Periscopio (globale)
Irregolare Bianciardi
A cinquant'anni dalla morte, l'avventura solitaria e problematica di Luciano Bianciardi resta una testimonianza essenziale dell'identità italiana, piena di spinte al rinnovamento costantemente bloccate dalla morale borghese. Un muro che il suo "lavoro culturale" non riuscì a scalfire
C’è un prima e un dopo, nella vita di Luciano Bianciardi, ovvero c’è quello che si potrebbe definire uno spartiacque netto: è il momento dell’arrivo di questo provinciale combattivo a Milano, la città del progresso, della crescita, del boom, e al contempo di una difficilissima integrazione. Siamo nel giugno del 1954, e Bianciardi non è che uno dei tanti trentenni che dalla provincia (nel suo caso Grosseto) tentano la fortuna (nel suo caso giornalistica, letteraria e/o editoriale) là dove le cose avvengono, dove i capitali su muovono, dove la Grande Occasione – come l’avrebbe chiamata pochi anni dopo Raffaele La Capria – sembra essere al varco. Tutt’altro che culturalmente vergine e ignaro dei meccanismi della cultura, Bianciardi viene da un’intensa esperienza (o “lavoro culturale”, per usare l’espressione del suo primo libro): è già stato direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto e ideatore di un “bibliobus” che portava i libri nelle campagne; animatore di un cineclub e organizzatore di dibattiti e conferenze; autore, con Carlo Cassola, di una ricerca sociologica sui minatori della Maremma (pubblicata poi nel 1956 da Laterza), le cui propaggini e conseguenze soprattutto morali lo accompagneranno, come vedremo, anche a Milano; aveva inoltre avviato una serie di collaborazioni giornalistiche, non solo con testate locali, ma anche nazionali di una certa rilevanza, come Belfagor, Avanti!, Il Mondo e Il Contemporaneo.
L’arrivo a Milano ha però una specie di preludio, un mese prima, in un fatto di cronaca che lo segna profondamente: il 4 maggio del 1954 uno dei pozzi delle miniere di Ribolla, che sono al centro del libro scritto con Cassola, esplode causando la morte di 43 minatori. La reazione di Bianciardi, che aveva avuto modo di conoscere quelle famiglie e di analizzare le condizioni di vita di quei lavoratori, è rabbiosa e definitiva, tanto da portare appunto all’allontanamento e al trasferimento a Milano, dove accetta l’offerta di collaborare alla nascita di una nuova casa editrice fondata e finanziata da un singolare rivoluzionario miliardario, tale Giangiacomo Feltrinelli.
A Milano l’impatto con la realtà è duro, la lucidità di Bianciardi, totale e disarmante. Ne L’integrazione, romanzo del 1960, descriverà la metropoli come una zona depressa, non diversamente da certe del Meridione, con la differenza, scrive, che la derelizione vi è mascherata da progresso e modernità. Scompare qui, fra i detriti lasciati da una guerra lunga e fratricida, anche una delle costanti del modo di vivere italiano, l’idea della comunità: nelle grigie e corrose città moderne si può vivere solo come monadi, ormai incapaci di comunicare davvero, indifferenti a quanto ci avviene intorno. Angry young man ironico e disperato, sempre più ironico e sempre più disperato, Bianciardi contrappone le lusinghe della vita in provincia e quelle del presunto risveglio metropolitano per concludere che in nessuno dei due casi vi sarà l’auspicata riscossa, anzi (per dirla con un termine ottocentesco che amava) l’auspicato risorgimento di un’Italia profondamente malata. Dissacrante e coerente – al punto da farsi licenziare da Feltrinelli per scarso rendimento –, nei suoi libri Bianciardi denuncia il fallimento di una rivoluzione che avrebbe dovuto essere anzitutto culturale e che finisce per avvitarsi su se stessa, spianando invece la strada a un mero sviluppo (nel senso della contrapposizione pasoliniana fra sviluppo e autentico progresso) che indurrà un benessere fittizio, e in realtà, sebbene almeno inizialmente ben celato, quell’impoverimento morale se non materiale che non abbiamo ancora finito di scontare.
Se nel pamphlet Il lavoro culturale (1957) Bianciardi ironizzava sul mito della provincia quale serbatoio e inesauribile riserva di talento e talenti – e lo faceva dall’alto della sua esperienza personale e dalla distanza creata dal fatto di essersi nel frattempo inurbato –, nell’Integrazione, come in molti racconti e pezzi giornalistici coevi (si veda, se la si trova ancora, la raccolta Il peripatetico e altre storie, edita da Rizzoli nel lontano 1976), muove impietosamente all’attacco dell’industria culturale quale andava profilandosi appunto fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Discorso complesso e inesauribile, tanto che agli stessi temi, opportunamente variati e rimodulati, Bianciardi dedicherà due anni dopo un altro romanzo, quello suo di maggior successo, La vita agra: di maggior successo anche perché portato al cinema da Carlo Lizzani con protagonista un campione del grottesco, di fumigante ironia, come Ugo Tognazzi, ma non per questo più godibile o importante del romanzo precedente, di cui rappresenta semmai, appunto, una continuazione e una dilatazione, senza che in esso vada tuttavia perso il piglio parodico e la costante vena anarchica. Già il titolo, con l’evidente contrapposizione alla Dolce vita felliniana, dà un’idea degli intendimenti sarcastici e satirici dello scrittore, della sua voglia di sparigliare le carte. La storia è piuttosto nota, appunto anche grazie al film, e Bianciardi non vi nasconde la radice autobiografica: il protagonista è un intellettuale di provincia che sbarca a Milano con l’intenzione di far esplodere a scopo dimostrativo uno dei più rappresentativi palazzi della città, la sede di una società responsabile di un grave incidente minerario, ma la metropoli, con i propri meccanismi di sopravvivenza e la propria frenesia, finisce per avvolgerlo e neutralizzarlo. Storia “mediana e mediocre”, la definisce il suo autore, aggiungendo: “Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla. Direte che se finora non mi hanno mangiato le formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando?” Se qui stilisticamente Bianciardi paga un evidente tributo agli autori americani dell’epoca, da Henry Miller a Jack Kerouac, da Gore Vidal e Norman Mailer, di alcuni dei quali è stato traduttore, la sua abilità narrativa gli permette di dosare sapientemente gli effetti e di raccontare in modo divertente, ma al contempo profondo e spiazzante, le vicende del suo protagonista calato in una Milano di “integrati” o aspiranti tali, in una città che tutto e tutti accoglie e al contempo mortifica.
A differenza dei libri precedenti, per i quali si potrebbe supporre che il pubblico, e più ancora l’editoria, non fossero pronti, La vita agra è stato (a sorpresa) un notevole successo, che ha cambiato le condizioni economiche ed esistenziali dello scrittore, arrecandogli però anche qualche danno. Guai giudiziari, con le querele sporte da alcune persone alle quali Bianciardi si era ispirato trasformandoli in personaggi forse troppo riconoscibili; una delusione di fondo, legata al fatto che il successo del libro resta a suo parere superficiale e inoffensivo, non indurrà mai a un vero dibattito; difficoltà sentimentali, con un matrimonio fallito e una seconda lunga storia d’amore, quella con Maria Jatosti, che lentamente si sgretola, malgrado un tentativo di convivenza lontano da Milano, nella cittadina di Rapallo, che però non funzionerà mai come buen retiro e anzi acuirà l’isolamento esistenziale dello scrittore, che nell’ultimissimo periodo tornerà infatti a stabilirsi a Milano; problemi di salute, dovuti soprattutto all’eccessivo ricorso all’alcool. Prima della morte, che avviene esattamente cinquant’anni fa, il 14 novembre del 1971, Bianciardi farà tuttavia in tempo a testimoniare del suo interesse entusiastico per l’Ottocento e per il nostro Risorgimento, di cui è stato un illuminato interprete, con i volumi Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille (1960), La battaglia soda (1964) e Daghela avanti un passo (1968). Anche l’ultimo romanzo pubblicato, Aprire il fuoco (1969), è legato alle atmosfere risorgimentali e soprattutto agli ideali di solidarietà e di coesione sociale delle Cinque giornate, seppure riscritti e trasferiti di peso nella triste e “irrecuperabile” Milano a lui contemporanea.
Di volta in volta, Bianciardi è stato registrato dall’attonita industria culturale quale contestatore rivoluzionario o anarchico permanente (mentre la sua contestazione è di tipo satirico, e va calata nelle costanti stilistiche della sua opera) oppure come antropologo e sociologo che ha saputo prevedere fra i primi dove il neocapitalismo ci avrebbe portato – cosa, anche questa, vera solo in parte, poiché il discorso di Bianciardi è in larga misura letterario e tutt’al più giornalistico, tributario della cronaca, senza alcuna ambizione di rimandare a grandi costruzioni filosofiche, di cui semmai amerebbe dimostrare con sovrana ironia l’inconsistenza. Non è neanche il solo, del resto, ad affrontare in quegli anni temi di taglio sociologico che difatti s’imporranno, oltre che nella sua, nella produzione di autori a un tempo a lui prossimi e da lui dissimili come Paolo Volponi, Giovanni Arpino e Ottiero Ottieri. Segno di un air du temps che Bianciardi aveva però colto, come un sismografo, con la sua peculiare e allenata sensibilità. Sensibilità acuita che gli derivava anche dall’essere stato, soprattutto con il lavoro indefesso quale traduttore (un centinaio di volumi curati) e “collaboratore esterno” di Feltrinelli e altri editori, uno dei primi ad aver capito e provato sulla propria pelle le storture e le aberrazioni del precariato intellettuale. Bianciardi vive e descrive il “ritmo infernale” di un lavoro a cottimo, alienante alla stessa stregua di quello manuale, da vero proletario in una fabbrica culturale, lavoro visto come una specie di “intossicazione” e anche di profanazione del bene e del bello che la vita malgrado tutto elargisce – e per i traduttori in particolare, ma direi per quasi tutti coloro che aspirano a un lavoro culturale, in questi ultimi cinquant’anni ben poco è cambiato, se non forse in peggio.