A proposito de “Le rondini di Kabul”
L’inferno afghano
Lo scrittore algerino Jasmina Khadra dall'esilio di Parigi racconta gli orrori umani (e religiosi) di Kabul: quasi un reportage in forma di romanzo per spiegare come la vita sia calpestata quotidianamente dall'ignoranza, dal fanatismo e dalla presunzione di superiorità
C’è una città (e un intero paese) della quale rischiamo di dimenticarci, che si accartoccia lontano dalla nostra sempre più indebolita memoria. Siamo stati costretti a spegnere le nostre sofisticate telecamere su una terra dura, aspra, dolente, sconfitta, quotidianamente umiliata, a tal punto che non è un’esagerazione pensare al ritorno all’età della pietra. Parliamo di Kabul, l’inferno schiacciato ora dalla cappa del silenzio. Sconfitti gli afghani, sconfitti noi, appartenenti a quell’occidente che i vari iman (sacerdoti e predicatori talebani) associano al diavolo e lo considerano «fasullo» e portatore di morte (camuffata, fino a pochi mesi fa, dall’idea di democrazia). Prima la feroce invasione sovietica, «con la sua armada da gigantismo conquistatore», poi la presenza corrotta degli americani, che non ha sostanzialmente mutato gli equilibri sociali. Se ne sono andati via, lasciando macerie fisiche e morali.
Per capire quel che succede e per sottrarci alla brutalità dell’indifferenza e dell’ignoranza, c’è per fortuna il reportage, sotto forma di romanzo, dello scrittore algerino Jasmina Khadra, esiliato a Parigi per motivi politici. Continua a firmarsi col nome della moglie. Le sue opere sono tradotte in venti lingue. L’ultima, dolente e formidabile, è stata ora pubblicato da Sellerio (Le rondini di Kabul, 232 pagine, 14 Euro). L’Afghanistan una volta era il paese, appunto, delle rondini, dei papaveri e degli aquiloni. Ora è un nulla senza voce.
Scrive Kadra nella prefazione: «Kabul è diventata l’anticamera dell’aldilà. Un’anticamera oscura, dove i punti di riferimento sono adulterati; un calvario pudibondo; un’insopportabile latenza osservata nella più stretta intimità». È vietato essere allegri, il ridere è una bestemmia, l’amore s’annida chissà dove e chissà come. Le donne, principali vittime, sono corpi da castigare, dopo averli usati. Alcune, poco importa la «colpa», vengono lapidate in pubbliche esecuzioni. Sono in molti a camminare di notte. Il caldo di giorno è insopportabile. È calata sul paese un’altra peste: la siccità. Praticamente non c’è più asfalto. Se passa un camion o un furgone, si solleva una polvere accecante. L’autore non accenna a un altro fattore climatico: in inverno il termometro scende a meno venti gradi. Non lo scrive ma lo sa. L’Afghanistan è terra degli eccessi.
Si fa la spesa ai mercatini, con l’incubo delle frustate. I talebani dominano con lo scudiscio. «Ormai – scrive Khadra – i viali di Kabul non ridono più… i negozianti hanno appeso il sorriso al chiodo… gli uomini sono trincerati dietro le ombre cinesi, e le donne, mummificate in sudari del colore della paura o della febbre, sono assolutamente anonime». La gioia fa parte ormai dell’elenco dei peccati capitali.
Khadra narra del giovane Moshen Ramat che assiste alla lapidazione di una prostituta. L’accadimento lo scombussola e s’infiltra nella vita di coppia. Dirà alla moglie Zunaira, donna «bella come il sole, col volto senza una ruga e gli occhi immensi, splendenti come smeraldi», di essere ormai inebetito. «Sono cambiato – le sussurra – stamattina ho fatto qualcosa di impensabile… non so come possa essere stato travolto in un gorgo… anche io mi sono sorpreso a raccogliere sassi per mitragliare quella donna… ho paura di me, non mi fido più dell’uomo che sono diventato». Moshen, una volta borghese acculturato e benestante, chiude le tende della sua miserabile casa. Cammina a lungo e disperatamente, senza alcun punto di riferimento. A ogni ora del giorno e della notte, ci sono uomini che si accovacciano e si appoggiano ai muri. Allungano la mano per un’elemosina. Sono senza alcun riparo. Moshen a casa non riesce più a dormire. Guarda il soffitto. Ricorda che la settimana prima, nella stanza accanto, un brandello di muro si è staccato, rischiando di seppellire Zunaira.
La donna si trincera in cucina. Poco dopo i due cenano in silenzio, «lui prostrato, lei assente». Praticamente non mangiano nulla, mordicchiano distrattamente un pezzo di pane. Quasi un’ora per inghiottire il boccone. Poi Moshen esce, lasciando la moglie «distesa sopra una stuoia, le ginocchia contro il ventre, voltata verso un muro». Il giovane uomo chiude la porta di casa. Non sa dove andare: non ritiene necessario allontanarsi. «Si siede sulla soglia, si mette a braccia conserte e cerca una stella nel cielo. In quel preciso momento un uomo sbuca davanti a lui come una belva e divora la viuzza con passo stizzito. Il riflesso di un raggio di luna ne illumina il volto incartapecorito; Moshen riconosce il carceriere che poco prima, sulla soglia di un chiosco, stava per sferzargli il viso con lo scudiscio».
L’altro protagonista che l’autore algerino pedina con dolente e smarrita attenzione si chiama Atiq Shaukat. Non ne può più di restare in quella oscura topaia, non si sente bene. «La frescura della piccola prigione riacutizza le sue vecchie ferite… è preso dalla claustrofobia; non sopporta più la penombra né l’angustia dell’alcova che gli serve da ufficio, ingombra di ragnatele e cadaveri di porcellini di terra. Ripone la lanterna, insieme alla borraccia in pelle di capra e allo scrigno foderato di velluto bel quale riposa un voluminoso esemplare del Corano, arrotola la stuoia per le preghiere, l’appende a un chiodo e decide di andarsene». Atiq da qualche mese fa il carceriere, ha 43 anni e un corpo logoro. Il suo compito è quello di sorvegliare i condannati a morte che aspettano di essere trasferiti altrove, afferrati dalle mani del boia. Pone le chiavi sotto il gilet e si dirige verso il mercato infestato da mendicanti e facchini. S’inoltra tra suoi simili che s’aggirano tra banchi di fortuna, voltando e rivoltando gli abiti usati, frugando tra le anticaglie in cerca di si sa che cosa, «ammaccando con le dita scheletriche frutti troppo maturi». Poi chiama un ragazzino e gli ordina di portare a casa sua un melone. Lo terrorizza – «Cerca di non perdere tempo per strada!» – e lo minaccia con lo scudiscio. Scambia qualche parola con storpi e miserabili, alcuni dei quali mostrano i loro mezzi arti, testimonianza di una scarica di missili sovietici. Tutti sanno della moglie di Atiq, corrosa dalla malattia. Lui si limita a rispondere che nessuno può aiutarlo. Un suo conoscente, lisciandosi la barba tinta di henné, scrolla la testa e dice: «Non è forse la volontà di Dio?». E Atiq: «Già, chi oserebbe ribellarsi a essa… l’accetto pienamente, con infinita devozione, ma sono solo e spaventato…». «Molto semplice, Atiq: ripudiala». Lui non vuole, ricorda che la donna un tempo l’ha aiutato… e poi è sola, non ha fratelli o altri».
A questo punto l’amico del carceriere riassume così l’immagine e il non ruolo delle donne: «Lei ti ha curato perché Dio ha voluto così. Non, ha fatto che sottometterei alla Sua volontà. Tu hai fatto cento volte di più per lei: l’hai sposata. Cosa poteva sperare di più una zitella spenta e priva di fascino, di tre anni più vecchia di te? Si può essere più generosi con una donna che offrirle un tetto, un nome, protezione e onore? Tu non le devi niente. Spetta a lei inchinarsi davanti al tuo gesto, Atiq, e baciarti, una per una, le dita dei piedi ogni volta che ti togli le scarpe. Lei non significa granché all’infuori di quel che tu rappresenti per lei. È solo un essere inferiore. E poi, nessun uomo deve alcunché a una donna. La rovina del mondo deriva proprio da questo malinteso… non sarai così pazzo da amarla?».
Poche parole, bastanti però a disegnare l’ingombrante figura femminile. Non c’entra l’amore. C’entra la legge del Corano, c’entra il furioso abbaiare di un qualsiasi mullah infervorato. Già: Muslim significa sottomissione. Parola che, se allargata all’intera società, spiega che tutti, con o senza lo scudiscio, devono spazzar via come una mosca ogni barlume di compassione. Allah non lo vorrebbe. «Allora, che cosa aspetti a cacciarla da casa? Ripudiala e concediti una vergine sana e robusta, che sappia tacere e servire il suo padrone in silenzio… non voglio più vederti, Atiq, solo in strada come uno scimunito. Soprattutto per colpa di una femmina, Offenderebbe Dio e il suo profeta».
Atiq ha orrore delle ciotole che qualcuno lascia davanti ai muri, destinate alle vedove e agli orfani. «Non gli piacciono i loro gemiti quando si prosternano né la loro morbosa sonnolenza durante le prediche». Così non gli piacciono le lamentazioni della moglie molto malata e quindi pensa di evitare il letto sfatto di casa sua, le stoviglie dimenticate nei catini maleodoranti e sua moglie rannicchiata in un angolo, la testa cinta da un sudicio velo. Torna comunque a casa, dalla sua Mussarat, che non vuole abdicare ai tormenti del suo corpo. Sulla donna posa uno sguardo penetrante e le chiede: «Ho fatto qualcosa che ti ha offesa?». Lei, sorprendentemente replica: «L’umiliazione non è nell’atteggiamento degli altri, qualche volta risiede nel fatto di non accettarsi».
Una frase che si pone a miglia di distanza dai discorsi fanaticamente beceri, ostinati, violenti, tutti ben ancorati all’idea che la donna debba essere umiliata, essendo una cosa da scambiare con un’altra alle prime avvisaglie del disagio e del dolore. Mussarat con molta fatica si è mossa per casa, ha cercato di reagire governando pulendo ciò che riesce a pulire. Non si dà per vinta, pur piegata dal dolore e dalla sovrumana fatica. Ma lui non sfiora la riconoscenza: «Ma che cosa vai cercando, donna… non hai bisogno di aggravare le tue condizioni solo per dimostrarmi chissà che cosa». Il dialogo che segue – saggia lei, ottuso lui – non risolverà niente. Non sono, non possono essere, discorsi d’amore o solo di tenerezza. Kabul del purgatorio al costante limite dell’inferno spezza la schiena e la mente di un intero popolo, spiato, offeso, castigato o mandato a morte da uomini con la barba, con le armi, con il sadismo che viene sempre agganciato ai dettami di un dio mai stanco di ferire o ammazzare.
Atiq, nella penombra del carcere incontrerà una donna che si toglie il velo. Uomo ha una frenesia immobile e pensa all’anziano amico che tenta di scavalcare, con le sue residue forze e uno sguardo allucinato, i pietrosi confini di una città ridotta a macerie, fame e violenza.