Danilo Maestosi
Al Maxxi di Roma

Salgado e le nuvole

La nuova impresa di Sebastiao Salgado è una mostra-manifesto politico: una rassegna di immagini che raccontano (in modo magnifico) la natura e gli individui dell'Amazzonia. Perché venga rispettata. E perché venga lasciata al dominio della natura

La terra, una sterminata distesa grande quanto l’Europa, di selve, fiumi, montagne, vista e ridisegnata dalle nuvole. Ad evocare il prezioso ciclo di rigenerazione e purificazione che alimenta. E poi riconsegnata simbolicamente, attraverso i ritratti dei loro volti e dei loro corpi alle tribù dei nativi che in quello spicchio di ultimo paradiso minacciato e in via di scomparsa abitano da sempre e hanno imparato a rispettarne la forza e i fragili equilibri. È il doppio registro nel quale Sebastiao Salgado, 76 anni, brasiliano, uno dei più grandi maestri della fotografia, inscrive la sua nuova impresa.

Una rivisitazione dell’Amazzonia: sei anni di esplorazioni, incontri, sguardi ravvicinati condensati in un’antologia di indimenticabili sequenze tematiche in bianco e nero, che sta portando in giro per il mondo. E ora arriva anche a Roma, unica tappa italiana, rimontata in una sala del Maxxi di via Guido Reni, dove resterà in cartellone fino al 13 febbraio. Una mostra, ma soprattutto un manifesto politico ed ecologico, per scuotere le coscienze dal torpore della rassegnazione. Garantire a quel che resta di questo immenso spicchio di mondo una sopravvivenza che è garanzia per l’intera umanità. E includere le voci, le denunce, la presenza dei suoi popoli originari nelle agende dei vertici mondiali sulle emergenze climatiche: una proposta in questa direzione è stata inoltrata al nostro governo da Giovanna Melandri, a nome del museo che dirige, proprio nel giorno dell’inaugurazione.

Un’operazione militante dunque che assegna alla bellezza delle immagini il compito di amplificare e semplificare il messaggio. E un copione a due facce, cucite insieme da Leila Wanick, moglie e compagna d’avventure di Salgado, che ha curato l’allestimento: le foto dei paesaggi sospese e immerse in una penombra che te le fa galleggiare davanti, quelle delle tribù indigene inserite in una serie di recinti che simulano l’interno delle loro tradizionali capanne, due musiche diverse, realizzate per l’occasione che ti accompagnano durante il percorso.

L’impatto con la prima parte, riservata alla Natura, è davvero stordente. Sono scorci di luoghi e contesti diversi, separati da distanze di centinaia di chilometri, ti spiegano le mappe, i titoli e le didascalie alle pareti, integrate da altre informazioni più dettagliate che puoi leggere su un libricino distribuito all’ingresso. Estuari, anse di fiumi, pianure, pendici montagnose. Pareti di roccia, cascate, laghi e isole che piogge, umidità ed esondazioni fanno apparire e scomparire del corso dell’anno.

Eppure ti appaiono tutti come varianti, sfumature di un’unica identica voce, quella delle nuvole. Echi avvolgenti di un mondo a parte, che ti respira addosso il suo continuo movimento. Ora una minaccia, ora una sorta di pianto, ora una preghiera a dei sconosciuti. Ora puro incanto.

Foto che parlano. La visione che si trasforma in ascolto. Un miracolo che solo un grande maestro riesce a raggiungere e parteciparci. Un po’ l’effetto di concentrazione del bianco e nero. Un po’ la visione dall’alto: Salgado vi ha fatto ricorso in tutti i suoi lavori, quasi ad aggiungervi la patina di un tempo ancestrale, il ritmo mitico di un’epopea. Un po’ la coltre di nubi che sempre avvolge e nasconde, come un segreto concesso a pochi, la vista dell’Amazzonia: ci vuole tempo, fortuna abilità intuito e pazienza per cogliere al volo, organizzare, imprigionare, interrogare e dar senso ai pochi squarci che si aprono in quella coperta così compatta.

«La tecnica – spiega Salgado in quel francese fluente da ambasciatore con cui gira il mondo per mostrare i suoi capolavori perorare le sue cause di ambientalista – è solo uno strumento, non basta. Ci vuole il cuore. Devi amare quello che stai guardando e rappresentarlo come fosse ogni volta la prima e l’ultima volta che lo stai facendo». Anche Salgado però, come ogni innamorato invaghito d’eternità, qui si abbandona ad un inganno. Alla tentazione di un artificio. Una specie di doppia calcolata rimozione.

La prima è di escludere dalla scena quasi ogni riferimento di cronaca. Come non importasse che del territorio e del patrimonio verde dell’Amazzonia solo un quarto è finito sotto la protezione della costituzione brasiliana, e il resto è stato a poco a poco eroso a partire dai bordi dalla speculazione e dal furto di terreni da coltivare spianando la foresta e tagliandola con vistose vie di penetrazione. Come fosse meno coinvolgente, negasse speranze al futuro saperlo e rifletterci su. Anche l’avvento di Bolsonaro, la morte portata negli ultimi mesi di malgoverno dal Covid senza controllo: solo un detestabile ritardo di percorso. Il dubbio è che non sia la scelta migliore rinunciare a raccontare l’inferno per riconquistare un paradiso perduto.

La seconda rimozione riguarda proprio la foresta pluviale, che pure è il motore del discorso. E qui in questa mostra quasi scompare: solo poche immagini, neanche tra le più intense. E se appare, appare a distanza. Uno sfondo impenetrabile che si staglia giù in basso, la chioma delle sue straordinarie alberature, quel groviglio di frutti ed essenze rarissime, vita e macerazione, raffigurato solo come un confine d’ombra.

Una scelta, questa, più comprensibile. La mente e il cuore di Salgado sono indirizzati e vogliono indirizzarci verso un preciso orizzonte: spiegare e raccontare attraverso le immagini il più grande tesoro che l’Amazzonia riserva all’intera umanità, il respiro che quell’oceano di vegetazione rimanda su in alto a cancellare l’inquinamento del cielo, l’anidride carbonica che torna in circolo ripulita in ossigeno. Un viaggio tra le nuvole insomma che ci immerge in una magia fluttuante, in chiaroscuri incredibili, in vapori che prendono e cambiano forma come all’alba della creazione. Ecco in una foto quella risalita di vapori che si innalza ed esplode nel cielo come il fungo di una bomba, come l’eruzione di un vulcano. Ecco in un’altra foto stagliarsi nell’aria il ricamo di quei fiumi di nebbia e d’umidità che ricompongono come corsi d’acqua nell’aria e dilagano dal Brasile verso altri cieli del Sud America.

Una forza incontenibile e a volte terrificante come le tempeste che scatena e guai se ti sorprendono senza riparo. A volte stupefacente come lo spettacolo di quell’arcipelago di isole che pioggia e inondazioni dilatano a dismisura in un paesaggio di laghi e torrenti e recinti di terra destinato a sparire e a rientrare nei ranghi con il mutar di stagione: le foto che vedi imprigionano miraggi di ore o di pochi giorni. E un miraggio potrebbe diventare anche questa Natura benefica e senza tempo se questo ciclo di scambi infiniti tra terra ed acqua dovesse rinunciare come sta avvenendo a quell’energia invisibile di quegli alberi, abbattuti per far posto a pascoli, coltivazioni, insediamenti urbani e industriali.

Ecco il messaggio netto e chiaro che Salgado ci consegna, stuzzicando la nostra fame di bellezza e poesia, invitando a mobilitarci. A seguirlo in una battaglia per la riforestazione che lui stesso ha iniziato, finanziando con la sua attività la rimessa in dimora di oltre un milione di alberature. Il futuro in un ritorno al passato.

È la stessa chiave con cui l’autore posa i piedi in terra nella seconda parte della sua mostra, per portare in scena le voci della comunità indigene che in sei anni è riuscito a contattare e fotografare. Dodici tribù sulle 160 che gli antropologi sono riusciti ad avvicinare e schedare, e su un altro centinaio che si presume vivono nel cuore più profondo della selva amazzonica. Testimoni di un tempo remoto che Salgado rilegge come un viaggio all’origine della specie umana. Mai così in pericolo d’estinzione, mai così consapevoli e organizzati, capaci di proposte illuminanti. Ai leader delle varie comunità la mostra riserva, nei siparietti a capanna in cui divide le varie etnie, una serie di interviste filmate, che danno grande spinta alla mobilitazione per portarne le voci al tavolo delle trattative sulle emergenze dell’ecosistema mondiale.

Poi ci sono le foto. Tutte o quasi ritratti, isolati o di gruppo. Bellissime, come sempre. Fin troppo. Uomini, donne, bambini messi in posa, come in uno studio. Spesso con un grande telone alle spalle, che consente all’obiettivo di scolpire i corpi e le facce, gli abiti per chi li indossa, i copricapi, i segni dipinti sulla pelle. Dietro, forse, un tentativo di risarcirli, riservando loro lo stesso trattamento che i fotografi dei quadretti da souvenir garantivano alle famiglie della borghesia bianca. Ma è un odore di politicamente corretto e un effetto da rivista patinata che li allontana da noi. Confinandoli in un altrove di modelli pubblicitari.

Una sola foto fa eccezione. E per questo mi si stampa indelebile nella memoria. Ritrae un indio dell’etnia Yanomami, il corpo immerso nel sottobosco che invade un sentiero tra gli alberi, le mani sollevate, la bocca spalancata ad invocare l’aiuto di un suo Dio.

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