Roberto Verrastro
I comportamenti durante la pandemia

Il paradigma dell’emergenza

Christos Lynteris, docente di antropologia medica, analizza il rapporto tra le situazioni pandemiche e le conseguenze che esse hanno sull'immaginario popolare. Tra paure del contagio e percezione dell'auto-estinzione dell'umanità

Tra realtà e immaginario della pandemia si destreggia brillantemente Christos Lynteris, docente di antropologia medica presso l’università scozzese di Saint Andrews, in un saggio intitolato Human extinction and the pandemic imaginary (Routledge, 177 p., 45,45 euro, ebook 26,19 euro), risultato di uno studio finanziato dal Consiglio europeo della ricerca. L’opera, scrive l’autore nell’Introduzione, «esplora i modi in cui la forza trasformativa del mito e l’autorità della scienza si fondono in un immaginario pandemico situato all’intersezione tra scienza, politica e produzione culturale». Un obiettivo raggiunto da Lynteris dialogando con l’ontologia politica del filosofo e psicoanalista greco Cornelius Castoriadis (1922-1997) che, nel suo scritto del 1975 L’istituzione immaginaria della società (pubblicato in traduzione italiana parziale nel 1995 dalla Bollati Boringhieri), distingueva l’immaginario istituente da quello istituito. Il primo è una forza creativa che, nell’individuo come nella società, porta costantemente all’essere figure e forme che sono la sostanza della realtà e della razionalità, diventando immaginario istituito quando le significazioni immaginarie (tra le quali, andando oltre la filosofia marxista della storia, Castoriadis includeva anche le istituzioni politiche e linguistiche), funzionano secondo sistemi simbolici socialmente sanzionati. Questa polarità teorizzata da Castoriadis chiarisce il ruolo dinamico, nello stesso tempo creatore e conservatore, dell’immaginario, compreso quello pandemico, in cui «l’assurdo è presentato come autoevidente per privare l’autoevidente del suo potere», osserva Lynteris, prendendo in prestito una sferzante espressione di Theodor Adorno.

L’analisi di Lynteris entra nel vivo nel secondo dei cinque capitoli del volume (Trasformazioni zoonotiche). Il paradigma dell’emergenza, tipico della pandemia in corso, «dipinge il contatto patogeno come inarrestabile, anzi, come il destino manifesto dell’esistenza umana», istituendo una nuova interrelazione tra l’uomo e gli animali, che crea le condizioni di possibilità per un immaginario pandemico di estinzione umana, sostituendo il precedente paradigma secondo il quale strumenti di controllo delle infezioni come il fuoco, la fumigazione chimica e il DDT erano il perno di immaginari igienici moderni, proprio in quanto mezzi dai quali la separazione dell’uomo dagli agenti patogeni di origine animale era invece garantita. Questa trasformazione epistemica, che ha reso la distinzione tra uomo e animale ontologicamente insignificante, ma biopoliticamente utilizzabile, ha avuto luogo negli anni Novanta del Novecento, quindi è storicamente recente: la globalizzazione è giunta a integrare in una misura senza precedenti non solo la diffusione delle malattie infettive, ma anche il ragionamento epidemiologico sul tema. Grazie al paradigma dell’emergenza il salto di specie zoonotico, una nozione che di solito si riferisce alla trasmissione di un virus ospitato in una specie animale a esseri umani che non ne erano mai stati toccati prima, sembra riguardare popolazioni che, ironizza Lynteris, «sarebbero vergini, nel senso che non ci sarebbero meccanismi immunologici in azione contro di esso». Anche nell’idea originaria di zoonosi, il contatto tra uomini e animali era la conditio sine qua non dell’infezione, ma come luogo di incontro che poteva essere purificato con la disinfestazione, bloccato con le trappole per topi o eliminato in altri modi. Il contatto era limitato in termini spaziali e decifrabile, perciò controllabile: solo nel paradigma dell’emergenza raggiunge quella che Lynteris definisce una evidente “vaghezza categoriale”.

Il contatto così caratterizzato, aggiunge Lynteris nella sua critica della ragione pandemica, agisce come cardine di una vera e propria metafisica dell’emergenza, perché rimane un noto-ignoto oggetto di divinazione o profezia, quando in realtà è solo uno dei fattori in gioco nelle pandemie, alla pari con il degrado ambientale, le pratiche culturali, l’economia politica, la pianificazione urbana e altri ancora. «Il contatto trasforma tutta l’interazione uomo-animale nel preambolo di uno spillover e l’interezza della vita sociale nell’anticamera dell’estinzione umana – nota l’autore – con quel che ne consegue nel governo della società attraverso la paura».

Lynteris prosegue nello smascheramento dell’immaginario pandemico nel terzo capitolo, Antropogenesi rovesciata, in cui sottolinea che «non c’è dubbio che la trasmissione di patogeni da umani a umani non è un processo omogeneo, e che in contesti differenti individui differenti infettano un numero più ridotto o più ampio di contatti, ciò che è noto come trasmissibilità eterogenea». L’operazione biopolitica che distoglie l’attenzione dalle cause infrastrutturali e processuali di una simile trasmissibilità si basa sul mito del superdiffusore, un individuo o un tipo umano eccezionale a cui imputare una quantità impressionante di contagi, una figura nata nella primavera del 2003, quando gli epidemiologi si ritrovarono con modelli teorici incapaci di spiegare la rapida diffusione del coronavirus SARS-CoV.

Tra gli episodi che smentiscono l’esistenza del superdiffusore, Lynteris ricorda quello di un addetto dell’aeroporto Chek Lap Kok di Hong Kong che, il 5 marzo del 2013, fu il primo a essere ricoverato presso il locale ospedale Principe di Galles come nuovo caso di SARS-CoV, venendo trattato con un nebulizzatore, dal quale il virus fu irrorato su altri pazienti nei paraggi, dando il via a un focolaio. Un incidente di superdiffusione il cui vero responsabile fu il medico o l’infermiere che usò il nebulizzatore, non il paziente indice. Il mito del superdiffusore non solo sorvola sulla natura sindemica, ovvero multifattoriale, di ogni epidemia, «ma genera anche un’urgenza la cui funzione biopolitica è quella di trasformare un problema di stato sociale in un problema di biosicurezza, facendo dell’epidemiologia del XXI secolo una disciplina inestricabilmente intrecciata alla più ampia economia politica globale neoliberale e dipingendo il contagio a guisa di un trasferimento decontestualizzato di germi tra gli individui, che richiede di installare un apparato di contenimento di persone biosocialmente pericolose».  Evitare di intendere le pandemie come consolidate da stress lavorativo e mancanza di addestramento del personale medico, da infrastrutture ospedaliere sottofinanziate e mal gestite, «dirige l’attenzione e i finanziamenti verso il sistema di biosicurezza, lasciando intatto il paradigma neoliberale attraverso l’esclusione di qualsiasi discussione relativa all’economia politica e al suo impatto sulla salute pubblica», chiosa Lynteris.

L’iperconnessione e l’ipercomunicazione incarnate dal superdiffusore, in modo perfettamente coerente con un contagio ridotto a quel diventare virali «che è di centrale importanza come operatore mitico di soggettivazione nelle società tardo-capitaliste (si pensi ai social media)», sono all’origine di un’antropogenesi rovesciata e anti-prometeica in cui l’estinzione umana non deriva da un regno extra-umano, ma da un processo di autodistruzione attraverso l’autorealizzazione che, continua Lynteris (seguendo l’interpretazione di Sofocle fornita da Castoriadis specialmente in relazione all’Antigone), «l’umanità ha in sé in forma di hybris, una mancanza di autolimitazione in cui la più grande minaccia all’umanità si conferma essere l’umanità stessa». Un ordine di idee rinforzato nell’ultimo trentennio dal cinema hollywoodiano, sul quale si sofferma in particolare il quarto capitolo del saggio: L’epidemiologo come eroe culturale. «L’epidemiologo è un eroe nel senso classico del termine, una figura mitica che rende possibile la società umana, a patto che l’umanità abbracci il principio di governo neoliberale dell’autolimitazione come necessità biopolitica di fronte alla forza cataclismatica del virus killer». Una figura del genere apparve già nel film di Wolfgang Petersen del 1995 Outbreak (uscito in Italia con il titolo Virus letale), passando per Contagion di Steven Soderbergh del 2011, fino all’apoteosi di World War Z, film del 2013 in cui il protagonista (Brad Pitt) afferma che, benché un vaccino sia stato trovato, «questa non è la fine… siate pronti a tutto, la guerra è appena iniziata».

Mentre negli immaginari post-apocalittici della guerra fredda la tecnologia distruggeva la vita biologica, è ora in atto un ulteriore rovesciamento:”Negli scenari pandemici la vita biologica distrugge la techne“. Il presupposto che anima il quinto e ultimo capitolo (La condizione post-pandemica), riconduce a Castoriadis e al suo rifiuto della metafisica di Jacques Lacan e dello strutturalismo in generale, in quanto per Castoriadis l’immaginario deve passare dal simbolico per essere espresso, ma non vi si esaurisce, dunque lo travalica al punto che non c’è il simbolico senza la capacità di vedere in una cosa quel che non è. Come immaginario istituito, l’immaginario pandemico “delimita la capacità di creare una riflessione critica sulle condizioni ontologiche date che consenta al sé di diventare altro», conclude Lynteris. In questa formula dall’apparenza criptica è racchiusa la condizione post-pandemica di un’umanità sospesa tanto dalla natura quanto dalla storia, perché la delimitazione in questione dell’immaginario istituente significa in concreto una doppia incapacità, quella di pensare la relazione dell’umanità con la natura diversamente da un progetto di dominio, e quella «di porre la questione della storia come la questione dell’emergere di alterità radicali». Avendo condannato ogni tentativo di organizzazione sociale contraria al capitalismo come sfociante nel totalitarismo, quindi nella repressione della natura umana, nella stasi pandemica si ravvisano solo «indizi di una catastrofe prossima e totale presentata non come il risultato di un’economia politica storicamente specifica, ma della natura umana».


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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