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L’altro Carofiglio
I turbamenti tardivi dell'amore (e della memoria) nel nuovo romanzo di Francesco Carofiglio. E gli aforismi di Diego De Silva: frasi a effetto che (non sempre) racchiudo pillole di saggezza quotidiana
Fotogrammi. Cognome dell’autore: Carofiglio. Il nome: Francesco. Quindi non è Gianrico Carofiglio, il più noto dei due grazie a romanzi lineari, sottili, di chiaro lessico. Ma è più famoso anche perché è andato spesso in televisione (continuerà probabilmente ad andarci: le apparizioni rendono, assieme all’esperienza di magistrato e di deputato), parlando dei suoi testi e di temi più ampi rasentando così il ruolo del tuttologo. Lo fa con misuratissima passione, coerentemente alla “misura” dei suoi romanzi che talvolta sono quasi troppo facili, quasi anemici. Francesco (che è anche poeta e architetto) scrive in maniera diversa, più ambiziosa: afferra dei personaggi e li viviseziona (a volte ripetendosi, e in questo dissotterra le sue ossessioni), cercando l’intima verità di ognuno.
Stavolta, il protagonista si chiama Stefano, autore di libri apprezzatissimi, non solo a Parigi, dove vive e insegna. Come lui stesso pensa, «fa la messa in scena» della sua esistenza (nel romanzo Le nostre vite, 300 pg., 17,90 euro, Piemme editore) cerca di rimediare a una serie di traumi che partono da un trauma principale: è sopravvissuto a un incidente, quando studiava al liceo Giulio Cesare di Roma. Non trova più la casa di famiglia, nella capitale. Per sua fortuna c’è stato un uomo che lui ha adottato come “nonno”, Zeno, un agricoltore che a una certa ora del giorno lascia i campi del Brindisino, rientra nella masseria e su una scricchiolante seggiola di vimini legge un libro dopo l’altro. Acquisendo così una cultura para-universitaria. È stato Zeno ad assisterlo in ospedale, nella riabilitazione, a spingerlo a studiare, a laurearsi a pieni voti, a scrivere nella città di elezione, ossia Parigi. Ma Stefano, «sempre lontano dagli obblighi vischiosi della mondanità», soffre per la difficoltà di mettere assieme i frammenti della sua vita, consapevole che nella sua ragnatela mnemonica l’infanzia e l’adolescenza ci sono insopportabili buchi. Il suo sguardo si posa sulle “cose perdute”, ammette d’essere più curioso del mondo vissuto di certe conoscenze che non di queste ultime. A Parigi frequenta periodicamente lo studio di una psicoanalista italiana, che lo aiuta a interrogarsi su se stesso, a comporre i fotogrammi nell’ingenuo, ma essenziale, sforzo di cucire tele slabbrate, di muovere «le sabbie mobili della coscienza». Stefano, anni e anni prima è stato un altro, colpevolmente un altro, amando in modo sbagliato e violento. Nella sua ultima lezione parigina, afferma dinanzi a studenti stupiti cita, come fa spesso La Repubblica di Platone: «Tutti noi siamo vincolati ai nostri limiti, sociali, temporali, fisici». Alla terapeuta confida: «Mi innamoro di un’idea delle persone, insomma, non delle persone». E le confida di essersi innamorato di una donna, che abita lontano, conosciuta, e “abusata” negli anni giovanili. Con un altro nome. La terapeuta gli domanda se si sente “incompiuto”. Lui risponde che questa è la parola esatta… «non ho ricordi a cui aggrapparmi, una voce, uno sguardo. Non c’è nulla che mi sia d’aiuto che mi arrivi da un passato frammentario… è difficile raccontare l’assenza, il vuoto». Poi cita il nome di una donna, Anna, il cui ricordo è lancinante. Stefano prenderà una decisione. Pensando alla masseria di nonno Zeno, ai silenzi (“sovrumani” direbbe Leopardi) delle notti stellate.
Frecciate. Quando si pensa agli aforismi, accantonando autori dell’antichità come Orazio, Plauto, Aristofane è pressoché automatico citare due maestri del genere: Karl Klaus, nato in Boemia nel 1874 e morto nel 1936, e l’irlandese Oscar Wild 1854- 1900). Tra gli italiani, è inevitabile pensare ad Ennio Flaiano (mi si perdoni se non faccio altri nomi). A questa lista del “pensiero breve” si è aggiunto il bravo romanziere napoletano Diego De Silva (1964). Non sempre è all’altezza delle sue ambizioni: la materia deve vedersela con il veleno dell’agguato: la quasi banalità. In ogni caso prevalgono le frecciate comiche. Elenchiamo alcuni esempi. «Chiunque abbia inventato la parola bombolotti conosceva la psiche umana»; «Le volte che mi capita di aver ragione, sono sempre solo»; «Non è vero che quando sei innamorato il mondo ti sembra più bello. È solo che lo tratti dall’alto in basso»; «Le donne con i capelli sciolti, anche se sembra non ci sia niente di strano nell’avere i capelli sciolti, non è mai la stessa cosa di quando li portano legati». A questo punto occorre aprire una parentesi: la frase citata è prettamente maschile, anche se non da tutti condivisibile. Personalmente sono più che d’accordo (frutto anche dell’esperienza). Torniamo agli aforismi di minor o nulla controversia: «Prima o poi te ne accorgi, che nell’amore si finisce per imitare le canzonette»; «La puttanata non prevede il ravvedimento operoso»; «Mi sono messo proprio bene se anche il mio inconscio ha cominciato a prendermi per il culo»; «Incredibile come finiscano subito le discussioni quando indichi una porta»; «Innamorarsi è sposare la causa di un altro essere umano indipendentemente dal fatto che ne abbia una». La raccolta di De Silva intitolata Le minime di Malinconico è appena pubblicata da Einaudi (85 pagine, 13 euro).