, gli Horti Lamiani: là dove si deliziò uno degli homini novi che ruotavano attorno a Mecenate, Lucio Lamio appunto, e dove poi, restituita la zona al demanio per disposizione testamentaria del cavaliere morto nel 33 dopo Cristo, si rifugiavano per lo svago – l’otium – gli imperatori dalla dinastia Claudia a quella dei Severi.
Insomma, secoli di storia ha restituito lo scavo, compiuto in due tempi (2006-2009; 2010-2015), allorché la Fondazione Enpam, preso atto del tesoro celato nelle fondamenta del suo palazzo umbertino, avviò la collaborazione con la Sovrintendenza Speciale di Roma e a sua volta questa ha affiancato a 12 archeologi decine di specialisti delle diverse branche, a ricostruire in cinque anni di studi un unicum tra architettura, urbanistica, storia, costume. E non sono narrati soltanto i secoli dell’impero, ma quelli della Repubblica (qui c’era un sepolcreto, che l’urbanizzazione del primo secolo avanti Cristo sostituì con lussuose ville per i nuovi ricchi), e quelli a venire, fino a oggi: e infatti, nel Medioevo la zona dell’Esquilino era attraversata dai pellegrini che sostavano presso chiese e conventi (Santa Maria Maggiore, Sant’Eusebio, Santa Croce in Gerusalemme) e si dirigevano verso il Laterano imboccando la via Labicana; nel Rinascimento famiglie blasonate eressero ville suburbane, memori del lusso imperiale; nell’Ottocento i piemontesi ridisegnarono Roma capitale d’Italia e per far spazio alla vastità di Piazza Vittorio Emanuele simbolo del potere sabaudo buttarono giù le residenze degli Altieri, dei Palombara, salvando solo i Trofei di Mario e la Porta Magica; infine, il ritorno dell’antico – del quale pure aveva consapevolezza Rodolfo Lanciani – con gli scavi degli anni Duemila e la nascita del Museo Ninfeo, che apre al pubblico il sabato e la domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18.
Ma ritorniamo alla bianca lastra di marmo. È l’unica rimasta della pavimentazione dell’aula a cielo aperto voluta da Alessandro Severo: la chiudevano ai quattro lati mura rivestite di marmi provenienti dai più lontani luoghi dell’impero; la ornavano fontane con giochi d’acqua zampillante, aiuole fiorite delle specie esotiche e profumate d’essenze mediterranee, sculture, erme, vasi, il ninfeo. I dignitari passeggiavano tra l’incedere di cerbiatti, pavoni, struzzi. Un Paradiso degli imperatori, a partire da Caligola, che riceveva qui gli ambasciatori come in una domus aurea ante litteram, colma di meraviglie. Si tenevano ludi di fiere, al pari che al Colosseo, lì per il popolo qui per gli ospiti più altolocati: nelle gabbie erano rinchiusi orsi e leoni, dei quali si sono trovati ossa e denti. Si banchettava con stoviglie raffinatissime, coppe di vetro istoriato, anfore legate ai commerci di spezie, olio, nettari. Di lusso parlano i monili tratti dai 30 mila metri cubi di terra movimentati. E tra il milione di reperti i tremila esposti in eleganti bacheche e cassetti mostrano sementi di provenienza mediorientale, gusci di ostriche dai regali banchetti, anelli, orecchini, pendenti, pietre preziose, lucerne, avori istoriati, pentole, stoviglie. Perfino rottami di vetro, dalle lastre che Caligola – estrema raffinatezza, una lavorazione sviluppata in Siria – volle alle finestre, al posto dell’alabastro, perché la luce del sole entrasse senza filtri. Lo racconta Filone Alessandrino nella Legatio ad Gaium: dunque Caligola passeggiava negli ex Horti Lamiani con alcuni ambasciatori quando «prima si precipitò di corsa nella sala grande, ne fece il giro e ordinò che le finestre tutto intorno venissero restaurate con materiale trasparente come il vetro bianco…».
Altri interventi strutturali furono disposti dal successore, Claudio, che dispose fosse rifatto l’impianto idrico: e infatti ecco una tubatura con impresso il suo nome. Della vita quotidiana, delle merci, dei porti e dei trasporti raccontano anche i frammenti di materiali gettati nel canale drenante sotto il manto erboso. Mentre teche espongono i marmi venuti da tutto il mondo allora conosciuto: il giallo antico della Numidia, il serpentino e il rosso antico della Grecia, il granito, il pavonazzetto, il broccatello di Spagna, il cipollino dell’ Eubea…. Del cammino dei pellegrini rivela la latrina del IX secolo addossata al muro severiano perché reca incisa una scritta in caratteri runici. Dei giardini pensili e dei camminamenti tra i viali parla un tratto di scalea in marmo. E delle trasformazioni dell’area verde dal I secolo avanti Cristo al V-VI dopo Cristo raccontano testi e resti botanici: non solo la natura coltivata all’interno dell’aula imperiale en plein air, ma quella lasciata alla condizione spontanea fuori dal recinto. Così la residenza dei regnanti si proponeva come urbana e al tempo stesso di campagna. I grandi pannelli illustrano – con uno stile che richiama la grazia floreale del liberty – personaggi a passeggio in questo Eden. I visitatori sognano quell’hortus conclusus antico-romano mentre fuori, oltre una metaforica siepe, romba il traffico convulso della città.