Nicola Bottiglieri
La Giornata Europea delle lingue

Ode al dizionario

Come diceva Neruda, il dizionario è il "fuoco nascosto" della lingua, il luogo fisico dove conoscenza e comunicazione si intersecano. E dove tutto si trasforma, come è successo all'italiano di oggi, sospeso tra dialetti e lingue migranti

«Dizionario, tu non sei/ tomba, sepolcro, feretro,/ tumulo, mausoleo,/ tu sei preservazione,/ fuoco nascosto,/ piantagione di rubini,/ perpetuità vivente/ dell’essenza,/ granaio dell’idioma».

In questa poesia di Pablo Neruda che fa parte della raccolta Odas elementales, il poeta cileno rivaluta l’importanza del dizionario, in gioventù considerato inutile, usato spesso come sgabello o cuscino, ed ora invece visto come una cassa del tesoro dove sono nascoste le più belle parole della lingua. Fra le metafore più suggestive che gli usa vi è quella del “fuoco nascosto” ed il dizionario appare come un braciere nel quale le parole sono come tizzoni di carbone che covano sotto la cenere. El Fuego Escondido è quindi il fuoco che cova sotto la cenere, il fuoco che arde in modo silenzioso, pronto ad esibire le fiamme come coltelli.

Se ora allarghiamo il campo semantico del Fuego Escondido, possiamo includere altri tipi di fuochi silenziosi: il fuoco sotto la cenere del focolare e per estensione il fuoco del vulcano spento. Potremmo continuare ad inanellare altre immagini legata alla metafora del Fuego Escondido, però sarebbe bene riflettere sulla funzione del fuoco.

Il fuoco è capace di divorare ogni cosa e quando brucia trasforma le cose che incontra. Quindi per analogia possiamo dire che in poesia la parola è la legna, la combustione è la trasformazione della parola in un materiale linguistico, ossia la pagina scritta, poi se c’è vento cioè l’ispirazione, quel fuoco può diventare incendio: un romanzo, un racconto o una poesia. Insomma come il fuoco trasforma le cose, così la lingua si combina sempre in modi diversi, trasformandosi, divenendo un percorso verso territori sconosciuti. Facciamo ora una riflessione sui materiali che arricchiscono la nostra lingua italiana.

Dal punto di vista storico, l’italiano deriva dal latino. Nel medioevo, mentre il popolo usava il latino corrotto, divenendo dialetto, la Chiesa manteneva il latino scritto, elegante e letterario. E così il bilinguismo tra parlato e scritto che si osserverà attraverso i secoli fra lingua italiana e dialetti si ritrova già fra le élites dotte e le masse degli analfabeti del medioevo. Non a caso, fino al 1960, ossia al Concilio Vaticano II, nella funzione della messa l’aspetto liturgico veniva recitato in latino, mentre l’omelia veniva sempre pronunciata in volgare.

Lo scrittore che pose con forza il problema di una lingua nazionale e che propose un tentativo per risolverlo, come sappiamo è Dante Alighieri. Ne parla nel De Vulgari Eloquentia (Sulla retorica in volgare), scritto in esilio verso il 1304, in latino, perché rivolto ai chierici, cioè ai letterati di professione. (Si interrompe al cap. XIV del II° libro). Lo scopo del trattato è quello di scegliere un idioma vivo e parlato dal popolo, che possa elevarsi al di sopra delle parlate regionali e sottrarsi all’egemonia del latino. Quindi sceglie il volgare fiorentino. La fortuna del fiorentino scritto del Trecento usato dai poeti, dai prosatori, dai banchieri, deve la sua fortuna al fatto che le sue costruzioni sintattiche sono molto vicine alla lingua latina. In ogni caso, mentre la “lingua nazionale” proposta da Dante per molti secoli fu usata soprattutto dai letterati, nelle varie regioni italiane il popolo continuò a parlare i vari dialetti regionali.

La dicotomia fra lingua dei letterati e popolo ha attraversato i secoli fino ad arrivare all’Unità d’Italia, quando si pose con più forza il problema dell’unità linguistica. A quel punto, la scuola divenne lo strumento per imporre la lingua dei letterati a quanti parlavano il dialetto. E nelle scuole, le ore di italiano e soprattutto il famigerato “tema in classe” divenne lo strumento per controllare la capacità di scrivere bene, la bella scrittura, sintesi di calligrafia ed imitazione dello stile usato dagli scrittori della letteratura italiana. Una soluzione molto controversa che ha prodotto più danni che benefici.

Nei 160 anni intercorsi dall’unità politica del paese, sono successi due eventi straordinari che hanno arricchito il “granaio dell’idioma” di cui parla Neruda. Prima lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa poi, nel XXI secolo, le grandi migrazioni di popoli verso l’Italia e l’Europa e la conseguente letteratura scritta dai figli dei migranti. I giornali, la radio, il cinema ma soprattutto la televisione hanno creato nel corso del XX secolo una lingua nazionale, che se da un lato ha permesso di comunicare fra nord e sud, allo stesso tempo ha impresso un forte carattere di oralità, di lingua parlata, anche al modo di scrivere. Lo scrittore del XX secolo ha dovuto amalgamare con il fuoco dell’invenzione il dialetto che parlava in famiglia, la lingua letteraria dei grandi scrittori, (Dante Manzoni, Calvino, Gadda, Pasolini, ecc.) più i linguaggi derivati dalle tecnologie della comunicazione. Riuscire a bruciare insieme tutti questi elementi è stata la sfida degli scrittori del XX secolo.

La grande affluenza di migranti verso l’Europa ha dato un’ulteriore accelerazione al dilemma tutto italiano fra lingua scritta e lingua orale. Perché oggi il problema non è solo quello di far bruciare insieme dialetto regionale, oralità dei mezzi di comunicazione di massa ed eredità letteraria, ma anche di inserire nuove parole, costrutti sintattici oltre che un immaginario narrativo che nato fuori dell’Europa irrompe con forza prima nello stivale poi nella fortezza Europa. Quale scrittore in Italia si azzarderebbe ad usare il neologismo kebbabbaro senza dover stravolgere tutto il contesto della pagina nella quale è inserito? Cosa che ad esempio non succede con riders, per indicare quelli che portano la merce di Amazon in giro per la città.

Mentre per gli scrittori italiani il substrato linguistico è il dialetto familiare, per gli scrittori figli di migranti il substrato è la lingua di origine dei loro genitori. Che appartiene ad un altro ramo linguistico. Il fenomeno, come tutti sappiamo, non è solo linguistico ma sociale. Girare a Roma nei dintorni di Piazza Vittorio significa incontrare una babele sconosciuta fino a pochi anni fa. Un magma linguistico, sociale, economico lentamente invade tutti gli spazi della politica, della vita sociale, della letteratura italiana.

A questo punto dobbiamo chiederci se è ancora valida la metafora del vocabolario come cassa del tesoro, come fuoco nascosto che poi divampa della lingua, oppure la poesia di Neruda ci fa venire in mente il cofanetto della nonna dove la vecchia signora conservava ago e filo, ditale e cotone per fare i rammendi alle vecchie calze ed alle camicie usurate dal tempo? E continuare ad usare il vocabolario come sgabello o reggitore delle gambe del vecchio tavolino che traballa? Io sono del parere che non bisognerà buttare via il vocabolario, per quanto sia invecchiato, tuttavia lo toglierei dalle scrivanie dei letterati, dalle biblioteche scolastiche, e lo collegherei in una edicola di giornali, di quelle ben fornite di ogni possibile linguaggio scritto, orale, visivo, auditivo. Un vocabolario che si confonda con i DVD, i giornali illustrati, i quotidiani, gli inserti, i fumetti, i CD delle canzoni, i libri a basso costo e tutto quanto si legge, si ascolta o si vede in un’edicola di giornale. Tutto questo ciarpame linguistico non ha la dignità della parola letteraria, del legno di quercia che brucia el Fuego Escondido, sarà un materiale di scarto, il pellet della lingua, la segatura delle parole e delle frasi, ma avrà la capacità di far emergere la combustione che sta avvenendo nella lingua del nostro paese. Solo che per amalgamare tutti questi materiali, non bastano più i fiammiferi, gli accendini di plastica o le fiammelle delle candele, ci vuole un grande pannello solare capace di generare energia pulita per accendere tutti i semafori della lingua ed in questo modo regolare il traffico della letteratura. Forse ci vorrebbe di nuovo un De Vulgari Eloquentia.


Accanto al titolo, fotografia di Roberto Cavallini

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