“I cigni neri” di Enrico Fraccacreta
Quando si alzerà il ciclamino stordito
Un professore non professore, una comunità di giovani fragili a cui dare speranza attraverso un corso agro-forestale che li immerge nella bellezza del Gargano. Da qui sgorga la poesia piena di amore e attenzione della nuova raccolta dell’autore pugliese
Viene da pensare che questo libro di poesia di Enrico Fraccacreta, appena pubblicato da Passigli, dal titolo I cigni neri, valga come una preziosa testimonianza su come l’approccio al disagio psichico, che sappiamo essere un tema tanto sensibile e gravoso, possa passare anche da vie ‘secondarie’, rispetto al livello più istituzionale, come la cura della vegetazione e dell’ambiente e la relativa attiva applicazione a esse. Ma appare anche assai interessante leggere di questo tragitto atipico, rifacendosi alla ‘verità’ del verso, quello di Fraccacreta, contraddistinto da tensione creativa e forte andamento lirico. E vale pure, nella considerazione dovuta a questa opera, il raro slancio d’amore che il poeta dimostra verso una piccola comunità segnata dalle difficoltà.
Fraccacreta (nella foto) evita di tenere, come docente e poi come scrittore, nei confronti dei giovani che vivono l’assedio del disagio e la mancanza di prospettive, posizioni moralistiche o toni professorali, piuttosto il suo impegno è sostenuto da una apertura mentale e da un sentire le loro difficoltà non come un impedimento o una condanna, ma solo come un possibile gradino tortuoso della vita, a volte inevitabile, date le situazioni di partenza, sicuramente superabile. Siamo di fronte, come il poeta specifica in una nota iniziale, a un corso agro-forestale, in terra pugliese, rivolto a soggetti con alle spalle condizioni personali fragili. Misura, discrezione e comprensione sono il filo della narrazione, dove il pensiero del poeta è quello di non voler insistere su quella ferita perdurante che segna il corpo e la mente di questi giovani. L’azione, e la conseguente poesia, non diviene mai un semplice volgersi sulla marginalità, ma si fa empatia, partecipazione e disponibilità di un educatore verso un gruppo di discenti, intrappolati in un vasto vuoto. Una relazione virtuosa che evidenzia la propensione a condividere le frustrazioni, i disagi, i tic nervosi, le apprensioni dei ragazzi. Così questo professore non professore che sicuramente ha conosciuto la storia della Scuola di Barbiana, ci appare in tutta la sua dimensione umana. E la bellezza di questa poesia sta proprio nel parlare di problemi scottanti e gravi, senza minimamente indugiare sul tema del dolore, del disagio psichico, della difficoltà a insegnare a soggetti fragili. Fraccacreta vuole ‘convertire’ i cigni neri alla delicatezza del fiore, alla potatura delle piante, e ancora alla cura del campo e degli alberi, quindi al censimento della flora del Gargano, all’attenzione verso un paesaggio certamente unico.
Perché poi questo libro è anche una piccola traccia del regno vegetale di quella zona, con i suoi fiori, gli alberi, gli arbusti e tutto il resto; e una lente su una terra dagli squarci luminosi, nonostante tutto. Fraccacreta è un esperto della materia e un conoscitore del Gargano e del grande Tavoliere, e ciò, più che per la sua laurea in scienze forestali, per l’attenzione e l’amore che dedica a un mondo che non considera certo ‘altro’. Amore e attenzione verso queste terre, verso la natura, le tradizioni e le persone, insomma a quel ‘tutto’ che vive profondo in lui, che già fu argomento dell’eccellente raccolta del 2015, Tempo ordinario. Ecco allora la delicata osservazione e il paziente riguardo, la passione e l’emozione riservate a ogni piccolo fiore o arbusto o pianta, o verso i paesaggi incantati che diradano al mare, o danno sul lago di Lesina. E le descrizioni che ci consegna divengono così puramente poetiche, tanto da far trasalire il lettore, e far pensare che Fraccacreta sia tra i pochi poeti che sanno della natura e del paesaggio: «ma inciampa per un attimo sulla campanula garganica/ e la sua compagna di colori, l’orchidea quadripuntata,/ rammenta che la spinacristi è l’unico arbusto rispettato dalle bestie»; «… le grandi euforbie/ l’origine, le eroiche colonizzatrici della terraferma/ le prime piante della vittoria».
Il poeta diventa così parte di questa natura garganica dove il gruppo opera, e soprattutto parte della piccola comunità. Si intravede un lavoro duro e uno slancio deciso, ma infine anche un risultato positivo e una giusta soddisfazione, perché la passione posta è segnata dal lume di un possibile abbraccio: «Solo quando si alzerà il ciclamino stordito dall’alba/ toglieranno i picchetti delle tende/ e le certezze dei sogni/ raccontati ai più giovani per tenere in braccio le notti,/ solo allora scenderanno con le lanterne accese/ che hanno i ragazzi in pace col mondo». Il prezioso passaggio appare soprattutto dovuto al confronto del gruppo con la bellezza di quei luoghi, tanto che pare che anch’essi divengano ‘pezzi’ di questo ambiente. Enrico Fraccacreta parla dei suoi allievi con delicatezza e rispetto, delineandone la figura con connotati a volte legati alla loro storia, come nel caso di Antonio, il quale «racconta che era venuto al mondo/ con le prime luci delle lampade cimiteriali,/ si era dimenticato dell’infanzia/ delle voragini dentro casa,/ il sole che si eclissava dietro i vicoli/ sparito, remoto in lontananza/ era l’alba dei suoi sotterranei».
Oppure riferendosi al momento di una vibrante attività didattica: «A lezione di coltivazioni/ l’ultimo arrivato sentenzia sulle file binate di semina/ escludendo a primavera le balze di pianura/ rivestite di girasoli/ che con la luce verticale si voltano di colpo/ e le grandi corolle dell’esercito scoppiano/ e sembrano tanti birilli abbattuti/ dalla grande pallida sfera del sole». E comunque ci pare che tutto sia segnato da una speranza, seppure controversa, quella di un risarcimento, di una rinascita, di un chiarore che possa giungere agli occhi: «la luce che trema ad essere così vicina/ salvezza che attende e rende sottile ogni distanza./ Ora marciano col petto in avanti sino alla statale sedici/ poi girano indietro e ognuno a casa propria,/ chi al pranzo della domenica/ qualcuno manda un bacio alla fidanzata triste/ i giovani chiamano le madri con un mezzo grido/ prima di tornare tutti nella terra».
Nell’immagine vicino al titolo: Henri Matisse, “Cyclamen Pourpre”, 1912