Addio Alitalia/6
In altri cieli
«Insomma dentro Alitalia ci sei cresciuto, a otto anni parole come cargo, tpf, memis erano un ambiente semantico naturale. Alitalia non era Pan-Am, ma veniva percepita nel bagliore di una mitologia dell’affinità...»
Sei un italiano che vola Alitalia. Fin dove le rotte lo consentono. La tua ostinazione a volare Alitalia non appena ne hai l’occasione è materia di spossanti dibattiti con la consorte tifosa del low-cost, almeno finché lei non soccombe all’argomento del cuore: faccenda-sentimentale, punto e basta, tuo padre è stato un uomo Alitalia per la maggior parte della sua vita, sei cresciuto nel Culto-della-Compagnia, ogni tanto ti regalava modellini di jumbo-jet e quando viaggiavi con lui – poco, per la verità – era sempre business/prima e lobby Freccia Alata. Il sistema arco ha resistito fino al 2016, tuo padre ne ha sviluppato diversi pezzi (merci, reservation), da piccolo ti è capitato di accompagnarlo al centro elettronico su via della Magliana, lui ti faceva dare un badge con scritto sopra «Patriarca Jr.» e un mazzetto di vecchie schede perforate, poi ti schiaffava davanti a un terminale a spupazzarti con dei programmini facili-facili (treno) scritti in una lingua difficile-difficile (assembler). Una volta un programmatore del suo staff mandò in collasso l’intero sistema (mondiale! ti ripetevi sbalordito) facendo partire un messaggio di auguri natalizi, saranno state quattro righe di codice, scherzetto che costrinse Patriarca Sr. a restare in ufficio due giorni e due notti per coordinare una squadra di debuggers.
Insomma dentro Alitalia ci sei cresciuto, a otto anni parole come cargo, tpf, memis erano un ambiente semantico naturale. Alitalia non era Pan-Am, ma veniva percepita nel bagliore di una mitologia dell’affinità, nella quale era delizioso affondare i denti, perché lontanissima, certo, ma comprensibile: la dimensione uranica del motore a reazione, l’aura semidivina dei comandanti di flotta, quelle creature a prova di troposfera. L’idea galvanizzante che il tuo Paese possedeva una flotta. A tredici anni sapevi spiegare ai compagni di classe il fenomeno della portanza, o la differenza tra un DC-9 e un DC-10. E sempre con tono molto tecnico raccontavi a quegli adolescenti con la bava alla bocca delle favolose hostess in maternità che avevi visto parcheggiate a girarsi i pollici dentro al centro elettronico – all’epoca era il trattamento standard.
Poi i tuoi compagni di classe andavano a festeggiare Pasquetta sul prato, tu volavi a Manhattan – ed era un clamoroso Ottantasei: sul Boeing 747 «Sestriere» sbranavi l’aragosta in salsa Mornay e ti scolavi il settimo succo d’arancia in fluttino sbirciando la poltrona dove una Raffaella Carrà molto ammirata da tua madre si stiracchiava davanti al film in programma: Cercasi Susan disperatamente (e ti sarebbe rimasta incollata addosso, quella New York dell’Ottantasei: pochi giorni di escursioni up-and-downtown prima di allungarti come un calamaretto implume su una deprimente spiaggia della Florida. Sulle fiancate dei pullman turistici in marcia lungo Fifth Avenue i poster di Buonasera Raffaella trasmesso dalla Rai USA si staccavano come arcane allegorie – lustrini a pioggia, festoni mameliani, fiocchi e coccarde, la Carrà avvolta da almeno trenta chili di visone ripresa sotto le sagome meditabonde delle Twin Towers. L’irruzione violenta di una realtà esageratamente domestica tra le quinte di una scenografia aliena, come poteva essere allora New York City. Grazie, ancora grazie Alitalia).
A fine volo lo steward, un ex collega di papà convertito al servizio di bordo, vi consegnava un irrituale borsone pieno di bottiglie di champagne occultato dalle sue braccia circospette, fra mutui, loschissimi sghignazzi. Le sospirate confezioni di Marlboro da tre pezzi che piovevano in grembo a tua madre, fumatrice e collezionista di cianfrusaglie alberghiere. I pellegrinaggi furtivi ai bagni dell’economy, per dare un’occhiata all’aereo: trambusto simil-domestico mescolato al sottofondo di gente impegnata a russare, umanità impaziente in transito lungo i corridoi, occlusione dei medesimi corridoi, coperte debordanti ovunque dai sedili, inciampi, e insomma caos, evaporazione del contegno, poi l’ennesimo urlo infantile stagliato nella cabina e «bambino vai a giocare fuori» sussurrato con tono falso-faceto da una hostess coi nervi a pezzi.
Sei grato ad Alitalia, con tutto te stesso. Impossibile staccarti da quell’immagine di romantico privilegio, perché nel frattempo anche la storica 610 per JFK ha cambiato faccia, adattandosi ai rovesci globali: qualche anno fa era in corso un’agitazione del personale di volo, tu sedevi in economy e masticavi il surrogato di un cracker mentre un assistente dal soma taurino percorreva il corridoio sbraitando:
«Ahó v’ho detto che dovete da stare seduti e cinturati, mannaggia la zozza!».
«Signora glielo ripeto, peccortesia, seduta e cinturata!».
Ma forse no, il Mito non tramonta, non smette di parlare (l’epopea di Alitalia, chissà quale determinazione a non morire o quale ostinazione di fallire vuole raccontarti), sei solo tu che hai perduto i benefici di un tempo – rasségnati.
(da Tropicario Italiano – 66th and 2nd -2020)
Le fotografie sono di Roberto Cavallini