Alla Galleria di Palazzo Barberini di Roma
La mano di Giuditta
Una bella mostra mette insieme la celebre tela "Giuditta e Oloferne" di Caravaggio e una serie di ritratti della donna "giustiziera" realizzati da Artemisia Gentileschi. Uno squarcio importante sulla pittura del tempo e sui diritti negati
Com’è il volto di chi si rende conto che gli stanno tagliando la testa? E quello di chi compie l’omicidio ai danni di un infame oppressore, atto di estrema giustizia? Li restituisce, con intensità mai fino ad allora toccata, il Caravaggio. Lo fa in una grande tela del 1599, tra i capolavori dell’incipiente XVII secolo. Si chiama Giuditta e Oloferne, rimanda al racconto biblico sulla intrepida vedova della città di Betulia che salva il popolo ebraico dalla tirannia degli Assiri decapitando il loro sanguinario comandante. Il dipinto è tra i più importanti della Galleria di Palazzo Barberini. E attorno ad esso è costruita la mostra “Caravaggio e Artemisia, la sfida di Giuditta” che resterà aperta fino al prossimo 27 marzo. Meglio, oltre che alla mirabile opera caravaggesca, i 31 quadri esposti grazie a prestigiosi prestiti ruotano intorno alla vicenda della ebrea, considerata esempio di coraggio e virtù, tema richiesto spesso dai committenti dell’epoca, anche nelle corti europee. È l’idea della curatrice, Maria Cristina Terzaghi, accolta con entusiasmo dalla direttrice delle Gallerie Nazionali Flaminia Gennari Sartori.
In tal modo la rassegna intercetta non solo il fil rouge della vicenda biblica così come è stata rappresentata, ma il sentire della società al passaggio dal rinascimento al barocco, il milieu dei committenti e degli artisti. Perché Caravaggio dà vita a una scena rivoluzionaria, fatta di violenza ma anche di consapevolezza mai viste. Infatti, come danno conto le tele della prima sala, il Manierismo si avvicina con cautela all’effetto pulp della decapitazione. Accade nel grande dipinto orizzontale di Tintoretto: una tenda accoglie il corpo esanime di Oloferne, e la giustiziera copre con un drappo lo scempio, mentre la testa mozza è relegata nell’angolo basso a sinistra del quadro.
Caravaggio no, mette in primo piano la spada che affonda nel collo e fa piegare la testa in modo innaturale (i pentimenti rivelano che il pittore era consapevole che due, nella Bibbia, furono i fendenti riferiti, risolutivo nella decapitazione il secondo). E illumina il volto concentrato dell’eroina, consapevole di fare la storia, ispirata da Dio. Alla sua bellezza sensualmente risoluta fa da contraltare la faccia scura e rugosa della serva Abra, in un contrapposto giovane/vecchia teorizzato da Leonardo da Vinci. Il quale altresì consigliava di andarsi a vedere le esecuzioni capitali, per formarsi sulle forti emozioni. E nell’anno in cui Caravaggio realizzò, a Roma, il dipinto, avvenne la decapitazione di Beatrice Cenci. “Non che il volto di Giuditta sia quello della giovane nobildonna giustiziata per parricidio – spiega Terzaghi – ma Caravaggio avrà visto e potrà essere stato influenzato dall’episodio”.
Ma la dice lunga anche l’altra protagonista del titolo, Artemisia Gentileschi. Che a Giuditta ha dedicato più di una tela, avendone familiare dimestichezza per le opere col medesimo soggetto realizzate dal padre, Orazio. Troviamo dunque nella terza delle quattro sezioni la sconvolgente “Giuditta” proveniente dal Museo di Capodimonte, dipinta a Roma nel 1612. Qui la affianca una ancella giovane. Le quattro braccia delle donne si incrociano tese nello sforzo. Una tiene ferme le mani dell’assiro, l’altra gli affonda il pugnale nel collo. Come in Caravaggio, che Artemisia venerava, il fendente della luce cade sulla spalla bloccata e contorta di Oloferne, sulle braccia e sul volto di lei. Ma la scelta della giovane complice significa che non basta la forza di una sola donna per vincere quella di un uomo. E può alludere al vissuto di Artemisia. La quale fu violentata nella casa paterna dal pittore Agostino Tassi, che promise di sposarla, ma non mantenne e fu portato in giudizio. Il rancore di Artemisia – suggerisce Terzaghi – non si indirizzò tanto contro l’uomo, quanto contro l’amica e inquilina Tuzia, rea di non averla aiutata nella torbida vicenda. L’altra “Giuditta” di Artemisia viene dagli Uffizi, è del 1615 ed è simile nella impostazione alle attigue tele di Orazio Gentileschi. In entrambi la decapitazione è avvenuta, le due donne, mute e sole, sono in fuga, la testa del comandante in una cesta. È un’Artemisia meno tragica, introspettiva piuttosto, a riflettere sul proprio passato a Firenze, dopo essersi maritata.
“Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento” è il sottotitolo della rassegna, un filone che conclude la quarta sezione, con dipinti su altre figure bibliche accostate a Giuditta. Sono David, che con l’astuzia mozza il capo a Golia (opere di Cristofano Allori e di Valentine de Boulogne, prestato dal Thyssen di Madrid), e Salomè, lasciva assassina del Giovanni Battista, ma nella vicenda di amore e morte accomunata alla vendicatrice Giuditta, che ebbe ragione di un Oloferne ebbro dopo il banchetto-trappola approntato per lui.
Significativamente, l’inaugurazione della mostra di Palazzo Barberini è avvenuta nella Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. Ma c’è un’altra ricorrenza a caratterizzarla: i settant’anni dal ritrovamento del capolavoro di Caravaggio e i cinquanta dall’acquisizione da parte dello Stato Italiano. Una storia rocambolesca, come la maggior parte delle agnizioni del nostro patrimonio artistico. Nel 1951 infatti a Palazzo Reale di Milano Roberto Longhi allestì la prima grande rassegna sul Merisi. Visitandola Pico Cellini, tra i maggiori restauratori del Novecento, identificò in un catalogo sulle opere scomparse del Maestro una “Giuditta” che aveva visto in una dimora romana, quella di Vincenzo Coppi. Riuscì a ritrovarla al medesimo indirizzo, in via Giulia, a fotografarla e a mostrarla al Longhi, che ottenne una proroga di due settimane per poterla esporre a Milano. Si ricostruì tutta la vicenda del quadro. I Coppi lo avevano ereditato a metà Ottocento dalla famiglia Costa, che nella figura del banchiere ligure Ottavio aveva commissionato il dipinto a Caravaggio. E ne era gelosissimo, tanto da aver disposto di non alienarlo mai. Non solo, ma finché restò in vita (ovvero fino al 1639) lo tenne nascosto, coperto da un telo, proibendone qualsiasi riproduzione. E però, se non esistono copie fedeli, qualcuno riuscì ad averne la descrizione, come Giuseppe Vermiglio e a Napoli, quando Merisi vi si trasferì, Louis Finson. E fu uno choc, per l’arditezza sconvolgente della scena che ispirò molti, divenendo di culto. Ieri come oggi.