Periscopio (globale)
Dopo Flaubert
A duecento anni dalla nascita di Gustave Flaubert si può analizzare la lunga scia di fascino e passione letteraria che i suoi personaggi hanno continuato a seminare in questi due secoli. Con un attenzione particolare a due “eredi” irregolari: Mario Vargas Llosa e Julian Barnes
Arrivati ormai quasi a celebrare il bicentenario della nascita di Gustave Flaubert, avvenuta il 12 dicembre 1821, è difficile non chiedersi quale altro scrittore dell’Ottocento abbia potuto tanto influenzare i posteri e incanalare la letteratura, e in primo luogo la scrittura di romanzi, in una direzione ben definita. Il peso della sua personalità letteraria in Francia si avverte subito, quando Flaubert è ancora in vita, tanto che influenzerà non solo il “pupillo” Guy de Maupassant, ma anche molti scrittori coevi, per non parlare della generazione successiva, almeno fino a Zola e al naturalismo nel suo insieme (ma non dimentichiamo il fascino esercitato anche su scrittori di tutt’altra scuola come Paul Bourget). Quello che tuttavia stupisce e va sottolineato è l’impressione duratura esercitata oltre confine, in tutta Europa ma anche fra gli scrittori statunitensi – primo fra tutti Henry James, che a Flaubert dedica uno studio accurato nel 1902 – e sudamericani.
Non è mia intenzione ripercorrere qui la ricezione di Flaubert nel mondo a partire dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1880. Mi concentrerò piuttosto su due lavori ancora abbastanza recenti, a testimoniare della duratura presenza di Flaubert nella mente degli scrittori a noi contemporanei. Si tratta di due libri, del tutto diversi nella forma e nella sostanza, ma entrambi di enorme importanza, irrinunciabili per chiunque voglia avvicinarsi a un autore che ha avuto il coraggio di passare da una linea narrativa che si sviluppava grazie a (magari fortuite) coincidenze a una che, come la vita, vede primeggiare una casualità assoluta e imprevedibile. Il primo di questi due libri è la lunga analisi dedicata in particolare a Madame Bovary da Mario Vargas Llosa nel suo La orgía perpetua, uscito in origine nel 1975. Pubblicato in Italia da Rizzoli negli anni ‘80, è di difficile reperimento e andrebbe ristampato: speriamo che il bicentenario flaubertiano serva almeno a questo. Il secondo è l’originale e ibrido non-romanzo e non-saggio (e quindi alla fine sia fiction, sia non–fiction) di Julian Barnes, Flaubert’s Parrot (Il pappagallo di Flaubert, edito da Einaudi), del 1984.
Quello di Vargas Llosa è anzitutto un libro che testimonia di un enorme piacere, di un’insopprimibile fascinazione. L’autore si è letteralmente innamorato non tanto del personaggio di Madame Bovary, quanto del romanzo nel suo insieme, e ci trasmette la felicità di una scoperta che fin dagli anni ’50 gli ha permesso di fare pace con il realismo in letteratura, guardato fino a quel momento con un certo sospetto, e di scoprire al tempo stesso la disciplina dello scrivere, il rigore, la perseveranza e perfino l’ossessività che la contraddistinguono, un lascito flaubertiano, questo, che lo accompagnerà lungo tutta la sua carriera. La parola giusta, l’impersonalità l’obiettività, la composizione rigorosa, il controllo razionale dell’intuizione: così Vargas Llosa elenca le qualità precipue di colui che si era autodefinito un ”homme-plume”. Del resto, in una lettera a Feydeau del 1857 Flaubert aveva scritto che un libro si costruisce come le piramidi, ponendo l’uno sull’altro dei grandi blocchi di pietra che si è dovuto prima trasportare con fatica e sudore.
Vargas Llosa suddivide il suo saggio in tre parti, che analizzano l’universo flaubertiano da diversi punti di vista. La prima sezione è quella che maggiormente testimonia dell’impatto che l’opera di Flaubert ha avuto su di lui, anzitutto come lettore e in seguito in quanto scrittore, ma anche sulle varie correnti letterarie e artistiche che si sono succedute nel Novecento. La seconda costituisce un’analisi minuziosa delle fonti flaubertiane, nonché delle influenze alle quali lo stesso Flaubert si mostra permeabile, da Montaigne a La Bruyère, da Rabelais a Voltaire, da Goethe a Byron a Victor Hugo. Inoltre, Vargas Llosa entra per così dire nei dettagli tecnici dell’opera flaubertiana, isolandone gli elementi principali e trattandoli in modo sistematico. Per fare qualche esempio, esamina le varie forme che assume il narratore, lo stile indiretto libero, il livello retorico e le varie accezioni di tempo nell’opera di Flaubert. La terza sezione, infine, gli consente di analizzare il nesso fra la comparsa del romanzo, la sua vera e propria epifania, e il contesto storico-biografico, sottolineando come Flaubert sia il padre del romanzo moderno, come lo intendiamo ancora oggi, magari in una fruttuosa interazione con Cervantes, che duecentocinquant’anni prima aveva fondato invece il romanzo tout court. Per converso, a Vargas Llosa preme smontare il nesso che si è voluto istituire fra Flaubert e il nouveau roman e rivalutare invece lo scrittore francese come un grande narratore di storie, tutt’altro che riducibile a un mero e freddo artigiano della prosa. Ma Flaubert è ancora di più: uno scrittore che si pone ontologicamente in contrasto con l’accademia e i conformismi dei suoi tempi per il suo stesso essere un artista fallito, ribelle, marginale e maniacale, per il suo concepire la letteratura come qualcosa d’integrale e totalizzante. Ribelle, del resto, Flaubert lo era davvero, soprattutto nello spirito: pur finendo nel 1866 per accettare la Legion d’Onore, no scrisse forse: “les honneurs déshonorent, le titre dégrade, la fonction abrutit”? Vargas Llosa sottolinea come Flaubert trasformi in letteratura tutto quanto gli accade e come la sua vita intera sia cannibalizzata dal romanzo che di volta in volta sta scrivendo. D’altro canto – e qui veniamo al titolo stesso del saggio –, per lo scrittore francese l’unico modo per sopportare l’esistenza era quello di stordirsi nella letteratura, vista appunto come un’orgia perpetua.
Rispondendo recentemente a un questionario giornalistico, in cui gli veniva chiesto di motivare il primato attribuito a Flaubert su tutti gli altri scrittori, Julian Barnes ha brillantemente elencato diversi motivi, fra i quali: avere trasportato il romanzo dalla perfezione del realismo con Madame Bovary alle soglie del modernismo con Bouvard et Pécuchet; avere equiparato le esigenze estetiche della prosa a quelle della poesia (e ricordiamo en passant che per Flaubert, come scrive in una lettera a Louise Colet, la poesia era “una cosa precisa come la geometria”); avere scritto, con uno dei suoi frequenti colpi di genio, che Emma Bovary ritrovava nell’adulterio tutte le banalità del matrimonio; avere teorizzato che lo scrittore deve essere ordinato e ordinario come un borghese nella vita privata, per poter poi essere violento e originale nelle sue opere.
Nel romanzo-saggio di Barnes, ad accompagnarci è un narratore fittizio, tale Geoffrey Braithwaite, un medico in pensione, vedovo, come molti inglesi della sua generazione appassionato di letteratura francese, e in particolare di Flaubert, che si lancia a tempo perso in una sorta d’instancabile pedinamento intellettuale. Le indicazioni biografiche su Flaubert, l’analisi delle sue opere, le citazioni abbondanti e variate si intrecciano nel testo con un’andatura frammentaria che corrisponde agli avanzamenti, alle pause e anche ai regressi nella ricerca di Braithwaite, laddove ogni capitolo del libro sembra un’opera a sé stante, con qualche frecciatina neanche troppo nascosta (e molto flaubertiana anch’essa) alle aspirazioni universali e totalizzanti dei saggi accademici, che pretenderebbero di spiegare e delucidare tutto.
Il punto di partenza simbolico del libro è l’incontro con il pappagallo di Flaubert conservato al Museo di Rouen dedicato allo scrittore, che si sdoppia poi misteriosamente in un altro pappagallo ritrovato a Croisset, il luogo di residenza di una vita intera, e spacciato anch’esso come “il” pappagallo di Flaubert (quello prestato allo scrittore quando scriveva Un coeur simple), la cui autenticità sembrerebbe altrettanto appurata. Fra questi due pappagalli, che dovrebbero escludersi a vicenda e sembrano invece entrambi reali, il terzo pappagallo incomodo della storia diventa in un certo senso lo stesso Braithwaite/Barnes, che fra rimandi biografici e citazioni si compenetra dello spirito di Flaubert fin quasi a identificarsi nello scrittore e a ripeterne i discorsi e le azioni. Barnes spinge il suo gioco, sempre sul filo del rasoio, fino ad attribuire la traduzione inglese degli originali flaubertiani allo stesso Braithwaite, il quale tuttavia avrebbe attinto alla sapienza del vero curatore delle opere (e in particolare delle lettere) flaubertiane in inglese, Francis Steegmuller, più conosciuto per essere stato il marito della scrittrice Shirley Hazzard che per i suoi meriti di eminente esperto di Flaubert nel mondo anglosassone.
Fra gioco e divertissement, da un lato, e accuratezza nella ricostruzione storico-biografica, dall’altro, non c’è poi un contrasto così netto, sembra suggerire Barnes, il quale con la sua “anti-biografia” ludica si pone su un piano completamente diverso dalle biografie tradizionali, e in particolare da quella sartriana. In effetti, Jean-Paul Sartre, nei tre volumi (di complessive duemila pagine) de L’idiot de la famille (1971) costatigli più di dieci anni di lavoro – con l’analisi dettagliata di Madame Bovary i volumi sarebbero stati quattro, se la cecità non l’avesse fermato e costretto a lasciare l’opera incompiuta –, aveva tentato di sviscerare completamente la personalità di Flaubert e di comprenderne anche le motivazioni più remote. Aveva analizzato con cura e persuasiva insistenza il retroterra familiare dello scrittore: il difficile rapporto con la madre anaffettiva, che riversa tutto il suo affetto sulla sorella minore, e la scarsa stima che ispirava al padre chirurgo, tutto preso dal primogenito che ne avrebbe ereditato il nome e seguito le orme professionali – e che peraltro finì per ucciderlo per errore, sbagliando con un’imperizia da neofita l’intervento chirurgico proprio sul padre. E di Flaubert aveva naturalmente sottolineato, Sartre, le difficoltà di apprendimento fin da bambino, l’odio per gli studi di diritto che gli erano stati imposti, le crisi precoci di malinconia e così via, tratteggiando una continua e strisciante marginalità che nel 1844 culmina nella famosa crisi (probabilmente un attacco epilettico) di Pont-l’Évêque. Crisi in seguito alla quale il poco più che ventenne Flaubert otterrà definitivamente lo status di “idiota della famiglia” e si trasformerà appunto, a carico della stessa, nell’eremita della casa di campagna di Croisset, potendo dedicarsi finalmente e unicamente alla scrittura, vista non stendhalianamente come atto di spontaneità e brillantezza mondana, ma come un duro lavoro quotidiano.
Da parte sua, pur facendo tesoro di tutte le notizie raccolte, Barnes resiste alla tentazione di ritornare sulle orme del pensatore francese e d’incapsulare Flaubert nell’ennesima interpretazione sociologica o psicoanalitica – nel caso di Sartre una psicoanalisi esistenzialista, fondata sull’idea di una nevrosi collettiva degli scrittori della generazione di Flaubert che avrebbe loro impedito di partecipare alla vita politica e sociale –, aprendo invece a una pluralità di vedute, a una concordia discors di voci che si alimentino con passione di ogni dettaglio flaubertiano e in cui le contraddizioni non vengano necessariamente rimosse.
Alla fine, l’insieme di questioni e sollecitazioni che sono alla base di ogni impresa biografica si riducono a un solo interrogativo: cosa possiamo mai arrivare a sapere, in definitiva, degli altri, se così poco sappiamo di noi stessi e del mondo? Ancora meno, probabilmente. E non era forse Flaubert che aveva messo alla berlina l’enciclopedismo positivistico, come pure la fede nella scienza, demolendo ironicamente tutte le certezze a cui l’essere umano può aggrapparsi, dapprima nel Dictionnaire des idées reçues e poi in Bouvard et Pécuchet, i cui protagonisti sono in fondo delle appassionate e appassionanti caricature? Ma una cosa, almeno, l’aveva prevista con chiarezza già allo scoppio della guerra franco-prussiana, quando con la sua scarsa fiducia nel progresso dell’umanità aveva sentenziato: “Qualunque cosa accada, rimarremo idioti.”