Jean-Charles Vegliante
Ceppo Atto II, oggi si premia Vegliante

Il traduttore e l’enigma della poesia

Nel giorno della ricorrenza della morte di Bigongiari, a cui è intitolato il premio alla Poesia, il poeta francese, traduttore di Dante, viene celebrato a Pistoia. Anticipiamo un brano del testo che ha dedicato all’evento, in cui riflette su traduzione e scrittura

Oggi 7 ottobre a Pistoia Jean-Charles Vegliante riceve il Premio Ceppo Internazionale Piero Bigongiari 2021, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi. Del grande poeta e traduttore francese (sua una versione integrale della Commedia dantesca per Gallimard), nato a Roma nel 1947, è appena uscita l’antologia delle ultime poesie Rauco in noi un linguaggio (Interno Poesia) a cura di Mia Lecomte, che ha per prefazione la “Ceppo Piero Bigongiari Lecture” 2021 che sarà presentata a Pistoia. Eccone un estratto dell’inizio e della fine. Del nostro collaboratore Alberto Fraccacreta (Premio Ceppo Succedeoggi Leone Piccioni 2021) leggi qui (https://www.succedeoggi.it/wordpress?s=vegliante) una sua intervista. Info sul Premio: http://urly.it/3ft8d

Jean-Charles Vegliante

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La traduzione, quasi scambio vivo con persone assenti o scomparse, lungo «le strade leggere dei morti / percorse da viventi leggeri come morti» (Bigongiari, Rogo), nel senso invece dell’essere tradotti, sarà senz’altro – secondo la chiara formula fortiniana – una valida «prova di resistenza dei materiali» per il testo di origine medesimo. Di qui, forse, la ragione primaria della reticenza che provano molti scrittori bilingui ad auto-tradurre se stessi. Viceversa, la riscoperta dei propri testi girati in lingua altra può essere l’occasione giusta per leggersi con l’occhio nuovo – o relativamente rinnovato – del lettore semplice, schietto, naïf, «rifatto sì come piante novelle» (Purg. xxxiii, 143) magari… Due sono allora, in sostanza, gli atteggiamenti di fronte al testo di destinazione: sia di gradita visita a un lontano parente, con la tentazione di andare a rivedersi il testo originale, per qualche possibile miglioria, sia di delusione e sùbita voglia di “correggere” la versione altra, giudicata imperfetta o addirittura errata. Si pensi ai due estremi di Kundera eCabrera Infante rispetto ai loro traduttori. Oppure, con entrambe le opzioni, alla scrittura bilingue in proprio di Ungaretti. Tutto ciò, s’intende, amplificato se dall’uno all’altro testo ci sia stato anche passaggio da un sesso all’altro di chi ha scritto: come nel caso presente di Mia Lecomte – almeno per me, non banale. 

Semplificando, molto, a partire dalla mia esperienza alquanto lunga e complessa, direi che cotali atteggiamenti sono da subito presenti nel processo di scrittura primaria e, a maggior ragione, quando esso abbia a che fare con una prassi già latamente traduttiva, o traduzione-scrittura che dir si voglia. Come, sia ammesso tra parentesi, in concreto quasi tutte le produzioni letterarie contemporanee, dal momento cosiddetto post-moderno in poi. La mia traduttrice, studiosa di letterature transnazionali, ne è, credo, convinta quanto e più di me. Ora, il pericolo, da un lato, sta nel moltiplicare le più svariate “varianti”, fino all’impossibilità di giungere in porto, licenziando alfine un testo “definitivo”; dall’altro, in quello di perdersi fra infinite correzioni e ripensamenti e riscritture fino a sprofondare nell’abisso senza fondo dell’illusione di equivalenza perfetta, o perfettamente adeguata all’idea pura di Testo in una lingua incorruttibile (la gramatica dantesca, la Reine Sprache benjaminiana). Il quale ideale, come una volta si pensava fossero i testi sacri, a cominciare dalla Bibbia, risulterebbe purtroppo non solo inarrivabile ma alla lettera intraducibile. Ed eccoci daccapo. Tradurre-scrivere rimane pur sempre opera di compromissione; tutto sta nel non trasformarla in tradimento. (…)

L’enigma – mettiamo, in Leopardi, Pascoli, Calogero, Raboni – va preservato, anche a costo di qualche oscurità, e senza la stampella delle note. Esattamente come, in rari e preziosi casi della propria poesia, quelle zone di quasi incomprensione, in cui davvero si squarcia il velo; e in un lampo brevissimo, forse, fa capolino quella forza ombrosa chiamata Musa. O poesia, o impensato (inconscio?). Sono brani, brandelli di senso profondo che proseguono allora una loro vita indipendente; e non appartengono più a nessuno; chi vi ha fatto da “scriba” diventa un lettore fra gli altri; lasciano quindi a chi traduce-scrive piena intera responsabilità, per accogliere e accettare l’ombra e l’enigma. Il primo De Chirico, di cui ebbi a pubblicare tre o quattro testi francesi – con alcuni schizzi a essi contemporanei (Poèmes / Poesie, 1981) – fornirebbe al proposito un’ottima illustrazione. Ancora: chi traduce-scrive, come fa (da poeta) Mia Lecomte, propone pure, o “inventa” – si diceva così di Cristoforo Colombo per l’America – un percorso intentato attraverso l’opera o le opere di origine; allora, la giusta espressione “testo di destinazione” acquisisce il suo significato completo. Soggetto (assente) e desiderio (duplice) alfine vi si raggiungono. Ma, venendo infine a me, rileggo le quartine tradotte (prima dell’inserimento in Où nul ne veut se tenir LINKARE http://www.leparoleelecose.it/?p=6636) di cui una scelta segue in avanti) dall’amico prematuramente scomparso Mario Benedetti. In alcuni casi, il poeta mi aveva scritto circa le sue difficoltà a “capire”. Vien voglia di dire: Eppur funziona:

On ne voit d’abord que le ciel bleu si pâle
qu’il semble blanc, qu’il est rien, aspiration
vers le haut comme si l’escalier roulant
vous projetait (eschalier ?) dans un néant.

Non si vede che il cielo azzurro così pallido
che sembra bianco, che è niente, aspirazione
verso l’alto come se una scala mobile
proiettasse (una scala?) verso un nulla.

Un cri d’oiseau fou dans le matin sitôt
perdu en livides lumières, serti
de fumées, et ces mots vagues qui reviennent
d’où? ni sa table, ni son lit la déesse…

Un grido di uccello folle nel mattino presto
perduto in livide luci, incastonato
di fumi, e queste parole indefinite che ritornano
da dove? né la sua tavola, né il suo letto la dea

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Certamente, muovendosi entre les langues, i traduttori-scrittori realizzano dunque le potenzialità dei testi, ne “dispiegano” nuove inaudite dimensioni, li fanno capire-e-non-comprendere (mi si passi la complessità, caratteristica del tradurre stesso), quasi «or con altri, or con altri reggimenti» (Purg. xxxi, 123), mentre l’originale – “la cosa in sé” – pur tradotto non vi sembri modificato. Né tradito. Finché, richiudendo questo libro in qualche modo novello, l’autore possa dire:

Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l’idolo suo si trasmutava.

(Purg. XXXI, 124-126)

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