Domenico Calcaterra
Addio Alitalia/5

Volare a memoria

«Per tutto il tempo della salita, tengo gli occhi chiusi e cerco di guadagnare un po’ di requie lavorando sulla respirazione, in attesa che si esaurisca l’iniziale ascesa, ma con scarso giovamento a causa di qualche turbolenza di troppo. Finalmente ci assestiamo in posizione orizzontale»

Hai dovuto fare il giro di tutte le tue emozioni
per venirne a capo, e poi un altro giro per contenerle…
(da Staccando l’ombra da terra)

Fu, quella del 2011, l’estate di un quasi interminato sciame sismico che per settimane e settimane ci aveva costretti a uno stato d’incertezza e di sospensione al quale non eravamo affatto preparati. Perciò accolsi l’idea di quel viaggio di piacere, destinazione Parigi, quasi come una provvidenziale distrazione. Come se migrare altrove, solo per qualche settimana, fosse servito anche, non so per quale contorto e improbabile calcolo mentale, a risolvere la questione del pesante stato di allerta a cui le frequenti scosse giornaliere avevano ridotto la nostra quotidianità. E a ripensarci adesso ciò mi appare ancora più assurdo: dico pensare di scongiurare una precarietà terrestre accettando di gettarmi in una situazione da sempre vissuta come non meno sospesa e incerta: in virtù di ciò, si potrebbe dire, che la mia mente aveva solo bypassato il problema, traslandolo dalla terra al cielo; epperò col vantaggio di acquisire certezze dalla mia almeno sulla variabile tempo (giacché, nel giro condensato di non più di un paio di ore, A Dio piacendo, avremmo ritoccato terra). Tuttavia, per uno come me che ama avere tutto sotto controllo, non è cosa di poco conto.

Una fuga decisiva – ecco cos’era diventato quel primo volo, per il quale, vinto l’istintivo spavento che mi coglie ogni qualvolta soltanto penso di salire su un aereo di linea, pretesi da Rosamaria e dagli altri compagni di viaggio di volare Alitalia (sposando il mito ingenuo di una maggiore garanzia assicurata dalla compagnia di bandiera italiana). A questo punto val la pena precisare: paura la mia non del volo in sé, del trovarmi ad alta quota, ma di essere rinchiuso dentro un autobus con le ali che non offre vie di fuga. Tecnicamente perciò la mia non può definirsi aerofobia, ché per il volo, negli anni, da che mi ricordo, ho anzi sviluppato un istintivo trasporto, complice la familiarità con i primi rudimenti del volo e lo stare in aria cui ci aveva abituati l’Aviatore. Sapevo appena scrivere che già, sporgendo la mano dal finestrino di un’auto in corsa ero perfettamente in grado di comprendere perché essa, aumentando la portanza, venisse di colpo sospinta verso l’alto…

A quasi dieci anni di distanza dal mio battesimo dell’aria con tubi e tela di costruzione belga dell’Aviatore, che si era concluso peraltro con il fuori programma di un ammaraggio, quel giorno l’eccitazione si era mutata in irritata apprensione; in allarmata concentrazione l’impaziente euforia.

Giunti a Fontanarossa, sostiamo in un caffè dove provo a rilassarmi (invano) sfogliando la guida Routard di Parigi, mentre gli altri si scambiano occhiate, consci del travaglio interiore di dovermi (e in fretta!) abituare all’idea di salire sull’aeromobile. Annunciato l’imbarco, attraverso senza troppo pensarci il tunnel d’accesso con a fianco Rosamaria che mi fa strada, sapendo benissimo che per me sono attimi di totale smarrimento (incapace perfino di rintracciare il numero di posto a sedere). Mi accomodo a sinistra, più o meno a metà, lato oblò: subito lancio uno sguardo di timido congedo alla realtà lì fuori, scorrendo la direttrice della semiala. Ma la separazione col mondo esterno è in via definitiva sancita dalla hostess che si accinge a chiudere il portellone d’accesso. Così ha avvio la svogliata e teatrale danza dimostrativo-esplicativa degli assistenti di volo a mimare il ventaglio delle eventualità funeste che, qualora qualcosa dovesse andar storto, potrebbero toccarci in sorte.

Rinuncio a seguire quella ritmata pantomima plurinlingue; incrocio lo sguardo di mia moglie, le stringo la mano: deglutisco e comincio un po’ a sudare… perfino la troppa aria presente a bordo comincia a darmi noia, avvertendone l’essenza davvero innaturale. L’aereo si comincia a muovere, al piccolo trotto, per posizionarsi in testata pista, mentre gli altoparlanti diffondono il gracchiante e consueto saluto del comandante di turno. Il logo Alitalia (sullo schienale della poltrona che mi sta davanti), che mi aveva alquanto rasserenato al momento della prenotazione in agenzia, adesso non mi tranquillizza per nulla, svanito quel supplemento di sicurezza al quale mi ero illusoriamente aggrappato. Il crescente ruggito dei motori; i freni che a malapena trattengono ancora inchiodato il velivolo; l’ultimo metallico avviso ai passeggeri e la furiosa rullata, e la rapidissima (almeno così a me sembra) cabrata che di colpo mi paralizza (con la coda dell’occhio riesco a percepire la sagoma dell’Etna che si allontana…), per ciò che ha il sapore di un evento magico, di come un mezzo così pesante possa facilmente librarsi, avendo la meglio sulla resistenza dell’aria, la forza di gravità…

Per scacciare la sensazione di montante disagio che si manifesta ancora una volta sottoforma di sudorazione eccessiva, ma con la decisiva aggiunta di pensieri catastrofici e visioni di imminenti futuri schianti, m’impongo di razionalizzare ciò che accade, ripassando mentalmente le operazioni che preludono al decollo e che sospingono l’aereo alla quota di crociera stabilita.

Per tutto il tempo della salita, tengo gli occhi chiusi e cerco di guadagnare un po’ di requie lavorando sulla respirazione, in attesa che si esaurisca l’iniziale ascesa, ma con scarso giovamento a causa di qualche turbolenza di troppo. Finalmente ci assestiamo in posizione orizzontale, e così ha inizio quella pianura di vuoto e di blocco, quell’altrove compresente in cui sembra consistere il viaggiare in aereo: come in un fermo immagine, entro una posa B senza soluzione di continuità, ogni elemento si staglia esattamente al suo posto, galleggiando. Riesco quasi a rilassarmi, e per un attimo penso al malcelato sussulto di gioia, all’effimera beatitudine che perdurava nell’Aviatore, una volta a terra, come il riverbero d’una pienezza sospirata e davvero raggiunta. L’immobile avanzare dell’ATR mi suscita un improvviso disorientato senso di benessere: Rosamaria intanto, perché io non pensi al fatto di trovarmi al chiuso e in quota, mi coinvolge per la risoluzione del suo cruciverba, e alla parola Lindbergh, in automatico, rispondo tutto d’un fiato: spiritofsaintlouis!

Molti passeggeri dormono ed io, che realizzo soltanto adesso di non avere mai sganciato la cintura di sicurezza, provo una puerile invidia per lo scelerato lusso di non vivere quel viaggio con coscienziosa allerta. Il martellante bombardamento delle definizioni del Bartezzaghi è il tentativo più ostinato di Rosamaria di esorcizzare la mia nevrosi; e nonostante la implori di lasciarmi in pace e di astenersi dal prendersi cura di me, per nulla decisa a mollare la presa, non fa che incalzarmi con l’asfissiante richiesta di aiutarla a ultimare il suo cruciverba. A stento riesco a dissimulare la mia irritazione. Lei, come accade ogniqualvolta è nervosa o a disagio, erompe in una fragorosa risata che io interpreto come somma mancanza di considerazione per le mie ambasce aviatorie. Nel frattempo, dall’ennesima passerella delle hostess e dal balbettio alla radio del comandante, capisco che siamo pronti a scendere di quota. Tutto avviene assai rapidamente: dalla calma che regnava fino a qualche istante prima, appena bucata la distesa degli stratocumuli, si piomba entro un limbo di forte instabilità, con scossoni e impennate che io avverto così violente al punto da convincermi che l’aereo stia proprio per precipitare nell’apparente noncuranza di tutti gli altri passeggeri a bordo. Come se non bastasse, la fase di avvicinamento, simile a una matta discesa a gradoni, avviene in piena nebbia, il che neutralizza ogni mio tentativo di decifrare, come invece avevo potuto fare in fase di decollo, le manovre del velivolo per un corretto circuito di atterraggio.

Dopo una manovra di allineamento che la pania di nuvole basse mi ha impedito di prevedere, d’un tratto si palesa sotto i nostri occhi l’intarsio futurista di tanti rettangoli di differenti colori: non faccio in tempo a realizzare che quello che va ingrandendosi sotto di noi è il nastro-voragine della pista che scorgo i flap della semiala sinistra in azione – (e se il carrello non si fosse aperto?!) –, a far sì che portanza e resistenza si neutralizzino a vicenda; al momento giusto mimo con le mani, gli occhi serratissimi, il viso rappreso in una smorfia di estrema tensione, la richiamata della cloche che coincide con lo smorto impattare delle ruote al suolo.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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